Scoglio duro di uomini - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Scoglio duro di uomini

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXII EDIZIONE - Treviso, 8 Gennaio 2017
Segnalato

Scoglio duro di uomini
(Io e gli Alpini, quarant'anni dopo)

di Gian Domenico Mazzocato - Treviso



Breve in cronaca. Quasi niente, insomma.
Un po' mi commuovo. Gesù, dopo tanti anni posso restituire.
Non che io abbia rubato, non proprio. Ma è come se l'avessi fatto.
Molto peggio, anzi. Ho profanato un luogo consacrato. Dal dolore.
L'unica scusante è che non mi rendevo conto.
A Gemona gli alpini inaugurano, sabato prossimo, un museo della cultura contadina. Ci sarò, diavolo, ci sarò. E qualche spiegazione riuscirò a darla.
Questa storia è ora che la racconti. Ma rielaborare è duro. Come coi piedi sospesi in ferrata. Quando il cuore è un tamburo e i sensi corde di violino.
Un terremoto è una ferita che non smette mai di guarire. Non cicatrizza mai.
E non solo nell' anima dei sopravvissuti, quelli che sono stati macerie tra le macerie. Quelli che hanno piantato croci in cimiteri che in pochi giorni sono diventati il doppio e il triplo di quello che erano. Prima.
No, non solo gli uomini. Anche nelle cose.
Perché, quando tutto è stato ricostruito, quel senso di nuovo e di pulito, così asettico, così rilucente, suggerisce che non c'è più passato. Soltanto il presente. Esorcizza la paura che la terra abbia ancora un brivido.
Gemona ha visto la sua chiesa aprirsi con leggerezza, uno sbuffo di pietra candida, come fanno certe scatole di bomboniere. Un esplodere, uno stendersi al suolo assoluto. Un pugno che si apre e, della forza che era quel pugno, restano sul tavolo solo le dita inermi e indifese.
Certo la gente di Gemona si è chiesta quale sonno avesse ottenebrato gli occhi di Maria Assunta.
Non era lei, santoddio, che se ne doveva occupare? Lei, la patrona.
Qui, in Friuli, il dottor Charles Francis Richter, la sera del 6 maggio 1976, alle nove precise, ha fatto il notaio alla magnitudo della morte.
Seipuntoquattro sulla scala da lui elaborata. Cioè mille morti, cioè la fine del mondo.
La gente di Gemona ha deciso che la bomboniera doveva tornare ad essere scrigno, col suo tesoro di umana pietà dentro. Ha spinto su i muri laterali, a forza di braccia, quasi.
E poi, per ultima, la splendente facciata coi fiori dei rosoni immensi e la statua ciclopica di San Cristoforo, alta come quattro uomini, uno sulle spalle dell'altro.
Il campanile si era afflosciato come un castello di carte. In un amen. Lo dovettero ricostruire pietra dopo pietra. Ma con le sue pietre, quelle che lo facevano bello e visibile da distante prima dell'apocalisse. Un dito puntato al cielo.
Il 6 maggio era giovedì. Inaugurò una settimana di passione e di dolore. I primi soccorsi, la disorganizzazione che cercava di arrestare il caos. Tentava di pianificare se stessa e di trasformarsi in parvenza di ordine.
Quando sono capitato a Gemona ero un giornalista alle prime armi, neanche 24 ore dopo il sisma.
Scattavo una foto dietro l'altra con la mia Zenit (miserabile reflex russa, quanto consentiva la mia finanza di studente di lettere). Bianco e nero, pellicola contrastata e drammatica Mandavo i rullini ancora da sviluppare ai giornali, sfruttando corrieri improvvisati.
Vai a Udine, puoi passare al Messaggero? Senti, tu che torni a Trieste, sai dov'è la redazione del Piccolo?
Non so quanti di quei rullini siano arrivati a buon fine, quante mie foto siano andate sui giornali. E soprattutto quante abbiano avuto il nome del loro autore in didascalia.
Ma ero più forte e incosciente di un inviato di guerra, non dormivo e non calcolavo il pericolo. Non mangiavo, stavo su di adrenalina pura.
