Ricordo che... - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Ricordo che...

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Premio speciale
Rosa d'Argento "Manilla Bosi"

Ricordo che...

di Katia Tormen - Trichiana (BL)



Le ultime note della banda si spengono nell’aria.
I musicisti appoggiano gli strumenti e si fanno il segno della croce.
Resta solo il garrire delle rondini che si inseguono nel cielo e qualche colpo di tosse nell’aria immobile. Poi la tromba intona il “Silenzio”, alcuni cappelli piumati scendono dalle teste e si avvicinano ai cuori mentre dalla lunga macchina scura uomini vestiti di nero estraggono una cassettina e mi fanno segno di avvicinarmi.
Prendo per mano mia sorella e infilo meccanicamente un passo dopo l’altro, appoggio una mano sul legno. Non sento niente, non un brivido, non una scossa, solo la superficie liscia; chissà cosa m’aspettavo poi, penso solo “Tutto qui?”. Sento l’abbraccio di Daniela farsi più stretto, le scorgo una lacrima sulla guancia, lei fa un gesto quasi impercettibile.
Gli uomini in nero, la testa china, si avvicinano al foro nella parete di marmo e vi infilano la cassa, il grigio pare inghiottirla.
A turno, mesti, i presenti si avvicinano a noi, ci stringono mani, ci mormorano parole.
Non ci vuole molto, sono quasi solo vecchi, più vecchi di noi, poi il loculo viene chiuso.
Mentre ancora gli ultimi si attardano ad accarezzare le lettere dorate o a recitare un’avemaria esco furtivamente e vado alla macchina, respiro a pieni polmoni, l’aria al di fuori di quelle mura ha un sapore diverso, sa di vita, sa di promesse. Quando torno, ho in mano una scatola di latta, vecchia, rovinata dal tempo, sulla quale non si riesce più a distinguere l’immagine del coperchio. Daniela me la strappa quasi di mano, mi dice di aspettare, che non ci sia più nessuno. Poi apre il coperchio e mi fissa negli occhi: “Fallo tu, era un’idea tua!”
Ricordo che...
mi alzavo in punta di piedi, le manine ancorate al bordo del comò e spiavo la foto nella cornice dorata. Lo facevo di nascosto, guai se mia madre mi avesse sorpresa in camera sua. Ma volevo vedere, avevo estremo bisogno di imprimermi nella mente il volto di quel fratello che praticamente non conoscevo. Dovevo essere in grado di individuarlo tra gli altri, quando sarebbe tornato.
Da quello scatto in bianco e nero lui pareva fissare proprio me, come se gli paresse strano vedermi crescere giorno dopo giorno: avevo due anni quando era partito per il fronte, mia sorella Daniela, di tre anni più vecchia, mi raccontava ridendo che non riuscivo nemmeno a dire il suo nome, lo storpiavo in continuazione.
Aveva solo 20 anni, Vittorio, quando era arrivata la chiamata, quando aveva dovuto dire “obbedisco”, quando si era fatto scattare quella foto dove bello e fiero, in divisa, ostentava un coraggio che probabilmente era ben lungi dal possedere.
Era il primo figlio e l’unico maschio. Tra lui e noi due bambine altri tre maschi morti poco dopo il parto e una femmina nata già angelo.
Abitavamo in un paesino tra i monti, case di contadini, la chiesa, la piccola piazza. Il fronte era lontano, la guerra, quella feroce, era quasi un ‘astrazione, non fosse stato per le lettere dei soldati che arrivavano e che raccontavano di orrore e morte, di bombe e mitragliatrici, di fame e freddo.
Anche mio fratello scriveva.
Lettere che la mamma attendeva con impazienza e poi leggeva cento volte bagnandole di lacrime, seduta sul letto, con mio padre di fianco che le teneva la mano. Poi usciva, ci abbracciava e ci diceva “Vostro fratello vi saluta tanto” anche se non era vero. O forse lo era , ma non lo saprò mai perché quelle lettere non le ho mai più ritrovate.
Non passò molto tempo che il prete cominciò ad accompagnare il postino nel suo giro tra le case del paese. Non afferrai il motivo di quello strano sodalizio fino al giorno in cui, affacciata alla finestra, li vidi venire piano in direzione di casa nostra. “Andate di sopra!” - ci ordinò perentoriamente mia madre. Poi si avvicinò a mio padre e cominciò a pregare a bassa voce. Qualche minuto più tardi, salì a dirci di mettere il vestito scuro che c’era da andare dai nostri vicini a portare le condoglianze.
Ricordo che...
il cielo si riempiva di bagliori mentre il rumore dell’aereo si allontanava.
Mossi dal vento i fili argentati si posavano ovunque, sui prati, sugli alberi, sui campi, sulle teste di noi ragazzi che correvamo a raccoglierli sotto lo sguardo divertito del soldato nero.
