La porta del cielo - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La porta del cielo

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XIII EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2008
Segnalato

La porta del cielo

di Luigina Cappa - Cercenasco (TO)



Mio nonno e mia nonna sono nati in montagna, come i loro genitori del resto e così anche gli avi dei loro padri. È tutto aspro su quel versante. Da qui io non lo vedo, ma so bene che c’è. Una quarantina d’anni fa fu costruita una strada per arrivarci con le auto; gran parte dei detriti furono portati ai camion a dorso di uomini e muli, (pian piano come fanno i montanari) finché il passaggio fu agibile anche per i pigri valligiani della domenica. Prima c’erano solo mulattiere per Prasecco.
Negli anni del boom industriale i giovani scappavano dalla montagna. Si alzavano alle quattro del mattino e, percorrendo il sentiero corto ma ripido, andavano ad aspettare la corriera all’imbocco della valle; dopo un’ora e mezza erano nelle fabbriche. Al ritorno risalivano a forza di gambe la pista lunga e, stanchi morti, arrivavano a casa quasi col buio. Il "secondo turno" era anche peggio.
Prasecco non è neppure un paese: è una delle tante piccole borgate sparse su per la china e raggruppate come amministrazione sotto un unico nome. Quelle frazioni hanno in comune... soltanto il Comune e l’Ufficio Postale!
- Si sono ricordati di noi montanari solo quando c’era la guerra: tutti alpini noi di Prasecco – precisavano gli anziani – Allora sì che il messo saliva fin quassù per portarci "la cartolina"! – La posta invece si ritirava solo ogni tanto, quando si scendeva per portare i prodotti al mercato o per barattarli col sale – ricordavano i più giovani – Poi si andava in parrocchia da Don Risso: lui leggeva le lettere e le faceva ripetere ad alta voce. Salendo, le ripassavamo fino a casa, per non dimenticarle – Che vitaccia per quelli rimasti: donne, vecchi e bambini: noi tutti al fronte. Almeno sei alpini partiti con me da Prasecco, non sono mai tornati – aggiungeva il nonno.
Queste vicende le ho sentite centinaia di volte, come la vita grama che conducevano da sempre le poche famiglie di Prasecco.
- Miseria, latte e castagne, ecco quello che avevamo! – lamentava nonna, ma lei e il nonno non se ne sono mai voluti andare. - Non c’è stato verso – dice mia madre che lì è nata e cresciuta. Lei invece ha lasciato la montagna per la fabbrica. - Era l’unica strada – ricorda –ho sofferto molto rinchiusa tutto il giorno nello stabilimento, ma qui non c’era futuro.
In fabbrica ha conosciuto mio padre, si sono sposati e - han messo su casa in piano - come diceva mio nonno.
Poi sono nata io ed ho ereditato i geni montani presenti in famiglia.
Mi hanno raccontato mille volte che dalla mia prima visita ai nonni, ho smesso di piangere la notte: mamma e papà hanno finalmente dormito sei ore filate; avevo tre mesi, dovevano essere esausti! Se volevano riposare, era necessario pernottare tutti a Prasecco, fino al mio primo anno di età.
Poi è stato peggio: non volevo più staccarmi da quei luoghi e dai nonni.
Al rientro piangevo a dirotto fino a valle, ma almeno ero stanchissima e dormivo per qualche ora. Io crescevo, papà e nonno costruivano recinzioni e steccati in ogni dove per mettere al sicuro la mia incolumità. Mi rimproverano a tutt’oggi di non aver mai avuto "paura di nulla", forse per incoscienza o forse per un’innata appartenenza al luogo. Non facevano altro che corrermi dietro nel timore che ruzzolassi giù in qualche scarpata. Una volta che ho eluso la loro sorveglianza, giurano di avermi vista fermare di colpo a tre metri dal ciglio e, carponi, avanzare lentamente per guardare di sotto. Mamma mi ha confidato che faceva stessa cosa.