Ho scoperto che esiste un'ebbrezza della solitudine e della paura. Uno stordimento assoluto, un acuirsi della sensibilità.
Non lo credevo possibile. Ero un ragazzo, sono diventato uomo.
Ho pianto di rabbia, ma non di dolore. Fino a quando mi sono reso conto che non serviva a nulla.
Mi hanno salvato gli alpini, il primo pasto dopo due giorni.
Gli alpini. Con la cucina da campo e il fuoco acceso. Una fiaccola di speranza.
Dormire sotto la provvisorietà di una tenda. Anche questo ha trasformato la mia pelle in corteccia.
Ho visto crepuscoli dell' alba e crepuscoli di tramonti. Pioggia a dirotto, sole cocente.
Un giorno sfarfallò un po' di neve. All'improvviso, senza che la tramontana che scendeva cattiva dal nord, ne recasse l'odore.
Gli alpini avevano tirato su il campo sotto il duomo di Gemona, al riparo di un muretto che aveva resistito al sisma e sembrava intenzionato a farlo anche sotto le scosse di assestamento.
Un posto compatto, uomini e oggetti, uno scoglio duro battuto dai marosi. La cucina, la cisterna per l'acqua, il magazzino dei viveri. Chi procurava legna da ardere, chi stava ai fornelli. Chi organizzava la fila dei furlani che aspettavano disperati, con la gamella in mano.
La domenica di quella settimana di passione c'erano già pane caldo e brodo bollente. Ai colpi di coda del terremoto ci eravamo abituati. Ci scherzavamo. Scommettevamo sul tempo della botta successiva.
Il lunedì di passione, in poche ore mi accadde di vedere la mia vita girarsi e di ritrovare mia nonna Ida.
"Co te gà fignio co chea machineta del casso, vien qua a darne 'na mano Te me par 'na jena sue carogne. Vien bear un giosso de cafè".
Cominciava a far buio. Con una folata di caffè mi raggiunse la voce di Bepi, l'alpino.
Dopo qualche ora, avrei saputo tutto di lui. Che veniva da un paesino del Bellunese, San Tomaso.
Dal sagrato della chiesa, nei giorni senza foschia, si poteva abbracciare con lo sguardo la vallata del Cordevole, fino ad Alleghe e al suo lago. E più in giù, il congiungersi di Cordevole e Biois.
Andavano insieme nella Piave granda.
Ci tenne a dirmi che aveva due morose, una a monte e una a valle, la prima bionda e l'altra mora.
Non mi sono mai pensato di chiedergli cosa volesse dire questa geografia delle fidanzate e soprattutto se il colore dei capelli fosse in relazione con lo stare a monte o a valle.
E' che in certe situazioni, quando il mondo si ribalta, bastano due parole in fila, con mezzo sorriso sulle labbra, per dare l'illusione che ci sia una logica.
Il profumo di caffè veniva da un paiolo appeso a una catena, sopra un fuoco di pigne e listarelle di abete.
Il caffè per infusione è il beverone più tremendo che si possa immaginare. Una cosa triste. Lascia in bocca piccoli grumi di polvere ed è come una marmellata. Più cucchiaiate di polvere nera si buttano dentro, più il caffè si fa compatto. Da farci galleggiare uno scarpone. E, per quanto si giri il mestolo nel paiolo, lega i denti.
Naturalmente i bravi alpini avevano un rimedio appropriato. Consolidato dall' esperienza.
Rovesciavano nel brodo nero del caffè un paio di bottiglie di acquavite.
Lo facevano, ogni volta, apparire come un rito. Lo allungavano, dicevano proprio così. E sorridevano.
In realtà a officiare la liturgia era sempre Walter, un montanaro di Longarone che serbava nel cuore un altro universo crocifisso, la vallata uccisa dal Vajont. Non c'era discussione: il ruolo era suo perché a casa deteneva un alambicco da cui distillava grappa clandestina.
In autunno, dalle reliquie della vendemmia. Di notte e nel folto della foresta.
