Le cose che restano - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

Le cose che restano

Tutte le edizioni > Edizione24
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Segnalato

Le cose che restano

di Gianni Gandini Albiolo (CO)




“Spostatevi, per favore. Mi manca l’aria.”
Mi stanno tutti addosso, e così accerchiata faccio fatica a concentrarmi. Inoltre la pancia di Giuseppe mi toglie la luce.
La melodia è lineare, in tonalità di Do maggiore. Ricorda molto una sorta di girotondo, una cantilena che tuttavia non infastidisce e che si potrebbe ripetere per molte volte, fino a spegnersi.
Ho visto diverse lettere dei soldati al fronte della Grande Guerra, ma non ho mai incontrato una partitura musicale.
È stato Mauro l’artefice del ritrovamento, durante un’escursione lungo la dorsale dell’Asolone. Si è imbattuto casualmente in quello che, a prima vista, sembrava soltanto un inutile mucchio di stracci vecchi.  Una volta riconosciuto lo zaino di un Caduto della prima guerra mondiale, per poco non gli veniva un colpo.
Incredibile pensare che una catastrofe come la guerra, in grado di ridurre un essere umano letteralmente in frantumi, possa risparmiare qualcosa di tanto fragile ed effimero come dei consunti fogli di carta.
Da quella specie di palla di carta in cui si erano appiccicati tutti i documenti dello zaino, mio marito Giorgio e il suo team di investigatori del passato hanno letteralmente liofilizzato la poltiglia, asciugandola, scoprendo così la partitura e una ricevuta di spedizione ferroviaria della quale tuttavia non si capisce né la data, né l’intestazione. Altri documenti presenti nel sacco risultano illeggibili, e nemmeno la ripresa fotografica con tecniche particolari ne ha consentito la decifrazione. Hanno rimandato la scannerizzazione della partitura e così, visti i miei studi pianistici, mi hanno incaricato di riscriverla e analizzarla.
“Stai sbagliando la melodia. Sembra stonata.”
“Non sto sbagliando, Giuseppe”, dico seccata. “Chi l’ha scritta ha messo volutamente delle note spigolose, come questo fa# sull’accordo di La 7 o il mib sul finale in Sol7.”
C’è una scritta alla fine del foglio, Gira, forse un’indicazione, quasi a far capire che dopo il primo foglio ne potrebbe esistere un secondo. Della continuazione del brano, tuttavia non c’è traccia.
La dedica iniziale - A Maria - è probabilmente indirizzata alla presunta amata, e chiunque abbia scritto questa musica, sapeva farlo bene.
In paese non si parla d’altro che del ritrovamento della musica dell’alpino e stiamo mettendo in campo tutte le nostre forze per restituire un’identità al compositore di quelle note. Non è semplice ricostruire la storia dei soldati, i cui corpi, anche per effetto del clima che cambia, vengono rinvenuti ancora oggi, a cento anni di distanza dalla fine della Grande Guerra.
Ho guardato a lungo gli schizzi nervosi attaccati alle frettolose linee dell’improvvisata partitura, cercando possibili indizi. Ho imparato faticosamente il brano eseguendolo più volte, assaporandone sfumature e ambiguità armoniche.
L’iniziale tonalità maggiore trae in inganno, introducendo un giro armonico che solo all’apparenza risulta solare. La linea melodica, appoggiandosi sulle note lontane alla tonalità - le settime, le none - porta tenerezza, rivelando anche una sottile malinconia.
Quell’alpino ha scritto la composizione sapendo quali corde emotive toccare e forse sottolineando il possibile tragico finale della sua vita.
E voleva farlo sapere alla sua Maria.
È quasi mezzogiorno quando, trafelato, Giuseppe mi entra in casa, accompagnato da un uomo di mezza età.
“Lui sa qualcosa”, dice il mio amico, riprendendo a fatica il fiato e indicando il nuovo venuto.