Lui stava seduto all’ombra del faggio in cima alla collina, ci guardava correre a destra e sinistra e sorrideva, il fumo della sigaretta che saliva verso il cielo azzurro. Poi ci chiamava a raccolta con un fischio e distribuiva pezzi di cioccolata: era la cosa più buona che avessi mangiato in vita mia! Indicava le strisce di alluminio che tenevamo tra le mani e diceva “Chaff! Chaffì”. Noi non capivamo ma ridevamo con lui. “Quando torna Vittorio” - gli spiegavo fiduciosa che lui avrebbe compreso-“ le metteremo sui rami degli alberi e sugli archi del portico e faremo festa e verrai anche tu!”. Lui metteva la mano a pugno e alzava il pollice.
Io e Daniela mettevamo i fili d’argento in una scatola di latta. La mamma, solitamente refrattaria alle nostre ingenue trovate di ragazzine, ci aveva detto che era una buona idea, che nostro fratello avrebbe avuto una festa fantastica per il suo ritorno, con tutti i suoi amici, la musica e tanti biscotti col burro dei quali era goloso. Io non vedevo l’ora che arrivasse quel giorno, il giorno in cui quelli partiti per la guerra sarebbero tornati.
Intanto, però, da mesi non giungevano più notizie di Vittorio. Mia madre ripeteva, più a se stessa che a noi altre che non c’era da preoccuparsi, che probabilmente era in un luogo da cui non poteva spedire la posta.
Ricordo che...
mia madre era un tipo piuttosto burbero. Lavorava in casa e nei campi da mattina a sera, ma non ho memoria di un suo gesto di affetto né verso noi figlie né verso mio padre. Eppure non ho dubbi che ci amasse tutti quanti.
Quando cessarono di arrivare notizie da Vittorio, si chiuse in se stessa impegnata a combattere coi fantasmi che la tormentavano che erano quelli che in quel periodo vagavano nelle case di ogni famiglia. Sembrò perfino dimenticarsi di noi. Sentivo le assi del pavimento scricchiolare la notte, sapevo che non dormiva, che girava per casa sgranando il rosario. La vedevo consumarsi pian piano nell’attesa, attesa di una notizia o attesa di un ritorno.
Ricordo che...
Daniela entrò in casa gridando che erano tornati, che stavano attraversando giù al fiume. Io pensai subito ai tedeschi, cominciai a tremare, però lei mi prese per mano e mi trascinò lungo la collina. Con una mano tenevo sollevata la gonna per correre meglio, per correre verso Vittorio. Caddi e sentii la ghiaia piantarsi nelle ginocchia ma non ci badai, mio fratello non avrebbe fatto caso ad un paio di sbucciature.
In vista del ponte di barche, rallentammo l’andatura, i polmoni che reclamavano ossigeno. Sull’altra sponda, la piccola processione di uomini stava oltrepassando i resti del ponte di pietra che i tedeschi avevano fatto saltare durante la ritirata.
Ci fermammo sul ciglio polveroso, attorno a noi altra gente, volti carichi di speranza, mani frementi nell’attesa di stringere altre mani.
Passi lenti e pesanti sul legno delle barche. Quando ci sfilarono davanti, mi ritrovai a fissare volti di vecchi, stanchi, scavati, sporchi. Udimmo le prime grida di gioia: qualcuno aveva ritrovato un figlio, un fratello, uno sposo. Altri chiedevano notizie dei propri cari, ma i reduci scuotevano la testa, dicevano di non sapere, forse davvero non sapevano. Scrutai quei visi uno ad uno, attentamente, ma in nessuno riuscii a scovare gli stessi occhi che mi fissavano dalla cornice. Mi voltai verso mia sorella: era disorientata come me: “Forse è cambiato tanto...” disse, nel tentativo di darmi-di darsi- ancora una speranza, ma in quel mentre nostra madre ci raggiunse e col tono severo che le era usuale ci esortò a tornare a casa. “Tornerà coi prossimi!”-Asserì.
Ricordo che...
altri tornarono, non molti per la verità. A piccoli gruppi o uno alla volta quelli che si erano salvati fecero rientro alle loro case.
Non nostro fratello.
La scatola di latta era colma di lustrini, non passavano più aerei a lanciarli. Anche il nostro soldato nero se ne era andato e il faggio era stato tagliato per fame legna da ardere.
Cominciarono a circolare gli orribili racconti di quelli che si erano salvati e che avevano voglia di raccontare. Venimmo così a sapere che Vittorio era stato mandato in Russia, e che in quella terra lontana erano morte tantissime persone.
Chi ci raccontò questo, non so se per pietà o perché lo ritenesse plausibile, disse che esisteva la possibilità che fosse stato fatto prigioniero o che , ferito e disorientato, avesse trovato asilo presso qualche famiglia durante la ritirata.
“Sì, sicuramente è così. Non appena si sarà ripreso tornerà a casa”.
