Polvere di marmo - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Polvere di marmo

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVII EDIZIONE
Arcade, 8 gennaio 2022
Premio speciale "Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

 
Polvere di marmo

 
di Marinella Miconi - Arona (NO)





Avevo raccolto le castagne tutto il giorno. Ne avevo riempiti tre sacchi. L’aria cominciava a rinfrescarsi e dalle case vicine arrivava l’odore di legna che bruciava nei camini. Una nube scura e sottile tagliava come una lama il sole che sembrava sanguinare come una ferita, tingendo il cielo di rosso e di ocra, mentre si nascondeva dietro il monte Tambura. In lontananza le cime Apuane erano diventate violacee. La Piana si colorava con i colori caldi dell’arancio e dei marroni, mentre gli altri paesani uscivano dal bosco trascinando il loro prezioso bottino di fatica. Tutti avrebbero aspettato il Giusè che, con la sua Ape, avrebbe caricato i sacchi per portarli all’essiccatoio. Io, invece, seduta su un vecchio tronco di castagno, aspettavo Beppe che scendeva dalla cava di marmo dopo una giornata di lavoro, per aiutarmi a portarli a casa. Un altro giorno passato a raccogliere castagne per infoltire le scorte – pensai – e così sarà domani e fino a quando non sarà finita la stagione del raccolto: questo era il compito delle donne di Figliano.
Ero cresciuta in quei boschi e ne conoscevo ogni sentiero, ogni albero, ogni roccia e i suoi ruscelli, il sapore delle loro acque pure che mormoravano tra le pietre levigate. Mi lasciavo guidare dal profumo che vi regnava e non mi era difficile scoprire, tra soffici cuscini di muschi, distese di mirtilli e, sotto l’ombra di felci rigogliose, funghi porcini nascosti agli occhi di molti. Quelle selve e quelle vette, sotto le quali ero nata, mi appartenevano e quel paesaggio familiare mi aveva sempre fatta sentire al sicuro, e da quando l’inquietudine della fuga di era insinuata dentro di me, lo sentivo più caro.
Ero molto stanca. Mi faceva male la schiena. Le mani sudate e grinzose per aver indossato i guanti di cuoio erano dolenti. Quella sera non avrei potuto scrivere. Il mio pensiero andò alla Sabè: chissà se oggi è arrivato qualcosa per me, pensai.
Alzai lo sguardo e lo vidi arrivare. Scendeva giù dal piano inclinato. La sua figura alta e imponente si stagliava contro l’ultimo raggio di sole. Vedevo le sue gambe lunghe e robuste avanzare con passo sicuro verso di me. Le spalle possenti accompagnavano il movimento delle braccia forti. Una mano stringeva un bastone, mentre nell’altra c’era un piccolo mazzo di gerani sanguigni e di fiori di cardo. Il vento fresco che si era alzato, muoveva i suoi capelli ondulati biondo scuro, lunghi fino alle spalle, tenuti fermi da una fascia di cotone che teneva sulla fronte.
«Ciao!» disse, appena mi raggiunse. «È tanto che aspetti?».
Non gli risposi subito, ma lo guardai. Lavorare in alto tra le montagne tra il cielo e il mare, in mezzo alle pietre bianche, aveva conferito alla sua carnagione il colorito intenso della terra bruciata, ma che metteva in evidenza gli occhi cerulei e lo sguardo fiero e volitivo.
I suoi abiti coperti di polvere di marmo e i sacchi di castagne posti vicino ai miei piedi erano i simboli di una vita che non volevo più fare.
«No, ma sono molto stanca» gli risposi sospirando.
«Tieni» disse, sorridendomi e porgendomi il mazzetto di fiori. Poi mi sfiorò la testa con la mano, sciogliendo il germoglio di nocciolo con cui avevo legato i capelli.
«Ecco, stai meglio così» mi disse guardandomi con tenerezza: «Non legarli mai».
«Grazie» risposi, e aggiunsi: «Ti devo parlare. Vieni domani sera a casa».
Mi scrutò, aggrottando la fronte. «Non sarà mica un’altra volta per quella storia che te ne vuoi andare? Ti sei messa nella testa questa voglia di andare a lavorare in città. Perché qui non lavori? E poi non pensi a noi?»
«Tu se vuoi puoi raggiungermi trovandoti un lavoro» risposi con un filo di voce.
«Io non vengo. Te l’ho detto tante volte. Il mio posto è lassù nei monti, all’aria aperta. Non voglio vivere in una città fumosa, voglio respirare il vento della Tambura che mi taglia la faccia. Voglio camminare nella pace dei miei boschi e non in mezzo al traffico. Io rimango qui a cavar marmo, come mio padre, i miei nonni e tutti quelli che mi hanno preceduto. Se devo morire, è meglio con lo scoppio di una mina in mezzo alla mia gente, che in un posto come quello. E tu starai qui con me!» mi gridò sulla faccia. «Stasera passo a casa tua e ne parliamo una volta per tutte».