Walter era un filosofo. Per lui il caffè giustificava la propria esistenza solo nella versione potenziata. Dalla grappa, ovviamente. Il nero e la trasparenza, la notte e il giorno fusi insieme.
Senza zucchero, che rovinava tutto.
Così diluito, il brodo nero correva facile in gola.
Nel buio, la morte ci stringeva con assedio soffocante. Ma avevamo la forza di raccontarci l'un l'altro, a bassa voce. Fui per tutti "el profesor".
Rivedevo la grolla per il caffè alla valdostana che i miei nonni tenevano sul trave del focolare, accanto alle foto dei nipoti. Pancia enorme, ma sei beccucci soltanto. Bisognava adattarsi, non era per schizzinosi. Le scorzette di arancia, tostate nella grappa, garantivano immunità totale.
AI riparo del muretto sotto il duomo, a girare di bocca in bocca, non c'era una grolla ma una gran scodella. Sbreccata, tagliente, da starei attenti. I sorsi facevano rumore, suscitavano qualche risata.
"Basta bocia, assene un fià anca a chialtri".
Ma era per non piangere, perché la notte aggiungeva tristezza a tristezza.
Molti erano bellunesi. Tanti i furlani che non sapevano se essere felici perché il terremoto, le loro case le aveva solo lambite, o disperati per quella strage della loro gente.
Gildo veniva dalle colline veronesi. E Antonio, trevisano come me, però dai Santi Angeli, sulla cima del Montello, la collina su cui va a sbattere la Piave al suo affacciarsi in pianura. C'erano i veneziani, sbalzati in montagna direttamente dalla laguna.
Alfeo aveva studiato in seminario a Padova e diceva che prima o poi gli ordini santi li avrebbe presi davvero. Ma lì si chiedeva dove si fosse nascosto Dio.
In quelle serate ci giurammo amicizia. Ci parve che non potesse esistere altro al mondo che quel panorama disperato e che noi ci saremmo stati immersi per l'eternità. A darsi una mano l'un l'altro.
Fratelli.
Negli anni non mi è mai capitato di incrociare qualcuno di loro, ma ho sempre conservato nel mio cuore un posto per ogni volto.
Ora che sono vecchio, faccio più fatica a far coincidere facce e nomi. Ma persiste nella mia mente la fragranza del fuoco fumoso, della legna intrisa di resina, della grappa distillata alla buona.
La notte si dormiva poco. La morte ha un odore terribile che devasta l'anima. Non basta chiudere gli occhi per cancellare l'affiorare di una mano dalle macerie o un volto senza più occhi e aggrumato di sangue.
Fu nella notte tra lunedì e martedì che decisi di mettermi a scavare anch'io. Pioveva piano, una acquetta maligna che entrava nelle ossa. Avevo brividi, anche nell'anima.
Stavo finendo i rullini di pellicola e dovevo centellinarmeli.
E del resto ormai era arrivata la TV e i fotografi erano uno squadrone. Professionisti, altro che il ragazzino con la Zenit.
Il martedì di passione rividi Ida, mia nonna. Una visione, pochi istanti.
Alta come una dea e col culo ben disegnato, nonostante la gonna che la infagottava. Bellissima, con gli occhi azzurri, traccia inconfutabile di qualche intromissione tedesca nel nostro albero genealogico.
Mi folgorò con gli occhi ridenti e marini. Teneva in mano i lunghi manici della palla nera.
Gli anni avevano depositato qualche ruga sulla sua fronte. E agli angoli della bocca. Soltanto.
Quando rideva tornava ad essere una ragazzina.
Non so come raccontare. È la storia del furto, della profanazione.
Con passo incerto, sopra le macerie di una palazzina, sulla strada per Osoppo. Mattoni rossi, spezzoni di intonaco come lame di rasoi. I tondini di ferro delle fondazioni in cemento armato.
Spuntavano beffardi.
La voce di Alberto, un vicentino di Marostica. Gran giocatore di scacchi, a sentir lui. Ma gli altri dicevano che era solo un figurante nella partita che si giocava in piazza.
