Mario Hahan Cohn - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Mario Hahan Cohn

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

X EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2005
Segnalato

Mario Hahan Cohn

di Giuseppe Toffolo - San Donà di Piave (VE)



I ricordi tramandati in famiglia da quasi tre secoli sono ormai confusi, per forza di cose. Jehudah, l’antenato turco, era tutto fuorché il leone di cui portava il nome. Non aveva un gran fisico, era di religione incerta e teneva numerosa famiglia. Nessuno sapeva dire come fosse arrivato a Spalato, dove, verso il 1685, vivacchiava al servizio di un mercante giudìo di vestiti usati. Questi era abbastanza intimo dei Morosini, la cui pelosa benevolenza verso gli Ebrei era notoria. Poi il mercante, al quale teneva un po’ di amministrazione, era morto. Disoccupato e vedovo, era avventurosamente approdato a Canale, nell’antica Pieve di S.Giovanni Battista. con tre dei suoi figli. Aveva evitato, chissà come, la deportazione con gli altri Turchi, nelle gelide convalli sopra Caprile, convertendosi alla fede cattolica – quelli sì erano tosti, ed adoravano ancora Maometto neanche tanto di nascosto. Quando gli avevano chiesto, al momento del battesimo, quale nome cristiano volesse assumere, rispose:
- Vorrei chiamarmi Leone.
L’aiutante del balivo aveva scosso il capo.
- È un nome troppo giudìo. Io vi consiglierei Marco.
- Va bene Marco.
Quando gli avevano chiesto il cognome, aveva dichiarato, con l’orgoglio spaesato del perdente , di essere Hahan Cohn - il rabbino Coen, nell’idioma turchesco. Era probabilmente una mezza bugia, soprattutto il fatto del rabbino, ma a quelli non interessava nulla. Ed infatti, ad orecchio, trascrissero Tancon sulle carte parrocchiali.
Marco Tancon sapeva leggere e scrivere, per cui ottenne, dopo infinite lamentazioni e qualche prestito su pegno a chi poteva metterci una buona parola, un impiego pubblico ed il relativo ufficietto nella Casa della Regola. Assistette sempre, puntualmente, a tutte le funzioni religiose di precetto e morì munito di ogni Sacramento prescritto.
Passarono gli anni ed i secoli. I Tancon si moltiplicarono, mescolandosi ai nativi, e finirono per dare il nome alla piazzetta su cui la Casa si affacciava. Da molte generazioni sono perfettamente integrati nelle Dolomiti e nessuno di loro pensa più agli antenati turchi.
Tre cose però conservano della loro origine ottomana: la delicatezza del tratto verso i bambini, un particolare senso dell’umorismo ed una spiccata predilezione per i baffi. Fisicamente, tendono a tramandarsi il naso a ciliegia, ma non si tratta poi di un’imperfezione così grave.
La conquista più grande, con la conversione al cattolicesimo era stato il libero arbitrio. Ne approfittarono con larghezza, per bere vino e sgnapa. I Tancon, salvo trascurabili eccezioni, furono e sono tutti eccellenti bevitori. Un ramo della famiglia, che faceva capo al Berto, del tutto inopinatamente, aveva ripudiato i baffi. Due generazioni fa, Berto si trasferì in Canada, dove prolificò e conquistò, coi nove figli, eccellenti posizioni professionali, soprattutto nel campo della medicina e dell’odontotecnica. Un segno del destino, quel rifiuto dei baffi. Del resto, il Berto era anche astemio.
Mario Tancon, fu Vincenzo detto Cencio, li ha invece sempre portati, come gli antenati ed i discendenti, giunti ormai, questi ultimi, alla terza generazione. Unico vezzo, dato che aveva vent’anni negli Anni Trenta, il taglio alla Clarck Gable. Baffi sottili sottili, portati con provocatoria baldanza fino all’ultimo giorno di sua vita; giorno che è arrivato nel gennaio scorso.
Gli avevo telefonato per le Feste. Lo angustiava il fatto che non nevicasse più come una volta.