«Questa sera no, viene la Sabè» gli risposi. Lui mi guardò con aria interrogativa mista a risentimento e se ne andò. Tornò con la jeep. Prese un sottile filo di ferro che aveva nell’abitacolo, lo ruppe con i denti in tre pezzi e legò i sacchi di castagne. Li caricò sulle spalle e li scaraventò dentro il portabagagli. Mi accompagnò a casa senza dire neanche una parola. Tremavo dentro. Avevo paura di perderlo.
C’era una cosa che Beppe non sapeva: io avevo cominciato a studiare, sui vecchi libri della mia scuola media. e li leggevo con avidità e con il rimpianto per non averli apprezzati prima. Avevo trovato nella lettura il mio rifugio dal mondo esterno che mi circondava, ormai estraneo per me, e avevo incredibilmente ritrovato alcuni dei miei pensieri e riflessioni in grandi autori del passato. L’idea che ci fosse qualcuno che condivideva la mia visione su alcuni aspetti della vita mi fece sentire meno sola. I libri erano diventati i miei migliori amici silenziosi e discreti di cui non potevo più fare a meno.
Avevo cominciato anche a scrivere. Anzi, già lo stavo facendo.
Scrivevo sempre di sera quando tutti erano a letto o chiusa nella mia stanza quando non uscivo con lui. Scrivere su quei fogli bianchi era come far venire alla luce i pensieri e le storie che giacevano da sempre dentro di me, incastrati sotto una spessa coltre di ghiaccio, di cui non avevo consapevolezza ma ne avvertivo la presenza. Studiare e scrivere significava per me fuggire dall’ignoranza che, come cemento nelle scarpe, mi impediva di avanzare nella vita. Come polvere di marmo copriva il cervello e gli occhi, nascondendo la conoscenza e la comprensione delle cose, e io volevo liberarmene, spazzarla via.
Sabè aveva fatto tutto il possibile per aiutarmi. Aveva trentotto anni, diciotto più di me. La consideravo come la sorella maggiore che non avevo mai avuto. Ogni settimana inviavo i miei racconti a sua cognata, insegnante di lettere presso un liceo di Lucca. Lei li correggeva e li rispediva a casa di Sabè. Nessuno era mai venuto a conoscenza di questa particolare corrispondenza che andava avanti ormai da un anno. La mia amica era riuscita a trovarmi un posto in una cartiera a Lucca, tramite suo fratello. In questo modo avrei potuto lavorare e frequentare una scuola. La mia inconfessabile ambizione era quella di iscrivermi in università alla facoltà di giornalismo. Sapevo che sarei esistita davvero solo nel momento in cui avrei cominciato a studiare. Ma sapevo anche che l’amore per Beppe sarebbe stato il ladro di questa opportunità.
Quella sera venne la Sabè. Avevo preparato per lei un invitante piatto di caldarroste, che l’aspettava al centro del tavolo, mentre le altre stavano arrostendo sul fuoco del camino. Avevo messo in frigo una bottiglia di vermentino dei colli di Luni, il suo preferito.
«Ciao!» mi salutò posando sul tavolo della cucina il mio ultimo racconto. «É riveduto e corretto», mi disse mostrandomi con un ampio sorriso la sua mascella prominente, mentre le brillavano gli occhi. Questa era una delle cose che apprezzavo di più in lei: la sua capacità di empatia.
«Bene, grazie. Penso però che sia arrivato il momento di dirlo a Beppe. Non ne posso più».
«Faresti bene bimba, anche perché è arrivata».
«Che cosa?»
«La lettera di presentazione al lavoro» mi disse, mentre l’estraeva dalla tasca, mostrando una gioiosa eccitazione.
La mia amica rimase a guardarmi.
«Che fai non sei contenta? Oh, non fare scherzi, eh?»
Poi si avvicinò, prendendomi per le spalle e guardandomi negli occhi mi disse: «Non devi avere rimpianti. Devi andare a inseguire il tuo sogno!»
Abbassai la testa senza rispondere. Ora che il sogno stava per realizzarsi avevo paura dell’ignoto e della vita nuova che avrei dovuto affrontare.
«Ma tu non hai mai avuto un sogno? Perché sei rimasta sempre qui?» le dissi per vincere l’imbarazzo, pensando che prima di allora non le avevo mai fatto questa domanda.
«Codesto è il mi sogno bimba! Io non posso e… non voglio andarmene. Non saprei mai vivere in un posto diverso. Ho provato molti anni fa, ma per quanto sia più bello e comodo vivere in città, per me non è mai stato. Qui ci son le facce ch’io voglio incontrare. Ho bisogno di vedere queste cime, stare in mezzo ai boschi, attraversare i torrenti, camminare tra le pietre e sui prati a cercar l’erbe, far legna e raccogliere castagne nelle selve. Son come la mi famiglia e me le sento dentro come le mi ossa sono parte di me ormai. Codeste son i mi libri, il mi sapere, la mi contentezza.»