Mia madre spolverava la foto sul comò e aspettava il ritorno del figlio. Quelle parole le avevano dato una speranza, una debole fiammella che lei alimentava costantemente con mille ipotesi, mille congetture, chiedendoci caparbiamente conferme che noi le davamo per timore di vedere sciogliersi la corazza che si era costruita addosso.
Ricordo che...
il tempo trascorse, passarono gli anni.
Mia madre, nella sua casa fra i monti, aspettava di veder comparire il figlio in fondo alla strada. Nonostante la croce al valor militare.
Nonostante la dichiarazione di morte presunta. Nonostante l’evidenza.
Mio padre l’aveva lasciata da sola a sperare, se ne era andato in silenzio una fredda mattina di novembre del ‘64. Si era spento col sorriso sulle labbra, lui sapeva che finalmente avrebbe ritrovato l’amato figlio. Lei continuò a spolverare la foto sul comò e ad aspettare che quel bel ragazzo in divisa facesse capolino dalla porta.
Non aveva niente di lui se non quella foto e le scarpe nere che metteva la domenica per andare alla messa. Nessun corpo da mettere in una bara, nessun posto dove andare a piangere e a portare fiori.
Sarebbe tornato!
Annotava date e avvenimenti su un quaderno. I nostri matrimoni, le nascite dei nipoti, le morti dei parenti. “Quando arriva Vittorio avrà bisogno di sapere cosa è successo qui in tutto questo tempo!”
Metteva il muso se provavamo a farla ragionare.
Poi arrivò di nuovo il tedesco, sotto forma di morbo di Alzheimer e ce la portò via per sempre. Prima spiritualmente, poi, un paio di mesi prima anche fisicamente.
Ricordo che...
non ci era voluto molto per stabilire che la vecchia casa al paese andava venduta. Nessuna di noi due era interessata a quello stabile fatiscente, a rinunciare alle comodità della città. Le nostre vite erano altrove, lì stavano il nostro passato, ma non erano ricordi particolarmente felici.
Io e Daniela ci eravamo date appuntamento per vedere se c’era qualcosa da recuperare, qualche vecchio mobile da rivendere a qualche rigattiere. Non eravamo più tornate da quando avevamo accompagnato mamma nella casa di riposo in cui aveva trascorso gli ultimi tre anni della sua vita. C’era odore di chiuso, di muffa e tanta polvere sopra i teli che allora avevamo steso per coprire i mobili. Quel giorno avevamo portato via solo quel che c’era di prezioso e le cose della mamma. Il resto era rimasto come lei lo aveva lasciato, le camicie di papà accuratamente appese sulle grucce di legno, i calzini rammendati nel cassetto, le coperte ripiegate e risposte nel grande armadio in corridoio.
Nessuna di noi due aveva voglia di parlare, volevamo solo fare in fretta e tornare alle nostre famiglie. Non lo dissi per timore di sembrare ridicola, ma sembrava davvero che in quella casa aleggiasse un fantasma, forse solo quello della nostra infanzia perduta.
Cominciammo ad infilare roba in un sacco giallo con scritto “Caritas”
“Purtroppo nel mondo c’è chi non può permettersi di seguire la moda, tanto vale dargli un mano!”- dissi a Daniela mentre le passavo alcuni maglioni.
Sul fondo dell’ultimo cassettone del comò, le mie mani urtarono qualcosa. “O mio Dio!” dissi, ben sapendo di cosa si trattava- “L’ha conservata per tutti questi anni!”
Ricordo che...
avevamo fatto la richiesta di rimpatrio senza crederci troppo, a dire il vero senza nemmeno saperne il motivo. A noi una tomba su cui piangere non serviva, noi sapevamo che nostro fratello era morto e lo avevamo già pianto in silenzio molte volte. Mi era mancato, o forse mi era mancato ciò che sarebbe potuto essere con lui presente. Mi ero tormentata per anni alla ricerca di un brandello di ricordo, di un particolare che mi rammentasse che per due anni lo avevo avuto vicino. Nonostante i miei sforzi, era come se non fosse mai esistito.
Ci avevano detto, che i resti erano stati ritrovati assieme a quelli di altri italiani in un piccolo cimitero nei pressi di Nikolaevka, che non sussistevano particolari ostacoli per far rientrare la salma in Italia, così avevamo acconsentito. Se non altro, lo dovevamo a nostra madre.
La notizia con la data dell’arrivo dei resti era arrivata però troppo tardi. Non avevamo avuto modo di farle sapere che suo figlio stava per tornare.
Alla fine è stato tutto come doveva essere: con la musica e gli amici di Vittorio, quei pochi rimasti. A casa ci aspettano i biscotti al burro fatti da mia figlia.
Prima di uscire dal cimitero mi attardo a osservare, tocco anch’io le lettere dorate, dico una preghiera. Guardo ancora una volta quella foto in bianco e nero- eppure sono sicura che sta fissando me-penso che mi dispiace non avere altro ricordo di lui.
Al posto dei fiori, tante piccole strisce argentate riflettono gli ultimi raggi di sole.
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