"Vien qua profesor, che provemo a vedar cossa che ghe xè qua soto".
Era un modo di parlare pieno di pudore. Tutti sapevamo. Forse c'è qualcuno ancora vivo. Tiriamo le orecchie, proviamo ad ascoltare. Moltiplichiamo le cautele.
Non so bene se quella palla di ferro abbrustolito dal fuoco e dai lunghi manici abbia un nome preciso. Ma so che serviva a tostare il caffè sulle fiamme del focolare. Bisognava essere accorti, abilissimi.
Nonna Ida era magistrale.
I tempi giusti, i colpetti giusti. Di braccio e di polso. Anche di spalla. Un ritmo.
La vecchia Ida dagli occhi azzurri giurava. Riusciva a capire che i chicchi erano cotti al punto giusto, perché il rumore sulle pareti interne si faceva più dolce. Una bugia di sicuro. Ma è assodato che mia nonna non ha mai sciupato neanche un pugnetto di caffè.
E quel giorno, dalle macerie di un appartamento sulla strada per Osoppo spuntò, sotto il mio badile, una di quelle palle. Subito dopo, un macinino di legno di bosso tornito. Cilindrico e pesante, il manico che era una piccola scultura in ferro battuto. Un oggetto bellissimo nonostante le ammaccature.
Ovvio, non si poteva toccare nulla. Li chiamano sciacalli quelli che rubano.
Ma io avevo rivisto per un attimo lo splendore luminoso di nonna Ida, curva sul focolare, intenta ad ascoltare il rumore dolce dei chicchi. La loro vibrazione misteriosa. Come la suonatrice di uno strumento musicale esotico.
Mi guardai intorno, infilai nello zaino la palla e il macinino.
Li ho conservati e lustrati per tutti questi anni.
Quella piccola notizia in cronaca mi ha restituito un po' di pace.
Ho cercato in rete un indirizzo utile e ho fatto una mail ai responsabili del museo di Gemona.
Adesso sono qui che butto giù qualche appunto per i cinque minuti che mi sono stati concessi durante la cerimonia di inaugurazione.
Dirò grazie e racconterò come la sera stessa di quel giorno, accanto al fuoco dei bravi alpini, abbia messo radici in me un senso di colpa tremendo. Sapevo che avevo fatto qualcosa di sbagliato, anche se c'era nonna Ida a spingermi.
Prenderò in mano la palla di ferro nero e parlerò di quella donna meravigliosa. Le sue rughe sottili e levigate, la sua risata da ragazzina.
Prenderò in mano il macinino e leggerò quello che racconta Jean Giono, nel suo romanzo più famoso, l'Ussaro sopra il tetto. Giono disegna un panorama dilaniato fisicamente e moralmente, la Provenza devastata dal colera nei primi anni dell'Ottocento.
E che altro era il Friuli del terremoto? Il Friuli abbandonato da Dio.
"La suora entrava in una casa colpita dal colera. Bastavano pochi gesti, semplicissimi, per restituire la casa ed i suoi abitanti alla normalità. Spesso, quando lo spettacolo era così orribile da sentirsi accapponare la pelle, si sedeva, si metteva il macinino tra le gambe, e cominciava a macinare il caffè. E all'istante l'uomo o la donna cessavano di essere cani".
Mi nasconderò dietro le parole del grande romanziere francese e chiederò perdono.
Saluterò idealmente quell'umanità dolente e, a un tempo, piena di speranza che mi occupa da sempre l'anima. Vi ha messo tende più durature di una casa di mattoni.
I miei amici alpini che presidiano e confortano la mia memoria.
Chissà se il seminarista Alfeo è diventato prete. Mi piacerebbe sapere dov' è Bepi, l'alpino che veniva da San Tomaso. Avrà sposato la morosa a valle o quella a monte? Qualunque cosa volesse dire.
E se mi capitasse di passare vicino al casolare di Walter, in una forra di Val Vajont, riconoscerei senza esitazioni il sentore aspro della sua grappa proibita e illegale.
Salderò il mio debito. Rievocandoli.
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