Una gerla appesa a Timau - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Una gerla appesa a Timau

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXII EDIZIONE - Treviso, 8 Gennaio 2017
Premio speciale
"Rosa d'Argento Alpino Carlo Tognarelli"

Una gerla appesa a Timau

di Pieraugusto De Pin - Arcade (TV)



La schiena incurvata, i muscoli dei polpacci tesi come molle, le vesti lunghe radenti il suolo fangoso, la testa china avvolta in un ampio fazzoletto nero per ripararsi dal sole a picco e detergere il sudore copioso che scendeva come lacrime sulla strada per Timau.
"Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan"
- Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame -
La voce stridula risuonò tra le vie strette di Paluzza.
Quattro donne in fila indiana imboccarono il sentiero che da Paluzza conduce al passo di Montecroce Carnico, quattro birilli da tenere sotto tiro per il cecchino austriaco, quattro furie carniche per il binocolo del Generale Lequio, le tre Marie come le chiamava la gente del posto, più la Rosalia da Cleulis.
- E’ più pesante del solito la gerla stamattina eh ragazze! – incominciò Maria Muser.
- Si vede che la battaglia infuria lassù. Ci hanno messo tante di quelle munizioni… - le rispose un’altra Maria, Maria Silverio di Timau.
- C’è mio fratello lassù… forse oggi lo vedo se ho fortuna- gli fece eco la terza Maria, la Plozner Méntil di Paluzza.
- Ma ho anche quattro piccole bocche da sfamare a casa - continuò - Mi dicono che sono matta da legare a fare un “viaggio” al giorno, a rischiare la pelle per quattro palanche.
- Lasciali parlare Maria… E’ tutta invidia la loro. Non hanno né coraggio né forza. Ma a noi, l’esercito ci tiene in palmo di mano e ci da modo di riempire lo stomaco di chi sta a casa, dato che i nostri uomini sono tutti al fronte… tuo marito è sul Carso se non sbaglio.
- Si, tra le doline del Carso, e sono tre mesi che non scrive…
- Ogni “viaggio” è pane sicuro per i nostri figli. E, per noi, rancio militare e la riconoscenza degli alpini!
- Uff… Ben detto Rosalia!
- Ma adesso, attente…! - tuonò la Plozner - dopo il prato sotto Timau si entra in zona rossa; saremo nel mirino del cecchino. Camminate basse, senza fermarvi. E distanziamoci l’una dall’altra magari zigzagando un po’ per non farsi beccare.
- Che giorno è oggi ragazze, che ho perso il conto? - incalzò la Plozner.
- E’ il 16 di febbraio del ’16. Maria… vedi che coincidenza con questo 16. Il sole oggi scalda di più, manda via l’inverno.
- Chissà che mandi via i cannoni, che mandi via la guerra!
Lungo la strada incontravano gli alpini, indaffarati a rinforzare camminamenti e baraccamenti. Loro le seguivano con gli occhi, le salutavano con calore: “forza ragazze, siamo con voi…Grazie ragazze! Mandi”. E, mentre le salutavano, il pensiero correva alle loro donne, alle fidanzate, alle mogli, alle madri inconsolabili…
Nella zona dell’alto But, quell’inverno, c’erano circa 12.000 soldati che dovevano difendere il Passo Monte Croce e tutte le alture circostanti dai continui assalti austriaci. Avevano bisogno ogni giorno di acqua, vettovaglie, munizioni, medicinali e materiali per rinforzare le postazioni. E Ogni cosa doveva essere trasportata a spalla.
Era stato così che alcune donne dell’alta Carnia si erano offerte come “portatrici”. Furono dotate di un apposito bracciale rosso con stampato il numero del reparto da cui dipendevano. Il carico dei rifornimenti da portare alle prime linee, era di 40 kg e anche più.
