La storia di Neta - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La storia di Neta

Tutte le edizioni > Edizione19
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XIX EDIZIONE - Arcade, 6 gennaio 2014
Primo classificato

La storia di Neta

di Alessandro Borgotallo - Mondovì (CN)



Questa è la storia di una donna. Una donna di montagna. Nata e cresciuta tra i boschi di castagne, dove ormai vive solo più di qualche vecchio, ruvido e silenzioso.
Ha fretta Neta, così si chiama, e chiude con un vigoroso scrollone i battenti della stalla. In pochi secondi gli zoccoloni aggrediscono il terreno ancora ghiacciato e la vecchia cascina le sparisce alle spalle, dietro la prima curva.
Sullo sfondo, le montagne, ancora bianche e nettissime, riverberano riflessi quasi metallici.
Una vita tra quei boschi le ha dato un rapporto con la verticalità innato. Una vera e propria attitudine al vuoto che la preserva dai ruzzoloni, nonostante il legno infido delle calzature. Le basta ricercare il giusto angolo caviglia-terreno e la discesa di quel sentiero viene da sé. Il resto è solo busto mai all’indietro e gambe leggermente piegate.
Dopo la morte di Giovanni Battista, suo marito, Neta è restata nella cascina con le figlie.
Insieme rassettano casa, badano alle poche bestie, al seccatoio delle castagne ed alla fienagione. Nell’estate si vende latte allungato a qualche ricco villeggiante, barando talvolta – e pure grossolanamente – sul peso delle formaggette. Cionostante, non si è mai arricchita, anzi, si copre sempre con la stessa mantella, di trent’anni fa.
Quando qualcuno le chiede come va, lei ama rispondere: “Cuma ij vej…” (come i vecchi). Eppure non è propriamente vecchia. La sua è solo una sessantina mal portata, un’età che può già fare di una donna una donna anziana. Sarà il viso segnato dalle rughe o le mani visibilmente callose, oppure l’abito nero, ornato sempre dallo stesso grembiule grigio.
Il sentiero d’un tratto si fa più netto, s’allarga ed il ghiaione sparso qua e là sembra aumentarne la carreggiata. E’ già il paese: un luogo in cui ci si attende un po’ di fervore, gran movimenti d’uomini e di cose… Invece tutto è immobile. Persino i pini sul versante opposto hanno le chiome ferme, mentre una vecchia fonte da cent’anni pare zampillare nello stesso secchio, senza riempirlo.
Richiamata da quel ronzio, Neta si ferma per un attimo a guardare i puffi, paffuti e sornioni, dell’acqua. Sembra maturare la tentazione di un sorso per placare l’arsura della discesa, ma il freddo le morde il viso facendola desistere. Allora, lesta, si rimbocca il foulard che, a stento le copre le tempie. Ha fretta, Neta e le manca il tempo di cedere ai rigori invernali così come alla sete.
Batte strade strette, calpesta foglie dimenticate, prive ormai di colore e senza più memoria. Si infila tra i vicoli dove non ode passi, ma solo l’incedere dei giorni: tutto le sembra lontano, andato.
In grembo stringe un pugnetto di castagne. Arrostite sulla stufa danno una piacevole tepore ai polpastrelli: quasi un peccato, allora, sacrificarne una lasciandola sciogliere in bocca. Ma siamo in quell’ora mediana in cui il latte di colazione è ormai un ricordo e la fetta di polenta del pranzo ancora un auspicio. E poi quello spuntino le dà pure un minimo di vigore, un tono per scendere giù fin nella piazza del paese.
Vi giunge trafelata, come sempre. Si guarda intorno. Scorge la vecchia bottega.
Proprio lì accanto, una chiesa modesta, ma con enormi campane che a ogni ora rintoccano assordanti, destando l’intera valle. A sinistra, la scuola: piccola, bianca, con tre scalini e un’unica finestra.
Finita la guerra, qui sembra calato il sipario. Prima c’erano i tedeschi, poi sono arrivati gli americani quelli neri... che i montanari manco sapevano dell’esistenza di uomini neri! Ora ci sono vecchie case con le porte aperte, dove è rimasto solo il vento a rincorrere il silenzio.
Toni è seduto lì, su un ceppo davanti a casa, con il cane accucciato sotto le gambe. La bestiola si scosta quasi infastidita dall’assenza di odori in giro. Quando una corvo si posa su uno dei pali del recinto, Toni inverte le gambe accavallate e sputa tabacco, lontano.
Tutti i giorni, Neta, alla stessa ora fa quella strada. Col sole e con la pioggia. Le figlie non ci badano più. “N’do vati, mama?” (dove vai mamma?), han provato a chiederle. Ma lei, niente. Fa sempre finta di nulla. Anzi, subito le riprende invitandole a rattizzare il fuoco o a riempire due secchi alla fonte. Anche Toni la vede tutti i giorni e tutti i giorni la saluta. Con discrezione, però e soprattutto rispetto. Lui, sì, ha capito.