- Sasto che no l’ é ancora nia de nef? – aveva detto. – Ghe n’ é si e no thinque schei.
Tre settimane dopo m’era morto. Se n’era andato con la discrezione di chi, semplicemente, ha consumato il tempo assegnatogli. Il cuore aveva esaurito la sua assegnazione di battiti.
In tutta la vita, Mario non pronunciò mai una parola in italiano, salvo forse signorsì signor tenente, e certamente l’aggettivo che usava per lodare i suoi amici bambini: Speciale!
Classe 1914, fu falegname di mestiere, pompiere e volontario del soccorso alpino. Da coscritto e durante la guerra prestò servizio negli Alpini. Fu in Montenegro durante il conflitto. L’8 settembre, senza dire nulla a nessuno, si incamminò verso casa ed attraversò col suo passo tranquillo mezza Iugoslavia. Nessuno lo molestò. Portò con sé il suo rasoio di sicurezza Gillette, un paio di forbicine ed uno specchietto. Si rase ogni giorno, dedicando naturalmente una cura particolare ai baffi hollywoodiani. Il suo Battaglione, che aspettò ordini dall’Italia, fu interamente deportato in Germania.
La prima volta che lo vidi fu nel maggio del ’45. Si sedette di sbieco nel vano della finestra e disse:
- El Camilo l’ é mort. I lo sepoliss ladù. Ladù era in Belgio.
Salvo la domenica a messa, Mario Tancon calzava sempre gli scarponi, indossava maglia e camicia militari e pantaloni blu da muratore. Suo cognato, un imprenditore trevisano onesto ma sfortunato, gli scriveva da Caracas che, con le mani d’oro che aveva, avrebbe potuto fare fortuna in Venezuela, dove i bravi falegnami erano molto rari.
Erano i primi Anni Cinquanta. Mario Tancon si lasciò convincere e partì. Che in Venezuela i bravi falegnami fossero richiestissimi e ben pagati risultò vero. Ma, a differenza del Berto astemio che aveva ripopolato il Canada, lui non riuscì ad adattarsi al nuovo ambiente. Natura infida, caldo, umido. Niente montagne, solo iungla. Serpentelli che parevano innocue collanine di corallo, ma così velenosi da ucciderti col loro morso in neanche quindici secondi. Caimani con fauci enormi. Indios pigri e traditori, gringos yankee paranoici, che spadroneggiavano con la Colt al fianco. Whisky, e di vino neanche l’ombra – è il caso di dirlo.
Tornò al suo mondo antico, deciso a procurare un buon futuro ai suoi figli anche qui. Cominciò dalla casa. Tre piani quanti i rampolli. La costruì tutta da solo, su un terreno del padre Cencio. Andò a prendere le pietre una ad una alla Liera. Muri da ottanta schei. Malta mescolata a mano e calce della calchera all’ Atriol.
Di quando in quando interrompeva il lavoro – qualunque lavoro stesse facendo - per arrotolarsi una sigaretta. Fumava il Trinciato Comune N.2, più stecchi che foglia. E scoteva la testa, pensando a quel disgustoso, biondo tabacco Virginia, troppo dolce e profumato, che gli toccava fumare in America. Ogni volta, prima di leccare la cartina, alzava lo sguardo verso le cime, quasi per assicurarsi che fossero sempre al loro posto.
E quanta turchesca pazienza. La sua bottega, che occupava il piano terra della grande casa, era attrezzatissima. Centinaia di strumenti ed utensili, che, chissà come, Mario Tancon s’era fatto venire da ogni angolo del mondo, facevano mostra di sé, tutti ben ordinati, sulle rastrelliere e dentro le vetrine. Odore di trucioli e colla. Una paradiso per i bambini. Quando riuscivano ad entrarci in sua assenza, gettavano tutto nel caos. Al posto suo, avrei rifatto la Strage degli Innocenti, sul serio. A mani nude. Ma lui non faceva una piega. Aspettava sera e, quando non c’era più nessuno, rimetteva tutto in ordine. Chissà cosa faranno ora di quella bottega i suoi eredi. Meriterebbe d’essere trasformata in museo.
