La madonna di Casen - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La madonna di Casen

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Segnalato

La madonna di Casen

di Aristide Albertazzi - Quittengo (BI)



Le cose hanno un significato se richiamano alla memoria affetti, sensazioni, speranze. Se sono parte di noi, della nostra tradizione, della nostra famiglia. Della nostra storia.
Ecco quindi come una semplice cappelletta di montagna può racchiudere il significato d’una intera vita.

Inverno 1943: una sera come tante in Valle Cervo, nel Biellese. Come tante di guerra: truppe tedesche in paese e partigiani sulle montagne. Il buio porta la speranza di un po’ di quiete, finalmente, dopo una giornata di smarrimento e di angoscia.
Invece…Sinistri colpi alla porta rompono il silenzio. Chi mai può essere?
Io sono in cucina con i miei due fratelli minori, di sette e nove anni, mia madre è al piano di sopra, ad assistere papà che da giorni è a letto, ammalato. Non si regge in piedi, eppure, fra la naturale prudenza di non aprire di notte a sconosciuti e il timore di ritorsioni prevale quest’ultimo. Si alza, sorretto da mia madre e si affaccia alla finestra. “Chi è, cosa volete?”, chiede con un filo di voce che gli esce a stento.
Sono tedeschi, accompagnati da militari della RSI. Sono armati. Hanno bisogno di una guida per un rastrellamento sull’Alpe Machetto. Vogliono che l’indomani mio padre si presenti al comando tedesco, alla Villa Costa, a Quittengo.
Erano bene informati: sapevano che mio padre aveva lavorato in valle, nelle miniere della Breda, all’estrazione di minerali impiegati per le leghe dell’acciaio, che di conseguenza conosceva la dislocazione delle gallerie (divenute possibili nascondigli di uomini e materiali) e infine sapevano, di certo informati da qualche solerte valligiano, che i miei due fratelli maggiori erano scomparsi dal paese, e che probabilmente stavano con i partigiani.
“Mi sarà impossibile accompagnarvi, viste le mie condizioni…”, replicò mio padre sperando di toglierseli di torno.
Fu tutto inutile, e poiché a loro serviva comunque una guida, saputo che c’erano altri figli in casa, dissero che si sarebbero accontentati di me, il maggiore dei tre rimasti in casa. Avevo quindici anni.
“Che il ragazzo si presenti al nostro comando domattina, alle otto”, ordinò perentoriamente uno di loro. E se ne andarono .
Avevo sentito tutto dalla cucina. Poco dopo mia madre scese e mi guardò sforzandosi di mostrarsi tranquilla. “Domani andrai con loro – disse - Hanno bisogno di qualcuno che li guidi sull’Alpe Machetto”.
É un territorio che conoscevo bene, compresa la miniera con le sue gallerie: c’ero quasi cresciuto, perché d’estate accompagnavo mio padre all’alpeggio.
Faceva freddo, alle otto di mattina, e in quel tempo non esisteva l’abbigliamento confortevole di cui possiamo disporre oggi. I ragazzi di allora non portavano pantaloni lunghi - erano un lusso che nessuno poteva permettersi - ma quelli sopra il ginocchio; quanto a scarpe da montagna neanche a pensarci: zoccoli di legno. I ragazzi più fortunati avevano inchiodato suole di gomma ricavata da vecchi copertoni di biciclette.
Mia madre mi fece indossare un paio di pantaloni di mio papà; erano fin troppo comodi , tanto che ci stavo dentro tre volte. Li aveva stretti in vita, ma non bastava, perché erano lunghi. Lei allora si mise in ginocchio davanti a me, li arrotolò per evitare che ci camminassi sopra e cucì il nuovo bordo. Poi mi diede un bacio: “Che la Madonna di Casen ti dia aiuto”, mi disse con le lacrime agli occhi. E stette a guardarmi sulla porta mentre mi avviavo lungo la stradina che portava al paese.
Alle otto in punto sono davanti al portone d’ingresso. La villa è immersa in un parco dove c’e un gran andirivieni di soldati. Non so cosa fare.