Neta si sofferma vicino alla palina della corriera. E’ un vecchio tubo d’acciaio d’un giallo ocra segnato dalla ruggine, un rudere, buono però d’inverno a misurar la neve. La fissa attonita, mentre tende l’orecchio allo stradone. In lontananza sembra cogliere il rombo ansimante di un vecchio motore a nafta. Un gran polverone annuncia, improvviso, l’arrivo della corriera. La livrea azzurra del torpedone fa brillare gli occhi della donna e  quando le porte a soffietto si aprono con un sibilo, il cuore le è in gola.
Certi istanti sono irripetibili. Basta una luce particolare, una data temperatura, il vento, la stagione. Potrebbe vivere sette vite Neta e non rivederlo mai più uguale: l’attimo in cui le porte si schiudono ha un volto specifico, come uno sguardo fugace scambiato attorno al tavolo di colazione. E Neta sogna, spera.
Ma dalla corriera non scende nessuno e l’emozione svanisce col rombo della messa in moto. Anche oggi Luigi non è tornato. Tutti i giorni, da tanti anni, è così.
Luigi è suo figlio. E’ partito il 5 agosto di cinque anni prima dalla stazione. Andava in Russia a far la guerra. Di là scriveva sempre, più volte al dì, a mamma Neta ed alle sorelle. Non solo, da quelle terre lontane mandava pure soldi, la paga discreta di un bravo caporalmaggiore dell’artiglieria alpina. Stamane, Neta, appena sveglia, aveva di nuovo accarezzato l’ultima lettera: quella del 17 dicembre 1942.
“Luigi non può non tornare”, si era ancora ripetuta. Proprio lui, quel ragazzone di un metro e ottanta con un torace da cento centimetri. “Robustezza: molta”, gli aveva annotato l’ufficiale medico sul Foglio Matricolare. Che voleva poi dire una cosa sola: artiglieria alpina. Non aveva altri parametri selettivi il Regio Esercito. A parte i soliti raccomandati, quelli nerboruti finivano lì, tra muli ed obici da 75/13; il resto dei valligiani, negli Alpini; chi aveva qualche nozione tecnica, nel Genio; gli altri in Fanteria.
Più che un marcantonio, nella foto che Neta conserva sul comodino, Luigi sembra uno scolaretto. Forse per quella camicia tirata linda con chissà quanta liscivia o forse per via della “Seconda ginnasiale”, guadagnata grazie ad un ammanicato zio prete. Lo stesso che andava a trovare volentieri per intrecciar ceste con i rami di salice. Era diventato bravissimo ed esportava arte e manufatti al paese. Mamma Neta li conserva con venerazione colmandoli di castagne e funghi d’autunno, verdure d’estate.
Poi era venuta la guerra e l’Albania. A fine maggio del ‘41 Luigi tornò a rivedere Neta. Anche quella volta, scese dal torpedone e lei era, lì. Ad aspettarlo: lo trovò sano e salvo e questo le bastava. La sera, Luigi raccontò alla borgata intera di quei lidi esotici, degli Albanesi e della loro religione. Quando spiegava di quelle avventure in Val Toromorezza, del fango che sommergeva muli e uomini, della nebbia di Dibra, i compaesani pendevano dalle sue labbra. Raccontava di Maometto, dei Turchi e dei minareti che, laggiù, segnavano i profili dei villaggi. Sembravano le Mille e una notte ed i ragazzini facevano crocchio. A dire il vero, appena sceso non gli lasciarono nemmeno mollare lo zaino: come api sul favo, gli s’appiccicavano alla divisa. Capitava così un po’ con tutti i reduci d’Africa o d’Albania. Ma non sempre i soldati avevano voglia di parlare. Pure Luigi, si guardano bene dallo scender nei particolari. La guerra è qualcosa da dimenticare in fretta, c’è poco di cui vantarsi.
Furono gli ultimi giorni spensierati con la famiglia riunita. Dopo venne la Russia, le lettere ed, infine, il dolore sordo e composto di una madre.
Non ha più lacrime, oggi, Neta. Non ha più parole. Le è rimasto solo il silenzio, un silenzio che è verità e che entra dentro a chieder conto delle azioni di ciascuno. AI silenzio non si può nasconder nulla.
Eppure, lei, con l’ostinazione dei montanari, si aggrappa a quel quotidiano barlume. La speranza è un raggio di sole che nasce nel cuore anche se una ragione vera non c’è, anche se le nuvole oscurano il cielo. E’ la forza della vita che ognuno custodisce, senza saperlo, nel profondo. Alla fine rende il destino accettabile perché è la voglia di farcela, di aspettare pazientemente un paio d’ali nuove per riprendere il volo.
Per Neta è di nuovo tempo di voltarsi ed incamminarsi verso casa. Sola come ieri, sola come domani. Il vento urla ancora nelle fessure delle case e porta via i sospiri. Lei sa che, quando verrà il momento di fermarsi, l’anima sua rimarrà qui, tra queste cime, ad aspettare la corriera di Luigi. Con gli stessi occhi spenti, ma pieni
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