Pelle dentro pelle - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Pelle dentro pelle

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Segnalato

Pelle dentro pelle

di Rita Mazzon - Padova



La mattina mi alzo presto e cammino in mezzo al bosco. Faccio il boscaiolo, taglio, sego, sfrondo i rami, forse per guardare meglio il cielo. Libero una fitta abetaia dai tronchi vecchi, entro nel labirinto degli sterpi e so sempre dove mi trovo.
Noi montanari abbiamo la scorza dura, sarà che pensiamo che, vivendo in montagna, dobbiamo in qualche modo essere come lei. La nostra pelle è segnata dal vento e dall’aria fredda. I nostri corpi sono roccia che ogni tanto si sfalda.
Anche a casa non mi fermo mai. Intaglio pezzi di legno per cercarci l’anima dentro, perché ogni cosa nasce per essere assaporata piano e tenerla il più possibile nella tasca. Struscio le dita e perfino un freddo sasso dal mio contatto diventa caldo.
Non esiste in me la paura. La paura sta nelle cose effimere che noi consumiamo presto. Nel terrore di arraffarle e perderle senza gustarne il senso. Io vivo con le mie stagioni, dove non c’è mai la morte. Le mie mani impastano la vita. Mi cibo di cose, le tocco per renderle dentro di me vive. I rumori della notte mi fanno compagnia e l’alba è illibata dalla paura, perchè è sempre meraviglioso guardare ad oriente, là dove si alza piano il sole.
Sono sempre stato il vecchio che si trova nella casa dai tre mattoni rotti. Tutti mi hanno sempre chiamato così. Vivo vicino il confine, ma dove sta il limite? La roccia fabbrica trincee e pareti che si possono valicare. Dietro il monte vedo un altro massiccio, o un pendio.  Le montagne sono le pedine delle mie partite a scacchi e delle mie solitarie scalate per raggiungere una vetta e toccare per un attimo il cielo. E’ un quadro tridimensionale dove lo sguardo spazia. Sagome nere di montagne che conosco in lontananza, massici vicini dove il mio passo ha la forza della consapevolezza. Arrivato sulla vetta indico, guardo, chiamo le montagne con il proprio nome. Non c’è confusione alcuna dentro la mia conoscenza, né nell’ondulato stabile compatto ergersi delle creste. Loro sono state lì prima della mia nascita e saranno lì dopo la mia morte. Rimarranno custodi dei mei cammini silenziosi, raccoglieranno tutti i miei respiri.
Niente in montagna va sprecato. C’è una forte unione tra me e tutto questo, un rapporto duraturo che travalica il tempo. Le mie emozioni sono così profonde che non mi importa se sto scalando per raggiungere una vetta, o camminando nel bosco, l’importante è affermare se stessi nella volontà dell’osare che supera ogni incertezza. Tempo, spazio diventano solamente un mezzo per proclamare il diritto di essere gli artefici della propria vita e non subirne le restrizioni.
Non mi lascio suggestionare dalle comodità e dai ritrovati che ogni giorno il mondo ti offre a piene mani, perché voglio essere libero. Attraverso la mia montagna do un senso alla vita, come meta ideale cui tendere. Contemplando il panorama mobile dato dalla perfetta fusione di realtà e sacralità, rifiuto ogni confine. Mi autorizzo ad essere felice nei piccoli momenti in cui la natura mi istilla goccia, dopo goccia l’immensità che mi sovrasta.
Il tempo d’improvviso si arresta in istanti in cui mi lascio andare in sospensione con tutti i sensi, dilatandomi nell’infinito. Non c’è più il contorno del corpo, non c’è più peso. L’emozione pura galleggia in un volo sublimato senza preclusione alcuna ed allora sto in preghiera verso un Dio amorevole che mi abbraccia. Solo così mi sento in pace, perché mi sembra inconcepibile che la vita non possa essere immortale.
Ogni mattina la mia pelle profuma intensamente d’aria, che mi dona piccoli schiaffi di gioia. Il sole ha una voce che da sussurro diventa grido. E’ una sirena di luce che squarcia il velo scuro della notte. Inizia il viaggio del giorno, che mi trova già alzato. Il fuoco nel camino manda dei crepitii indistinti, la cenere offusca i resti dell’ultimo sogno e l’onda del calore rimasto è come un abbraccio che seduce.