L'età variava da quindici a sessant'anni, e nelle emergenze, venivano affiancate anche da vecchi e bambini. Se necessario, venivano chiamate ad ogni ora del giorno e della notte.
Ricevevano il compenso di una lira e cinquanta centesimi a “viaggio”.
Così, la gerla di Maria Plozner Méntil, giovane madre di 32 anni, coraggiosa e forte, rimase appesa ad un ramo di pino mugo, lassù a Timau.
- Dai che manca poco Rosalia, la parte più dura l’abbiamo passata…
- Dici sempre così a questo punto Maria, perché mi vedi con la lingua fuori.
Maria, di rimando:
- Non ti rispondo neanche perché manca il fiato anche a me. Troppo peso, troppo peso ci caricano ultimamente!
- E senti che fracasso lassù al passo, se le stanno suonando di gran carica con cannone e mitraglia… Oh Dio… Dio, come facciamo a salire in queste condizioni.
- Taci, che finora non ci hanno preso di mira.
- Mai paura donne! “Mai avonde!” Adesso il camminamento piega a sinistra, e noi ci sediamo un minuto al riparo, all’ombra dei pini mughi… e riprendiamo fiato. Non siamo mica muli veh - sbraitò Maria Plozner Méntil. – Portatrici sì! Ma non bestie da soma.
- Guarda Maria, si vede bene Paluzza da quassù, non ci avevo mai fatto caso finora - osservò con sorpresa Maria Silverio da Timau, volgendo lo sguardo a valle, dopo che le quattro donne ebbero deposto le gerle e si furono accucciate all’ombra dei pini.
- Non farmi pensare a casa, fame ‘na carità! Già son qua con due cuori, che tremo a ogni passo. Se poi mi fai venire in mente i miei angioletti, allora perdo le forze. Per fortuna ci pensa mia suocera; li ho lasciati in buone mani.
- Quanto ha il più grande? – le domandò Maria Silverio detta Nena.
- Ha bei 10 anni il mio ometto- rispose la Plozner, - ha imparato a mungere e a fare il formaggio. Lavora come un grande sai! Ogni mattina mi guarda partire e mi dice: “non preoccuparti mamma, ci penso io ai più piccoli…Non pensare…” -
Intanto le lacrime rigavano il volto della giovane donna poco più che trentenne che volgeva lo sguardo lontano, oltre la corona di monti sovrastanti, a cercare la luce calda del sole, a cercare la speranza del domani.
- Ma ci sono anche gli altri tre, continuò la Plozner: Sara, Angelino e Dorina. Due maschi e due femmine. Tutti bravi, vivaci, ma obbedienti. Non occorre ripetergli le cose. La più piccola ha solo tre anni. Vedeste com’è bella Dorina!
- I miei invece sono tre pesti - disse Maria Muser – Pietro ha sei anni e assomiglia tutto a me, Armando cinque e Clelia, l’ultima, anche lei di tre anni, che quando mi vede partire la mattina, si attacca alle gonne e strilla a più non posso da cavare il cuore.
- E come fai a calmarla? Le chiede la Nena.
- Le dico che vado a prendere lo zucchero. Lei va matta per lo zucchero! Così le passa il magone e smette di piangere.
- Ma guarda! adesso vedo che hai la gerla nuova Maria! - osservò la Muser.
- Bella! Dissero in coro anche le altre.
- Ah! Vi siete accorte finalmente! Sono quattro giorni che la uso ormai. Me l’ha fatta il mio Francesco l’ultima volta che è venuto a casa in licenza. Ma l’ho messa in funzione soltanto adesso.
- Bella! alta, capiente e comoda da portare, aggiunse la Silverio.
- Così ogni mattina, quando i militari a Paluzza, me la caricano di cartucce, pane e medicine mi sembra di avere vicino il mio Francesco che mi abbraccia da dietro le spalle con le sue robuste braccia e mi rassicura. Così sento meno la fatica.