Io ricordo solo che stare in montagna era ciò che desideravo di più durante tutta la settimana, lo sognavo anche di notte. Di solito andavamo a Prasecco la domenica ma, mio malgrado, capitava anche di rimanere in città: che noiose quelle domeniche! Finalmente intorno ai sei, sette anni mi permisero di trascorre le vacanze estive dai nonni, a patto che svolgessi tutti i compiti delle vacanze prima della partenza.
Avrei dato un braccio pur di stare in montagna, i compiti erano ben poca cosa: iniziavo a farli il pomeriggio stesso del primo giorno di vacanza.
I compagni mi prendevano in giro, ma io sapevo che appena terminati, sarei stata accompagnata a Prasecco con un solo libro da leggere: perfetto per le pioggie improvvise, tipiche della montagna!
In classe mi deridevano e mi chiamavano Haidi. Avete presente la bambina dei monti? Era la mia favola preferita e a Prasecco avevo "fiocco di neve" in lana ed ossa, la sua (e la mia) pecorella.
Nelle lezioni in cui un argomento si legasse alla mia montagna, intervenivo subito. Conoscevo le erbe, gli animali e le piante alpestri: sull’arte casearia ero una cima! Sapevo quando nascono le caprette e gli agnellini, quali erbaggi rendono il latte delle loro mamme più nutriente e così via. Capii che studiare scienze non era tempo perso come sostenevamo in classe, quando ci spiegarono i cirri, i nembi e gli altistrati: erano le nuvole anonime viste passare…nella mia porta del cielo!
Mi sdraiavo nel fieno del tramezzo sopra la stalla e guardavo oltre la finestra l’azzurro di Roccaverde, il mio posto magico, dove vagavo in un mondo tutto mio. Era la cima della montagna sopra Prasecco. Per arrivarci ci volevano quaranta minuti di gambe allenate e di silenzio: parlare tagliava il fiato! C’erano solo un grande prato e sul bordo del burrone, due pini e la malga, ricovero delle greggi al pascolo. Bellissimo.
I nonni con il latte delle loro dodici fra capre, pecore e mucche, facevano dei formaggi buonissimi e li stagionavano in una piccola casera dietro la baita. Mi avevano insegnato a mungere gli animali e mi piaceva tanto bere il latte tiepido, anche se il sapore era un po’ asprigno rispetto a quello delle bottiglie di casa.
Per me era cento volte più buono! Avevo imparato dalla nonna quando si semina nell’orto, come si curano le piantine, quand’è il momento giusto per annaffiarle e come si conservano i semi dei frutti maturi per interrarli l’anno dopo.
Forse non mi rendevo conto del lavoro continuo, della fatica necessaria per ottenere il massimo dalla terra di montagna nei mesi estivi. Anche se piccolina, non mi pesava darmi da fare, ero nel mio elemento naturale.
Un tempo Prasecco era un sovrapporsi di terrazzamenti strappati al bosco e coltivati; nei punti più soleggiati si seminava anche il grano. Ogni tre, quattro case c’era un forno usato da più famiglie. La prima volta che vidi fare il pane rimasi incantata.
La nonna cuoceva il pane una volta al mese. Il giorno prima si puliva il forno, poi si mescolavano farina e acqua con la pasta lievitata e acida: la pasta "madre". Perché "non muoia" basta aggiungerci un po’ d’acqua e farina tutti i giorni, amalgamare bene e il miracolo continua, anche per anni.
Il giorno successivo univamo ancora acqua e farina, poi modellavamo piccole forme di pane: o tonde e alte o grassottelle e lunghe, che lasciavamo riposare. Il nonno aveva già acceso il fuoco, e quando il forno era caldo a puntino, infornavamo il pane lievitato, avendo cura di rigirarlo ogni tanto. Avete mai assaggiato il pane ancora caldo? È una cosa che si dovrebbe fare nella vita, assolutamente.