Dimentico il torpore e mi metto davanti al sole a petto nudo per ricevere il mio battesimo mattutino. Pensieri forti, puri fanno breccia alla sonnolenza murata della mente e spaccano l’ombra, dove sonnecchia ancora un fiore.
Ecco la mia vittoria! Partenza ed arrivo del mio viaggio. Io sono così e alla mia età il carattere non può cambiare. Mi hanno sempre chiamato il vecchio. Ho dentro di me secoli, passi, orme, perché da quando sono nato ho sempre affrontato con forza il cammino. L’immobilità non mi appartiene. Cercando di continuo il segreto delle cose, che amalgama la gioia al dolore, il passato al futuro è come se mi trovassi in un confine invisibile, sull’orlo delle mie sensazioni. Mi impongo di avere continuamente lo stupore del bambino per quello che mi sta attorno e in me c’è una ignoranza positiva. Non voglio infatti conoscere fino in fondo il mistero per non scuotere gli incubi, che ottenebrano la meraviglia del risveglio di ogni giorno.
Non ho bisogno degli altri. Io sto bene qui, nella solitudine parlante di suoni molteplici, di respiri ritmati e sinceri. Sono fuori dalla corsa e non c’è crisi di identità. Io sono io. Nessuno e niente mi possono far cambiare.  Lo so che ho un difficile rapporto con le persone, ma sto bene così. Non ho bisogno di nulla. Mi basta stare a parlare con la montagna, mia compagna fedele, mia madre, mia amante.
Anche questa mattina mi sono alzato con le idee di sempre. Il mio viaggio quotidiano si orienta verso il sole. Ad est, dove nasce la mia voglia di scoprire. Cammino, mi inerpico piano, col passo cadenzato al respiro, in una musica ritmata che io solo sento. Avanzo calmo verso il sentiero che già conosco.
Un fruscio, un’ombra in lontananza, rami spezzati intorno. Le tracce non sono di un animale. Sto all’erta. Affretto il passo. Mi nascondo dietro i tronchi più robusti. Sarà un bracconiere. Hanno sempre fame di sangue questi uomini che si credono potenti solo per aver ucciso poveri e indifesi animali.
Ti sto raggiungendo. Ti sono vicino. Sento i tuoi passi maldestri incespicare tra i sassi e gli sterpi. Ti sto addosso. Ti vedo cadere. Non emetti alcun suono. Ti rialzi. Ti guardi attorno. Stai per riprendere il cammino. Ti sto davanti. Ci scrutiamo per un attimo interminabile. Un apparente sconfinato silenzio ci parla attraverso i nostri respiri affannati. Le parole inerti, intrappolate si aggrovigliano in gola. Tu hai una repentina reazione. Vuoi scappare. Io affondo le mie dita sul tuo braccio. Ti trattengo. Tu docile desisti, non reagisci. Rimani con lo sguardo fisso verso la mia mano che ti serra l’arto, che sento pulsare.
La tua pelle odora di sgomento, di paura. Entrambi rimaniamo in sospeso, non sappiamo cosa fare. Sono io a compiere la prima mossa. Con l’altra mano tiro fuori la borraccia, offrendoti da bere.  I tuoi occhi incrociano i miei e chissà perché ci ritrovo il mio bosco.  Mentre ti disseti, allento la presa. Sei un ragazzo magro, infreddolito, con la maglietta a buchi, la felpa scucita, i pantaloni larghi e le scarpe da ginnastica malridotte. Hai la pelle più nera delle mie notti. Di quelle notti che ti incorporano anche i pensieri più intimi e non ti fanno più scappare. Ti fisso intensamente come se volessi carpirti tutte le parole che gocciolano dalle tue labbra, mentre continui a bere. Sei qui tra le rocce ed il gelo. Sei uno dei tanti che cercano di arrivare ad una terra che li possa amare.
Ti pulisci la bocca con il gomito. Sorridi. Mi ritorni la borraccia e continui a sorridermi ora solo con gli occhi. Parli in un inglese stentato, di cui capisco solo: Germania, confine, fame. L’inglese io lo so poco, l’ho imparato dall’uomo che trovavo un tempo all’osteria. Lui aveva viaggiato, ma poi aveva capito che nel ritorno al proprio paese, lì ci poteva trovare la pace che aveva sempre cercato altrove.