L’eccitazione di Sabè nel pronunciare queste parole si leggeva nell’emozione dei suoi occhi lucidi. Aveva parlato senza prendere fiato come se volesse liberarsi da un pensiero che per troppo tempo si era portata dentro. Ora che l’avevo conosciuto, compresi che la forza del suo sogno non aveva incertezze e forse era superiore alla mia.
Quella mattina mi ero svegliata alle quattro. Avevo guardato fuori dalla finestra, il cielo era ancora nero e pieno di stelle. Poi mi ero seduta sul letto tra le cose da portare via: un discreto numero di libri e qualche abito. Guardavo perplessa la valigia aperta in attesa di essere riempita. Sospesa in un’indecisione che mi logorava, avevo cominciato a buttarci qualcosa dentro. Mi fermai un attimo. Con la testa tra le mani, pensavo a tutto quello che fino a quel momento era stato il mio mondo e che presto avrei lasciato. Esso mi chiamava con un canto irresistibile di sirene incantatrici, per distruggere il mio sogno.
Mi ritornò in mente l’immagine di Beppe nella sera in cui venne a casa. Gli avevo spiegato tutto.
Mi aveva lasciato parlare, guardandomi inebetito senza rispondere.
Gli spiegai che ero cambiata. Non ero più la ragazzina che lui aveva conosciuto, ero cresciuta e anche se l’amavo ancora non mi bastava più. Nella mia mente avevo maturato l’idea che si poteva vivere una vita migliore rispetto a quella che lui mi offriva. Al di là di quelle selve c’erano tante strade e, tra loro, ce n’era una che era la mia e io dovevo soltanto riconoscerla. Mi sentivo come Ulisse, un viaggiatore instancabile assetato di conoscenza che navigando tra dure prove e terribili naufragi scopre il mondo e sé stesso. Dovevo avere il coraggio, di lasciare il mio porto sicuro per vedere chi fossi. Poi un giorno, forse, sarei tornata alla mia Itaca.
Le sue labbra serrate in un silenzio innaturale, le spalle curve e il suo capo chino furono le ultime cose che vidi di lui quando la porta chiuse dietro di sé.
In quell’istante avvertii tutto il dolore di quella perdita, come se dietro di me si fosse aperta una voragine improvvisa inghiottendo tutto quello che avevo di più caro, lasciandomi sola con la mia angoscia. Da quel momento non l’avevo più visto.
Nei giorni che seguirono ero stata come divisa a metà: una parte di me voleva partire mentre l’altra voleva restare. Non potevo accettare l’idea di perderlo per sempre. I ricordi del nostro amore come cocci di un bicchiere frantumato mi ferivano il cuore.
Eppure c’era un modo per porre fine a quel dolore e riaverlo con me: restare. Questa considerazione fu come una lama di luce nel buio della mia indecisione. Cominciai a togliere febbrilmente tutto quello che avevo messo in valigia, felice di quella soluzione definitiva.
Spalancai la finestra della mia camera e mi affacciai come per respirare aria nuova. Annusai quell’aria fresca familiare. La respirai profondamente. Mi arrivò l’odore della legna bruciata e della guazza mattutina che penetrò nella mia gola come un balsamo ristoratore.
Poi alzai lo sguardo. I picchi neri e frastagliati della Tambura che svettavano su un cielo rischiarato da un’alba imminente non mi erano mai sembrati così belli. La prima luce di un giorno nuovo avanzava in silenzio piena di promesse.
Poi, d’improvviso, il suono fragoroso di un clacson squarciò la quiete mattutina. Era la corriera delle sette e zero due che portava a Lucca. Percorse l’ultimo tratto di salita che portava in paese continuando a strombazzare. Rimasi alla finestra per vederla arrivare. Si fermò in piazza e aprì le porte per aspettare i suoi pendolari.
Sotto le luci stanche dell’abitacolo che cominciava a riempirsi di passeggeri, vidi una ragazza con i capelli raccolti in una coda che con fatica cercava di mettere il suo bagaglio sulla cappelliera. Una donna dall’aspetto robusto salita dopo di lei, l’aiutò a sistemarlo. Le due si scambiarono qualche parola poi presero posto una vicino all’altra. La ragazza appoggiò la testa al finestrino e guardò fuori.
Rimasi qualche istante a guardare quell’immagine.
L’affiorare dei pensieri che credevo di aver messo da parte mi scosse. Fui pervasa da un fremito di paura. Respiravo a fatica mentre cercavo di capire cosa mi stesse succedendo.
Mi voltai. Guardai la mia valigia vuota sul letto. Chiusi la finestra e con uno scatto felino, mi precipitai a riempirla di tutto quello che avevo tolto.
Quella corriera non poteva partire senza di me.
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