Con lo stesso impasto del pane a cui aggiungeva burro, uova, zucchero o miele, la nonna preparava anche i biscotti: con uvetta secca o pezzi di castagne, nocciole o petali di viole (squisiti), con cacao ecc. Alcuni io li spolveravo con lo zucchero che pestavo nel mortaio, fino fino. Con le marmellate della sua fornita dispensa qualche volta preparavamo le crostate, ma perché la torta risultasse soffice dovevamo aver fatto nei giorni precedenti tantissimo burro nella zangola. Una delizia! Altro che quelle della drogheria sotto casa mia…
Mi piaceva anche andare per legna con il nonno. Facevamo dei bei mucchi, poi lui tornava a prenderli con la gerla se erano vicino casa, oppure li mandava giù col "filo" il giorno dopo, se erano dall’altra parte del vallone. Sentivo il sibilo della carrucola che scorreva sul cavo quand’ero ancora a letto: rimproveravo la nonna perché non mi aveva svegliata e correvo ad aspettare la fascina per vederla sbattere con violenza sui vecchi pneumatici fissati a terra che fungevano da ammortizzatori. Il nonno dopo un po’ tornava. La prossima volta avrebbe riportato su il pesante gancio e mandato di qua un altro carico di legna.
Un anno la nonna mi fece un regalo fantastico: mi aveva invitata a raccogliere per tutta la primavera e l’estate fiori ed erbe profumate; riempito un sacchetto di juta, l’avevamo appeso all’ombra. Un mattino mi disse di prenderlo e mi portò nel solaio dove aveva cardato la lana delle pecore, mi chiese di cospargerla con tutti quei fiori secchi, poi la infilammo dentro una tela per le federe dei cuscini e ne cucì l’imboccatura – Così mentre dormi – mi disse al termine del lavoro - potrai sentire tutti i profumi della nostra montagna! – Lo conservo ancora gelosamente quel cuscino.
Il sabato o la domenica arrivavano i miei genitori: papà aiutava il nonno nella manutenzione della baita, a raccogliere le patate con la gerla, a recuperare la legna o sistemare i muretti a secco; noi "donne" davamo una mano, ma spesso sparivamo per una lunga passeggiata e tornavamo sempre con qualche frutto.
In autunno andavamo a funghi. Partivamo tutti al mattino presto con una gran scorta di cibo, papà e nonno mettevano nelle gerle anche un po’ di vinello, una o due coperte e dei vestiti di ricambio: il sottobosco è umido, è facile bagnarsi. Per l’acqua non avevamo problemi: sapevamo tutti dov’erano le sorgenti. Facevamo a gara nel raccogliere più funghi, mangiavamo pranzo nei boschi e poi ci riposavamo stesi sulle coperte a chiacchierare. Non importava più quanti funghi avevamo raccolto, erano sempre troppi. Al ritorno cucinavamo il necessario per la cena e gli altri li portavano a casa i miei genitori.
Questo è uno dei miei ricordi più belli: le persone che adoravo erano tutte con me.
Ora non ci vado più in montagna, tanto meno a Prasecco, adesso odio la montagna.
Era in me, complice necessaria alla mia vita. Ora non più.
Mi ha tradito, slealmente, brutalmente.
Non posso più salire in montagna, mi fa orrore.
Riesco appena a guardarla da qui, che si disegna l’orizzonte da sè.
Da quando si è presa mio marito la disprezzo con tutta me stessa.
Mi ha portato via l’uomo che amavo. Per sempre.
È successo quasi tre mesi fa, in Luglio… io e Michele eravamo a Prasecco.
Alla morte dei nonni quella casa era diventata la nostra seconda casa. Papà e mamma salivano ormai raramente, ma appena possibile noi eravamo là. Anche lui amava tanto la montagna. Eravamo sposati da soli due anni e lavoravamo entrambi nel parco montano dove ci eravamo conosciuti.
Lui era una guida alpina, sapeva il fatto suo. Insieme avevamo scalato le cime di mezz’Europa.
Portava spesso le scolaresche a conoscerla, la maledetta, insegnava loro a rispettarla e anche a difendersi dalle sue insidie. È stato un attimo.