Per anni trascorsi le estati con lui. Mi insegnò a lavorare, e l’arte di prendere la ciucca il sabato sera – ad imparare a fumare avevo già provveduto da solo. Andavo vestito con maglia e camicia militari ed indossavo calzoni da muratore. Fumavo anch’io il Trinciato Comune N. 2, più stecchi che foglia, e mi arrotolavo le sigarette. La sveglia era alle quattro. Lavoravamo in bosco e lanciavamo i tronchi, guidandoli col thapìn, lungo i ghiaioni. Od andavamo a falciare prati a strapiombo in alta montagna. Portavamo giù il fieno coi fass, o con le ridole.
Alle otto precise facevamo sosta. Mario tirava fuori da sotto l’erba rorida di rugiada, dove l’aveva riposta all’arrivo, la bottiglia di vino di rosso, e dalla refa il pane ed il salame. Qualche volta accendeva un focherello ed arrostiva alcune fette fra le braci. Di formaggio, neanche parlare, forse un’altra eredità ancestrale degli antenati giudei turchi.
- No ‘l pol gnanca spiàlo – spiegava la Carmen, sua moglie.
Eppure era il formaggio speciale della Latteria Cooperativa, quella voluta da don Antonio della Lucia, la prima latteria cooperativa fondata in Italia. Ma lui neanche lo nominava mai, non lo vedeva. Per lui, semplicemente, il formai non esisteva.
Qualche notte restavamo a dormire in alta montagna, nella baita di Casera Vecia. Non era strettamente necessario per quello di cui si stava occupando in quel periodo, ma lo faceva, credo, per far provare a noi ragazzini il brivido dell’avventura. A mezzodì ci aveva tutti intorno, per fare la polenta. Dura, e fingeva di ricordarsi solo all’ultimo momento, quando era ormai stracotta, di gettare il sale. Noi ridevamo, ed era quello che lui voleva. Mai mangiata polenta così.
In montagna, Mario non sedeva mai, forse per rispetto. Lo rivedo, nei prati in discesa, con la gamba sinistra allungata a valle, lo scarpone ben piantato in terra, la destra piegata a monte, guardare in su. Socchiudeva la bocca e respirava a fondo, mentre il baffetto si allungava sul labbro teso.
Mario Tancon non fu mai visto ubriaco in vita sua. Al massimo, faceva un giro di onbre tra la Cooperativa ed i Pucia, il sabato sera. Ma, quel giorno, aveva forse deciso che avrei dovuto imparare qualcosa. I primi giri furono col Dolfo, con cui andavamo in bosco. Lui e Mario parlarono di legname, di costo al metro cubo, di trasporti. Poi il Dolfo tornò a casa, da buon padre di famiglia. Noi continuammo dai Meni, da Zanoner, da Costa, in Birreria e poi ancora alla Cooperativa e dai Pucia. Forse arrivammo anche all’Albergo al Gallo, che si trovava ai piedi della salita del Pont.
Il numero di onbre ingurgitate crebbe spropositatamente, ed io tenevo testa, non perdevo un colpo. Fu quindi il turno dei cacciatori, il Nelo Fumàs ed il Gino Calca, mentre la notte avanzava. Scapoli, questi. Il Nelo Fumàs era un biondo magro, occhio volpino e sorriso a mezza bocca. Era lui il vero, forse l’unico cacciatore del paese, sempre in giro per le cime, a sparare ai camor  ed ai caprioi. Il Gino Calca sembrava invece il Mangiafuoco di Pinocchio e, più che la caccia, incarnava il folklore montanaro, col suo cappellaccio unto e sformato, sul quale inalberava una penna di gallo cedrone. Anche Mario raccontava spesso mirabolanti storie di caccia, ma si capiva che non aveva natura di cacciatore. Sono sicuro che le armi gli ripugnavano.