Ma ecco che mi si avvicina un militare: “Cosa fai qui?”, mi chiede in italiano. Gli spiego della visita del giorno prima, dell’ordine di far loro da guida sull’Alpe. “Aspetta”, dice. E si allontana di corsa per comparire di lì a poco con due tedeschi che parlano concitatamente. Poi ne arrivano altri, al suono di un fischietto ne arrivano altri ancora. Saranno stati una quarantina, quasi tutti tedeschi.
Mi prende la paura, comincio a tremare e non solo per il freddo, come se tutto stesse precipitando intorno a me.
La mia odissea era cominciata.
Si parte, percorrendo la carrozzabile fino a Oriomosso. Mi chiedono se sono in grado di portarli alla miniera. “Certamente”, ma non dico che conosco quel territorio come le mie tasche. E poiché so che ai Casen i partigiani hanno una ingente quantità di lastre di cuoio pronto all’uso, anziché imboccare la strada più corta porto i soldati in un percorso più lungo, sperando di poter aggirare la miniera.
Ci sono quasi trenta centimetri di neve a Quittengo, e quando arriviamo a Oriomosso la neve mi arriva al ginocchio. Lungo il sentiero che ho scelto per lasciar fuori l’Alpe Casen lo strato innevato aumenta: sento i piedi di ghiaccio. Apro la strada alla colonna, ma ad un certo momento non ce la faccio più: non riesco neanche ad alzare le gambe. Le mie speranze di poter tornare indietro svaniscono subito: un paio di tedeschi si mettono in testa e proseguiamo. Per me è un calvario.
Nonostante i miei tentativi di depistarli, arriviamo alla miniera, dove, secondo loro, avrebbe dovuto esserci l’arsenale dei partigiani. Io però so che non troveranno niente, perché le gallerie sono inaccessibili da anni, per frane e smottamenti. E poi i partigiani non avrebbero mai potuto vivere lassù, sarebbe stato come chiudersi in trappola. Neppure d’estate, perché non c’è la possibilità di avere acqua potabile.
I tedeschi cercano di entrare nelle galleria ma desistono quasi subito per i detriti che bloccano i passaggi. Allora due di loro mi fanno scendere fino ad un cascinale intravisto durante il percorso, per cercare attrezzi da scavo. Troviamo solo una sorta di vanga, noi lo chiamiamo “rabe”, serve a pulire la stalla dalla sterco del bestiame. Risaliamo.
Scelgono a caso due gallerie e in una mi ordinano di scavare per aprire un varco fra i detriti. Mi sento come un condannato a morte. Sono allo stremo delle forze quando intravedo un cunicolo. Mi spingono avanti per primo, strisciando, seguito da due tedeschi che mi fanno luce con le torce.  Ma è impossibile proseguire. Allora mi fanno ripetere lo scavo con la seconda galleria. Colpi su colpi, finché sento il comandante tedesco dare degli ordini. Mi fanno smettere, vengo spinto indietro e scoppia un inferno di scariche di mitra. Pensavano in questo modo di abbattere la parete di detriti. In quel frastuono, in quella situazione che mi sembrava un incubo: “E’ la mia fine”, ho pensato, e sono scoppiato a piangere. Mi misi a piangere, un pianto a dirotto, incontrollabile.
Sento una mano sulla spalla: “Sta calmo”, mi dice un soldato italiano. Dallo zainetto toglie un giubbetto imbottito e me lo mette addosso. “Adesso andiamo a casa”, aggiunge.
Si scende, torniamo al cascinale abbandonato e si fa una sosta. La neve è alta un settanta centimetri, a stento si vede il sentiero. L’ufficiale tedesco si guarda attorno: ci sono altri cascinali sparsi. Si intravede il vecchio gioco delle bocce e una baracca dove c’era l’osteria estiva. Poco più un là è ben segnato il sentiero pianeggiante che porta alle malghe del bestiame di mio padre.
L’ufficiale decide di avviarsi proprio in quella direzione, la marcia riprende. Avverto il pericolo che salendo da Oriomosso avevo evitato: quel sentiero porta dritto ai Casen. Arriviamo e mentre i tedeschi perlustrano tutti i cascinali abbandonati, penso che prima o poi troveranno il cuoio nascosto dai partigiani.
Mi giro verso una cappelletta semidistrutta dalle intemperie. Si intravede ancora una Madonna con Bambino. “Madonna aiutami”, mormoro con un filo di voce. Mi sento perso. É stata una giornata durissima, ho freddo, fame, ho paura, i tedeschi non hanno manifestato alcun senso di compassione verso di me. Sono considerato un nemico. “Madonna aiutami…”.