Ci eravamo appena incamminati: una dolce salita, non c’erano passaggi difficili. Capitava di inciampare, ma ci eravamo sempre rimessi in piedi subito, ridendo della nostra goffaggine. Io aspettavo che si rialzasse e sorridevo. Invece aveva battuto il capo violentemente, su uno spuntone di quell’insulso, semplice sentiero, percorso mille volte. Neppure il casco è servito a nulla.
Quando ho capito, il suo corpo stava già scivolando. Era troppo tardi.
È rotolato inerte per molti metri, poi è scomparso nel canalone. Non ho fatto in tempo ad afferrarlo, non sono più riuscita a vedere il suo viso.
Ho urlato, l’ho chiamato inutilmente. La montagna me l’aveva preso!
Ero angosciata. Ho provato a chiedere aiuto col cellulare al soccorso alpino, ma non sono riuscita a mettermi in comunicazione. Continuavo a gridare il suo nome. Non mi ha mai risposto. Sono tornata a Prasecco di corsa: non si fa, lo so, avrei potuto ammazzarmi.
Forse sarebbe stato meglio.
Ho telefonato e sono tornata su da Miky. Non una lacrima, sapevo che ormai c’erano poche possibilità di trovarlo vivo. In mezz’ora sono arrivati tutti.
Hanno provato a raggiungerlo nel dirupo con ogni mezzo, ma la montagna non me l’ha restituito. Hanno tentato di tutto, anche con l’elicottero. Proseguire metteva in pericolo i soccorritori. Ho detto io di lasciarlo dov’era.
Amava tanto la montagna, come me, ora dovevo lasciarglielo: l’aveva voluto per sè soltanto, doveva dargli sepoltura da sola.
Mi sono fatta portare a valle con l’elicottero: non potevo più calpestare quella terra.
Tutti mi guardavano spaventati da quanto ero determinata e fredda.
Dopo la tragedia gli amici mi hanno chiesto se potevano fare una veglia di preghiera al casotto del parco. Ho negato loro il permesso. Sui monti mai, mai più. Abbiamo pregato in chiesa, a valle. Cantavano "Signore delle cime" e io pensavo che non era stato il Signore a chiamare Michele, se l’era preso la montagna a tradimento.
Non ho voluto che esponessero gli arnesi per l’arrampicata davanti alla sua foto; solo il cappello da alpino: lui ne andava fiero.
Io in montagna non ci tornerò mai più.
Fino a ieri.
La mia salute non migliorava e mia madre mi aveva supplicato di andare dal medico; ho iniziato una lunga serie di esami finiti ieri.
Stanotte ho finalmente dormito sette ore filate senza incubi.
È stato un dolce risveglio, oggi è un giorno nuovo: sono incinta.
Ieri in me si è slegato qualcosa: il mio cuore di granito si è sciolto nel momento in cui ho visto uno sfarfallio dentro il monitor dell’apparecchio ecografico.
Era il cuore pulsante di mio figlio, di nostro figlio, Miky.
Ho pianto. Lentamente, silenziosamente, sono scese tutte le lacrime che non ho versato prima. Ho dato sfogo al mio cordoglio tutto d’un botto.
La dottoressa è uscita dalla saletta in silenzio, sapeva.
Ho singhiozzato tra le braccia di mia madre, su quel lettino d’ospedale, per non so quanto tempo; piangevo insieme a lei e il dolore diminuiva. Ho pianto per poter gioire, per fare in modo che questo miracolo, questo regalo del cielo, quest’ultimo dono di Michele venga al mondo.
Oggi è un nuovo giorno, credo che rivedrò Prasecco.
Penso che tornerò quando il tempo mi avrà dato questo bambino che io e Michele desideravamo tanto. Lo so che non mi innamorerò come prima della montagna, ma salirò ancora lassù.
Ritornerò quando gli anni avranno lenito il mio dolore e tu sarai cresciuto.
Ci riusciremo, vedrai, va tutto bene ora.
Mamma ti mostrerà dove tuo padre ha trovato la sua porta del cielo.
A Luciano M.te Cervino, Luglio 2005
A Mauro Mon Viso, Luglio 2007
E a tutti coloro che in montagna sono "andati avanti".
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