“Mi scusi, signora”, dice lui con voce incerta. “Chi ha scritto la musica, ne sono quasi certo, era delle mie parti.”
“In che senso?” chiedo, con il cuore in gola.
“Giovanni Raboni. E quasi sicuramente il giovane maestro di pianoforte di cui parlavano tanto gli abitanti della zona. Il suo modo di firmarsi, Gira… Solo lui si firmava così.”
“Gira?”
“Si, Giovanni Raboni. Gira.”
Quindi la scritta in calce alla partitura non è un’indicazione per girare il foglio, ma è la sigla dell’autore. Non c’è una seconda parte della musica, nessuna continuazione, nessun trio o coda finale. Tutto il contenuto musicale è lì, presente in un unico foglio.
“Siamo qui in villeggiatura e casualmente abbiamo saputo del ritrovamento. Immagini lo stupore quando mi hanno parlato della partitura e della firma in calce.”
“Dove abitavano i Raboni?”
“Conosce la Val Brembana?”
“Non molto.”
Estrae il cellulare e apre una pagina, mostrandomi Branzi, un piccolo paesino tra i monti.
“So che la famiglia abitava qui, ma seppur giovanissimo, il Raboni era già un maestro di pianoforte conosciuto anche in altri paesi vicini, come il mio, che era più a valle. Ora vivo a Bergamo e non saprei dirle se ci siano nipoti o altri parenti nella casa dove abitava.”
Una volta congedati, Giuseppe mi osserva senza dire nulla.
“Un indizio importante, non ti pare?” dico.
“Quando si parte?” mi chiede lui con gli occhi illuminati.
“Siamo sicuri di poter arrivare a destinazione?”
L’inguardabile automobile di Giuseppe è parcheggiata davanti al comune.
“Stai scherzando?” dice lui. “È praticamente nuova.”
Io e Mauro ci guardiamo perplessi, prima di infilarci faticosamente nell’abitacolo.
Il veicolo si mette subito in moto, ma il rumore prodotto è davvero preoccupante.
“Se prendessi la mia? La val Brembana è assai lontana.”
“Fidati”, dice lui, immettendosi nella strada principale con uno scatto degno di un ferrarista.
Dopo l’inizio brillante, il resto del viaggio ha una velocità da crociera e le parole che gravitano nell’abitacolo si contano sulle dita di una mano.
“Forse con il mio trattore facevamo prima”, bofonchia Mauro una volta giunti a destinazione.
Arriviamo a Branzi poco prima di mezzogiorno, superiamo il piccolo e grazioso paesino adagiato tra i monti, avventurandoci nella parte alta, dove un tempo abitava il Raboni. Il cielo è coperto da nuvole che risalgono piano i prati circostanti, per incastrarsi tra le pareti dei monti. Anche il nostro maestro era un uomo di montagna, che ha respirato la musica e il silenzio delle cime, che ha combattuto e morto in un ambiente che conosceva bene.
Proseguiamo per un centinaio di metri in uno stretto viottolo e giungiamo davanti alla villetta. È tenuta benissimo e il giardino curato è un chiaro indicatore della presenza dei proprietari.  Dopo un momento di esitazione, decidiamo di suonare il campanello.
“Ho acquistato la casa tramite agenzia una decina di anni fa”, mi dice una sospettosa signora tenendomi fuori dalla cancellata. “Non so dirle chi siano i precedenti proprietari e nemmeno dove poterli rintracciare.”
Eseguo il brano dell’alpino quasi tutti i giorni, e ogni esecuzione sembra volermi dire qualcosa che mi sfugge. La prima volta che l’ho suonato non comprendevo come mai nella prima parte dell’inciso il basso in Fa non si muovesse al Sol con il cambio d’accordo, ma restasse ostinato, al suo posto, creando una particolare tensione armonica che andava a risolversi la battuta successiva in Mi minore. Ho pensato a un possibile errore ma ho capito, con il tempo, solo eseguendo più volte il brano, della particolarità espressiva di tale scelta. Ognuno di noi ha sperimentato lo scarso significato che si può dare a un brano musicale suonato o ascoltato per la prima volta. Occorrono successivi ascolti perché si colga la percezione globale e la bellezza di uno stile.