Finalmente si riprende la strada per Oriomosso, mentre il grosso della pattuglia continua la perlustrazione ai Casen. Torniamo a Quittengo e infine raggiungiamo la villa del comando.
“Torno a casa”, penso. “Posso andar via?”, chiedo all’ufficiale tedesco. “Aspettare camerati, poi andare a casa”, risponde irritato.
Qualcosa mi dice che il ritardo delle altre squadre lasciate sul posto significa che hanno trovato quanto i partigiani avevano nascosto.
Infatti, dopo una mezz’ora che mi sembra eterna, un colpo di fischietto chiama tutti a raccolta, me compreso. Si riprende la strada per Oriomosso, fino a un punto panoramico dal quale si vede il rettilineo che porta al cimitero. L’ufficiale osserva a lungo con il binocolo il gruppo di soldati che si avvicinano trascinando sulla neve qualcosa di voluminoso. So già di cosa si tratta: hanno trovato il nascondiglio dei partigiani.
“Tu sapere, tu non dire…”, mi aggredisce l’ufficiale. “Caput, caput…”, minaccia furioso. Era troppo. Scoppio a piangere.
Mi riportano al comando e mi lasciano in corridoio, guardato a vista dai soldati. Mi sento un cadavere vivente, sono davvero sfinito. Ogni tanto insisto di poter andare a casa, ricevendo sempre la stessa risposta: “No”.
Qualcosa però ha fatto breccia in questo ufficiale. Sento che chiama un soldato e gli dà quello che mi sembra un ordine. Poi si rivolge a me e mi dice qualcosa che non mi è stato possibile capire: ormai mi aspetto di tutto.
Invece di lì a poco il soldato arriva con una forma di pane in mano e me la porge. Sono pietrificato, per il freddo, la paura e lo stupore insieme. Avevo dolori dappertutto, soprattutto alle gambe. Ora posso andare a casa? No, aspettare. Altri ordini in tedesco e il soldato scompare per tornare con un salame in mano.
L’ufficiale nel frattempo era sempre rimasto accanto a me. Non ho mai capito il suo atteggiamento. Arriva un altro tedesco con un bicchiere in mano e me lo porge: è grappa. L’ufficiale si infuria, gliela rovescia addosso e lo prende a sberle coprendolo – questo l’ho capito anche senza traduzione – di insulti.
“A casa – mi dice subito dopo – mangiare tutto!”
Sono libero. Un breve tratto di carrozzabile, poi la mulattiera.
Voglio correre, immaginando con quanta ansia mi aspettano, ma non ce la faccio: non sento più i piedi né le gambe né le braccia, non so proprio come sono arrivato. Vedo mia madre corrermi incontro, mi abbraccia stretto, in un bagno di lacrime. Entriamo in casa, abbraccio i miei fratelli, poi voglio andare a salutare papà, che è a letto. Ma lo sfinimento mi impedisce di fare i gradini: resto in cucina, dormirò lì.
“La Madonna di Casen ti ha aiutato”, sento mia madre mormorare prima di cadere in un profondissimo sonno liberatorio.
Passano gli anni, la guerra è finita, sono ormai adulto. Mi sposo. Ho un figlio, che viene a mancare, poi nascono due figlie. Un giorno racconto quella mia drammatica avventura a mia moglie e il mio desiderio di tornare a quella cappelletta per restaurarla, in segno di riconoscenza e devozione.
Mi approvò con gioia, anche se non fece in tempo a veder realizzato questo mio sogno coltivato in silenzio per tanti anni, perché se n’è andata troppo presto anche lei.
Mi metto al lavoro con l’aiuto degli alpini del mio gruppo di Campiglia Cervo: prima il tetto, poi i muri e l’interno. Per restaurare il dipinto della Madonna con Bambino mi rivolgo ad Adriana Bava, attuale sindaco di Campiglia, che di buon grado accondiscende a rifare il dipinto murale. Al termine, l’inaugurazione, con la benedizione da parte del rettore del santuario di Oropa e la celebrazione di una Messa. Un rito che si ripete ormai da vent’anni, l’ultima domenica di agosto. Gli alpini e i pochi valligiani salgono alla cappella per assistere alla Messa.
Ed è festa per tutto il giorno.
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