La gerla di Maria Plozner Méntil era dotata di due robuste cinghie di cuoio che, una volta indossate e in tensione aderivano bene, non segnavano la pelle delle spalle e facevano in modo che il peso scaricasse le sue forze in modo omogeneo sulla schiena della “portatrice”.
- Ben! Adesso riprendiamo la strada, ragazze - disse la Plozner, alzandosi da terra.
- Se non ci schiodiamo di qui va a finire che arriviamo in cima dopo mezzogiorno. E la giornata così è andata! - continuò la Nena.
- Già, aggiunse la Silverio, i mestieri a casa non si fanno da soli. Prima di sera devo ancora ammucchiare il fieno che è secco al punto giusto; non vorrei che si inumidisse.
- Gambe in spalla allora! “anin!”
E le quattro ricominciarono a incedere sull’erta, tenendosi al riparo ora della trincea scavata dai genieri, ora delle macchie di pini mughi che popolavano quota millecinquecento, ora delle prime rocce che offrivano opportuni anfratti fuori dalla vista dei cecchini austriaci.
- Oh issa! Oh issa! - La Plozner segnava il passo alle altre stando in testa alla breve fila e infondendo cadenza ed energia all’avanzata delle “portatrici”.
Intanto, qualcuno dall’alto le stava osservando…
- Arrivano, arrivano! - gridarono gli alpini dell’11°, da sopra l’accampamento mimetizzato tra le rocce di Passo Monte Croce Carnico.
- Parolin, vai ad aiutare… - ordinò il Tenente Piovesan
- Chiama anche Vendruscolo, Piccin e Colombini! Sbrigatevi, andate a togliere le gerle dalle spalle delle “portatrici”, non vedete che sono stremate!
Gli alpini del presidio si precipitarono in aiuto delle quattro donne, ormai piegate in due dalla fatica.
- Era ora fioi! Bravi! Grazie! - disse la Plozner sganciando le cinghie e buttandosi sull’erba boccheggiante.
- Stamattina ci hanno messo piombo puro nelle gerle giù a Paluzza… Ci faranno schiattare di questo passo. Fatemi parlare con il Maggiore voglio fargli provare la gerla. Vediamo se è capace di mettersela in spalla da solo!
- Agli ordini, Maria! Ma intanto riposatevi un po’. Ti chiamo subito il maggiore, così gli fai presente la questione.
- Ragazze, diteglielo anche voi che non siamo muli! Donne siamo e coraggiose… E forti… Ma non bestie!!!
Il Tenente si allontanò e si diresse alla baracca del comandante. Ne uscirono poco dopo entrambi.
- Ah, ecco le Marie! - esordì il Maggiore Oggioni avvicinandosi al drappello delle “portatrici” ansimanti e rosse in volto per lo sforzo compiuto.
- Ha voglia di scherzare eh! - gli rispose la Muser, puntandogli gli occhi addosso.
- Provi a mettersi in spalla una di queste gerle se è capace, e avverta gli ufficiali di Paluzza che noi ci rifiutiamo di portare ancora carichi simili. Domani ci pensate voi!
- Calma donne! Ho capito perfettamente l’antifona - disse Oggioni, con tono accondiscendente.
- Manderò un dispaccio al campo base. Questo errore non si ripeterà! D’ora in poi sarete trattate con i guanti bianchi. Promesso!
- Tenente Piovesan, faccia distribuire alle “portatrici” una dose doppia di cordiale. Me le rimetta in sesto. E poi date loro pane e formaggio a volontà.
- Questo è parlare chiaro - intervenne Nena. -Adesso ci intendiamo!
- Eccovi la paga donne! -  replicò il Maggiore mettendo in mano a ciascuna delle portatrici una lira e mezza di compenso per il “viaggio” effettuato –Ve li siete sudati questi soldi. Non sarete mai pagate abbastanza per quello che fate.