“Pronto?” dico rispondendo al cellulare.
La voce di Marco, che lavora al Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti, mi accelera i battiti del cuore.
“Ho il documento che mi hai chiesto. Ecco cosa dice: Giovanni Raboni, di Luigi, Tenente alpini 262° compagnia Battaglione Valbrenta, nato a Branzi il 10/02/1892, morto in combattimento sul Col Beretta il 23/11/1917. Qui dice anche che risulta decorato per la battaglia del Cauriol del 3/09/1916. Il luogo di sepoltura e l’Ossario del Monte Grappa, tomba n° 1361.”
Ripenso all’ultima volta che ci sono andata, al Sacrario. Ho fatto un po’ a pugni con le nuvole basse, ma la sensazione  di tragica grandezza e immensità mi ha, come sempre, tolto  il respiro. Ventitremila soldati riposano in quel sacro luogo e quelli che hanno un nome sono circa la metà. Raboni è uno di loro.
“Grazie Marco. Sei stato davvero prezioso. Dove abitano i precedenti proprietari della villetta?” chiedo con un filo di voce.
“Chiunque sia rimasto, figli o nipoti, abitano a Milano, zona Niguarda. Ti mando l’indirizzo via mail.”
Ci ritroviamo davanti al palazzo del Comune, come la precedente volta. Si va con la mia auto anche se Giuseppe non pare contento, ma dopo un grugnito di disappunto, se ne fa una ragione.
L’impatto con il traffico in entrata a Milano ci mette in crisi. Sbagliamo un paio di volte la strada nonostante gli aiuti del satellitare e di fronte all’ospedale Niguarda ci fermiamo per riprendere fiato.
La meta è vicina, ma ci concediamo quattro passi nel vicino Parco Nord per smaltire lo stress. Riprendiamo la strada solo per pochi minuti, parcheggiando in via Girola. L’abitazione dei discendenti del soldato è curiosamente a fianco di un centro di Fondazione Don Gnocchi. Ci pare un segno del destino. Don Carlo Gnocchi è stato il cappellano degli alpini in Russia, nella seconda Guerra mondiale.
La signora Giulia, ancora con le lacrime agli occhi, è curva sulla tastiera e pare seguire in parte la scrittura musicale come se, durante una lettura a prima vista, avesse già memorizzato melodia e accompagnamento.
Il suono è pulito e sicuro di chi ha competenza ed esperienza sul proprio strumento. Mi colpisce la lentezza, voluta, dell’esecuzione, che fa assumere al brano un altro sapore.
Sbagliavo esecuzione. La suonavo troppo velocemente e per questo non comprendevo in pieno lo spirito del brano. Non essendoci indicazioni di tempo iniziali, non ho mai pensato di suonarla più lentamente. Mi sono data un tempo qualsiasi e ho continuato a suonarla in quel modo. Ma sbagliavo.
L’elegante signora chiude la sua esecuzione con un rallentando. Continua a osservare il foglio di musica e non riesce a trattenere le lacrime.
“Era mio nonno.”
“A chi era indirizzata la dedica?” chiedo.
“Alla figlia, Maria, mia madre.”
Ora capisco. Il tempo lento mi ha aperto gli occhi. È una ninna nanna.
Ancora più bella e struggente se eseguita lentamente. Una ninna nanna per la sua amata figlioletta.
“Mio nonno, a quanto mi raccontava mia madre, suonava spesso delle musiche per la notte inventate da lui, ma lei non ricordava nulla di quei momenti sereni. È partito per la guerra che lei aveva appena due anni. L’ha conosciuto e amato dai racconti di mia nonna e imparando al pianoforte le musiche scritte per loro.”