Dopo i giri coi cacciatori, per stare in piedi,  dovetti appoggiarmi al bancone, che allora era ancora di legno. Un legno impregnato di spirito di vino. Ma non demordevo. Continuavo a tracannare in pari con Mario ed ascoltavo le storie di appostamenti e di  schioppettate. Mario Tancon pareva aver bevuto acqua di fontana, fino a quel momento.
Poi anche i cacciatori andarono a dormire e noi rimanemmo coll’ultimo nottambulo del sabato sera, vale a dire con Valerio, il figlio della Ita Dorth – Ita da Italia o da Margherita? Non si saprà mai.
La Ita era una vecchia ragazza madre. Non era di Canale, veniva da fuori, forse dal vicentino, ed era la mendicante ufficiale del paese, con tutti i privilegi che quello status comportava, primo fra tutti l’uso gratuito della Casa della Regola. La Casa, ormai decrepita e decaduta, era stata soppiantata dal nuovo Municipio, in Piazza della Pieve. Ita sembrava la copia sputata della strega di Biancaneve, di cui aveva anche la camminata. Da bambini ne avevamo una paura folle. Salire di corsa la scala esterna della Casa della Regola e bussare all’uscio per poi fuggire a gambe levate, era per noi la più spavalda delle imprese, ma nessuno era mai riuscito a compierla, neanche il Franco Manfroi. La paura segava le ginocchia e si scappava facendo dietrofront a metà salita. Quella era la porta dell’inferno.
La mattina, Ita scendeva a Sofraide e spariva nel sentiero in discesa che portava al Biois. Tornava alla sera, probabilmente dopo una giornata trascorsa nei boschi a raccogliere funghi ed erbe officinali. Non si lavava da decine d’anni e le rughe del viso avevano raccolto tutto il lerciume della mancata igiene, segnandole la faccia con una fitta ragnatela di strisci neri. Parlava da sola.
Valerio, che viveva con la madre, era persona allegra, affabile e di compagnia. Portava i suoi cenci come un frac. Vivacchiava coi lavoretti che gli affidavano in paese, e si contentava. Formidabile bevitore, aiutava i Pucia a chiudere, verso le due, in cambio di un’ultima onbra, quando se ne andavano anche i giocatori di morra. Chiacchierammo a lungo anche con lui.
Non ricordo come arrivammo a casa. Mario andò a dormire, ed io finii con la faccia contro le tavole del font, mentre arrivava la Carmen in camicia da notte. Imparai.
Nei quarant’anni seguenti fui a Canale solo qualche volta, di fretta, per non sciupare l’incanto. Attraverso Mario, la valle, le cime, i boschi, i prati, la gente umile ed orgogliosa, onesta con se stessa e con gli altri, erano diventati parte di me. Fermai l’orologio su quel cuore fanciullo. Quando ripenso alla mia formazione sentimentale, rivedo un prato in discesa e Mario, seduto sul tallone sinistro, affettare il salame contro la braca della coscia destra. Ciò che conta, nei riti che compiamo, non è la natura del gesto in sé, ma la serenità dell’animo, e la maestria.
- Sasto, - mi disse al telefono – che cassù no l’ é ancora thinque  schei de nef? Cande viento a ne catà?
- Sta primavera, Mario. Sta primavera che vien.

Presso i popoli agricoltori dell’antichità, i figli erano soprattutto forza lavoro, e come tale sfruttati. Più figli, più forza lavoro. La patria potestas dei Romani, agricoltori e soldati, dava al genitore il diritto di vita e di morte.  I popoli nomadi invece avevano meno figli e nessuna necessità di sfruttarli. Presso di loro, dai Sioux dell’Ovest americano ai Mongoli, dai quali discendono i Turchi, i guerrieri  trascorrevano il tempo libero giocando con i bambini. Il gioco era il mezzo per insegnare a cavalcare, a cacciare, a lottare, a tirare con l’arco. Padri e figli pellirosse, come racconta il Cooper nell’Ultimo dei Mohicani, continuavano a giocare per tutta la vita. Mario Tancon riusciva a trasformare il lavoro in un gioco eccitante.
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