- Che fa adesso, ci blandisce con belle paroline? Fatti, non parole, Signor Maggiore, oppure andate a prendervi dei muli per i vostri trasporti.
Dopo che ebbero ripreso un po’ di fiato, sul far del mezzogiorno, le tre Marie e Rosalia di Cleulis si misero sulla via del ritorno, riannodandosi i fazzoletti in testa, sazie di cibo e della riconoscenza del reparto alpino di stanza a Passo Monte Croce.
Le gerle sulle spalle non le avvertivano neanche, tanto leggere erano diventate dopo che ne era stato tolto il contenuto.
La mente delle donne era già a casa, dai figli lasciati nel letto la mattina stessa, alle tante faccende ancora da sbrigare prima del tramonto.
Scesero dunque insieme dalla montagna, chiacchierando allegramente fino a raggiungere la località di Malpasso. Poi si separarono. Maria Méntil chiese di fare una breve sosta per poi correre a valle. Ma le altre due Marie risposero che avevano fretta di rientrare subito. Si salutarono.
Si fermò allora con Maria Plozner l’amica Rosalia di Cleulis. Si sedettero entrambe sul ciglio del sentiero.
- Spero che il mio Francesco ritorni presto - disse sottovoce Maria - che questa dannata guerra finisca perché ci vuole un uomo alla testa di una famiglia.
- Già, siamo rimaste solo noi donne a mandare avanti la baracca - le fece eco Rosalia.
- Quanto bene si sta sedute qui in santa pace - riprese Maria -Vorrei rimanere a mirare il paesaggio come non faccio mai per la fretta e la paura. E’ proprio un bel vedere!
Erano immerse in una calma inusuale per loro, e stettero qualche minuto a guardarsi intorno soddisfatte.
Ma qualcun altro le stava puntando.
Maria stava indicando la cima del monte Comeglians, con le sue pendici innevate quando due colpi echeggiarono nell’aria in rapida successione, senza preavviso. Rosalia vide sollevarsi una grossa zolla d’erba ai suoi piedi e sentì uscire dalla bocca dell’amica un urlo soffocato.
- Ro-sa-lia…mi hanno preso…
- Maria, nooo, noo! Dove ti hanno preso? - gridò Rosalia, cercando di mettere al riparo l’amica e se stessa.
- Q-u-i, al fianco - biascicò Maria, tenendo premuta la mano insanguinata appena sotto il costato.
- Pren-diti cura dei… miei bambini Rosalia… Dorina ha so-lo tre anni… Promet-timelo. Scrivi al mio Francesco che gli voglio be-ne e che ho servito la Patria come lui. Voglio… che si ricordi di me. Fa che tutti si ricordino di me…
- Non parlare… Non sforzarti. Ce la facciamo! Adesso chiamo aiuto…
- E’ inutile lo sento che… è inutile. Stammi… vicino ti prego…
- Maria, Maria! - La chiamò disperatamente Rosalia.
Ma non ebbe più risposta. Il volto di Maria Plozner Méntil sbiancò di colpo, gli occhi fissi in alto, a contemplare il cielo. Aveva perso conoscenza.
Rosalia urlò e chiese aiuto con quanto fiato aveva in corpo, fino a quando sbucarono come dal nulla gli alpini che caricarono Maria Plozner su una barella e la portarono al presidio medico di Paluzza. Lei rimase immobile, inerte. Le martellavano nella mente le parole tante volte pronunciate dall’amica all’inizio di ogni “viaggio”: "Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan".
Poi sollevarono di peso anche lei e la condussero al sicuro.
- La gerla - farfugliò Rosalia mentre la portavano in salvo – la gerla nuova di Maria… Andate a recuperare la sua gerla nuova…
Ma nessuno nella confusione del momento le diede retta. La gerla era diventata un’inutile zavorra, un oggetto senza valore, estraneo perché separato da chi la portava e ne faceva un tutt’uno con sé… un simbolo…
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