Ti vedo stanco. Sei ferito ad un braccio. Il sangue rosso sta in contrasto con tutto quel nero. Ti scruto intensamente, come per trasmetterti energia, poi ecco che dal tuo silenzio ti risvegli e continui in cantilena a ripetermi le stesse parole. Germania, frontiera, fame. Non ti rispondo, caccio una mano nello zaino e tiro fuori il pezzo di pane con il salame che ho avanzato. Ti porgo il cibo. Acqua e pane in una specie di comunione per strapparci di dosso tutte le nostre differenze, tutti i nostri pregiudizi. Acqua e pane. Condivido con te un momento di intimità fisica. Tu hai bevuto nella borraccia, dove da sempre io bevo. Stai addentando il pane che io avevo iniziato. I tuoi denti sono più bianchi dei miei, sono lunghi ed aguzzi. Nera pelle, smalto bianco. I contrasti stanno bene assieme.
Ho vergogna di me, ora. In un primo momento ti ho creduto un nemico. Una cosa fuori posto che metteva a soqquadro la mia armonia. Un imprevisto innaturale piovuto da chissà dove, che inquinava i miei luoghi sacri. Hai scavalcato ora con questo tuo sguardo ogni barriera ed io mi sono sciolto come neve. Quasi a chiederti scusa del mio attimo di incertezza, ti pulisco la ferita, la bendo con un mio fazzoletto. Tu tremi. Hai paura dei miei gesti. Quanta violenza subita ci scopro nel tuo tremito convulso! Le mie mani bianche, rugose stanno a contatto con la tua pelle scura. Le mie mani abbronzate, arse dalla fatica mescolano il loro colore al tuo braccio. Pelle contro pelle. I calli delle dita scivolano piano sulla liscia superficie giovane. Sentono beneficio da questa carezza. Cammino sulla tua pelle fino a captare le tue sensazioni. Scopro in te altre terre fatte di dune. Montagne mobili che non hanno limiti. Si allungano, si ergono alte per poi appianarsi in un gioco di sabbie ed ombre. Vite diverse, eppure così simili le nostre. Tu alla ricerca di un posto integro da violenze, io alla ricerca tormentosa della mia pace. I tuoi miraggi stanno nella testa. I tuoi pensieri non si pongono confini, né sbarre da alzare. Contro ogni ostacolo tu frapponi l’energia della sofferenza. Vuoi toccare la libertà con le tue domande sempre più insistenti.
Sono indeciso. Ti potrei far ritornare indietro ed accompagnarti nella mia casa per farti riposare. La strada però è lunga. Ci troviamo a più di metà del cammino che ti porterà alla frontiera. E mentre indugio, pensando come devo comportarmi, tu ti togli una scarpa, infili la mano, sembri grattare la suoletta. Tiri fuori un cartoccetto spiegazzato. Lo stiri con le dita. Mi accorgo solo ora, quando me lo porgi, che sono delle banconote. Con l’indice alzato dell’altra mano verso la vetta, mi dici “Germany?”.
Non li voglio i tuoi soldi. Non voglio essere pagato per aver assistito impotente al dolore tuo e della tua gente. Sposto la mano dove tieni il danaro, tiro su lo zaino, ti faccio cenno di seguirmi. Tu mi tocchi la spalla e mi sussurri piano. “Brother.” (fratello).  Camminiamo in silenzio. Ci teniamo il fiato per la salita. Dobbiamo spesso deviare, per non trovare le guardie forestali.
Il confine è là, si vede in lontananza, sembra che si possa toccare, ma la montagna ti fa vedere la meta vicina, mentre invece ci si deve inerpicare quasi in verticale per raggiungere la frontiera. La linea è lì fortemente tracciata e consumiamo tanta energia per raggiungerla. Ogni passo in più significherà un momento in meno che io starò con te, fratello mio, ma forse al di là della montagna tu troverai la tua libertà.  L’ansia mi brucia intensamente. Vorrei camminare più velocemente e nello stesso tempo rallentarmi per paura di perderti. In una sorta di sdoppiamento mi spio, rubo a me stesso il momento per stamparlo dentro la mia anima. La frontiera è ormai qui. Ti guardo, ti indico la strada in discesa, la più sicura. Ti regalo la mia borraccia. Tu mi abbracci. Pelle dentro pelle. “Why are you crying, brother?”.  (Perché stai piangendo, fratello?).
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