Si sistema gli occhiali e prende un profondo respiro.
“Si erano sposati giovani, i nonni, ed erano così felici per la nascita della piccola Maria. Lui non l’ha vista crescere, purtroppo…”
Si alza in piedi e ci mostra alcune foto di Giovanni Raboni, giovanissimo, seduto al pianoforte.
“Tre generazioni di pianisti. Lo era mia nonno, mia madre e lo sono io. Mia figlia ha rotto la catena. Si occupa di strane transizioni finanziarie, ma forse ha ragione lei, visto che guadagna certamente meglio di un musicista.”
Si rimette al piano e suona una melodia dolcissima, accompagnata da un curioso arpeggio per quarte. È un brano ambiguo, dove non si coglie perfettamente se la tonalità sia in minore o maggiore. Si interrompe bruscamente all’inizio della seconda variazione.
“Questo brano, per esempio, l’ha scritto pochi mesi prima di partire. L’ha voluto lasciare aperto, mi raccontava la nonna, interrompendone la composizione proprio nel punto dove mi sono fermata. Chissà… Forse sperava di finirlo una volta tornato.”
La signora Giulia mi dice che la scelta di vivere in una città come Milano non è stata semplice, ma dettata da esigenze di lavoro del marito e maggiori opportunità musicali per lei. Mi racconta della sua vita tranquilla, del consorte che non c’è più e questa figlia grande che vive all’estero. È rimasta sola, ma non ho l’impressione di una donna triste o fuori dal proprio contesto sociale. Ci salutiamo caramente e ci ringrazia della graditissima visita e dell’inaspettato regalo.
Mentre ritorniamo verso casa ripercorriamo, canticchiando insieme, le note del brano scritto dal soldato Raboni, sapendo che la nostra missione è andata a buon fine: la sua musica è finalmente tornata a casa.
Alla rilassante vista dei nostri monti, qualcosa si accende.
“Ragazzi, ho un’idea per il programma estivo di quest’anno”, dico ai miei compagni di viaggio.
Loro sorridono perché da queste parti ci si capisce senza dover dire troppe parole.
Sul palco allestito nella piazza del paese e con l’invidiabile vista delle nostre cime al tramonto, il pianista che abbiamo invitato per la rassegna estiva, conclude il suo repertorio con un brano che disperde nelle valli le dolci note della musica dell’alpino.
Una musica dedicata alla figlia, ma a ben pensarci, scritta per tutti noi.
Partendo dall’accordo di Do iniziale, il brano modula in Fa nell’inciso e con un secondo grado minore e quinto di settima torna al Do iniziale, chiudendo con una cadenza perfetta. Non posso pensare che sia stata una scelta casuale.
Se il ciclo iniziale e quello finale sono legati intrinsecamente, così come nella fase iniziale della nostra vita, scrivendo quel  brano Giovanni ha potuto attenuare il  passaggio finale. Dove le parole non arrivano più, con i suoni ci si prende cura e si condivide la sofferenza, alleviandola. Ed è questo il senso della musica per Maria. Una dedica alla figlia, ma anche a Maria, la madre di tutti, il filo della memoria tra genitori e figli che non si deve spezzare, il cerchio che viene chiuso.
Ci avviciniamo alla morte tornando bambini e questa sofferenza ci riporta, come i neonati, a uno stato di totale abbandono. Ci abbandoniamo al destino, preghiamo Dio, invochiamo la mamma - la nostra prima parola - che è anche l’ultima che pronunceremo, come facevamo da bambini, confondendoci con lei.
La memoria è l’unico modo per sopravvivere e anche se priva di parole, nella musica del soldato che sa di morire c’è un’invocazione: vi lascio queste note perché non mi dimentichiate, perché ascoltandole io sarò ancora tra voi.
Finché ci sarà qualcuno che suonerà questa musica, la mia morte, e quella dei miei sventurati compagni, non potrà mai essere definitiva.
Torna ai contenuti