La Croce - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Vai ai contenuti

La Croce

Tutte le edizioni > Edizione22
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXII EDIZIONE - Treviso, 8 Gennaio 2017
Secondo classificato

La Croce

di Rita Mazzon - Padova



Sono stanco. Mi siedo nella poltrona preferita da mia madre. Ascolto i rumori della stanza. Mi guardo attorno in cerca di un qualcosa che attenui questo vuoto che mi circonda. E’ più di un anno che la mamma è morta e non so ancora affrontare la sua assenza. Ci sono certi eventi che danno una scossa alla tua vita. Infili la spina e ti illumini in un video che ripete all’infinito la stessa scena. Spegni. Guardi dalla finestra lo stormo di uccelli che vira. Un lampo scuro torna, si apre, ritorna in formazione perfetta. Una formula geometrica può catturare il miracolo della natura, ma in te ormai qualcosa non funziona bene. Ti senti rotto, pigi il tasto, lo schiacci, non ci riesci. Ti inventi allora una visione distorta, diversa.
Mi serve una bugia per sconfiggere il dolore, così ogni tanto vengo nella casa che mi ha visto nascere e faccio finta che non sia successo niente. Metto in ordine, impacchetto cose, metto un po’ di ordine anche alla mia vita. Getto via carte e cianfrusaglie. Tutto deve essere in uno stato normale come se qualcuno ci vivesse ancora. Mi imbambolo davanti ad un quadro. Ho la consapevolezza che devo vendere questa casa, però vado a rilento, come se da ogni pacco che faccio, da ogni cosa ormai per me inutile che regalo stessi gettando via giorni, anni vissuti coi miei genitori. Non ho il coraggio di disfarmi di tanti oggetti. Li ammucchio. Continuo a rovistare, ne regalo ancora, poi mi pento. Non sono cose preziose, ma fanno parte della mia vita. Perfino la scodella in cui bevevo il latte da bambino, perfino quella mi dà struggimento. Accarezzo la porcellana, avvicino le labbra all’orlo, chiudo gli occhi, faccio il gesto di bere, poi mi svilisco. Tutto è passato, tutto è finito. Ogni volta che apro la porta ed entro mi sembra di essere un ladro che vada a rubare pezzi di vita della mia famiglia. Frugo, tiro fuori i cassetti del comò grande, cerco segreti che non ci sono, parole che non ho sentito, ma che avrei voluto ascoltare. Mi mancano la carezza, il tocco di una mano leggera, quelle di mia madre. La sua è una lontananza forzata che non voglio. E’ una partenza senza ritorno. Tocco le cose dei miei cari per risentire un po’ del loro amore. Hanno lasciato le loro sensazioni sulle cose ed io voglio appropriarmene prima che tutto scompaia.
Devo vendere la casa, forse lo farò domani, forse lo farò a fine anno. Mi attacco a quello che non c’è, invece di guardare avanti, ma questa casa mi appartiene. La memoria si concentra sulle pareti che sto toccando, sul pavimento che calpesto. Questa casa sono io.
Le cose invecchiano con noi, ma l’esperienza fortificata dall’età mi fa sentire più calmo, più giudizioso. Allora tramuto le cose che vedo in uno scritto, anche se mi confondo, anche se mi lascio suggestionare da qualche svolazzo della mente, o da un non ricordo che diventa memoria a singhiozzi.
Oggi riordino lo studio di mio padre. E’ il posto in cui si doveva entrare in silenzio, in punta di piedi per non disturbare. Fuori da quella porta c’erano i giochi, c’erano le risate di noi figli, al di là c’era la sua manata sulla spalla se prendevi un bel voto, o il rimprovero se facevi qualche ragazzata. Mi siedo alla scrivania. Mi metto nella posizione di un padre che giudica. Sto scomodo. Apro il primo cassetto. Sotto un mucchio di carte piene, zeppe di numeri, trovo una busta.
E’ una busta stropicciata, indirizzata a mio padre. Sul lato destro il francobollo è stato staccato. Sorrido. Sarà stato mio fratello. Lui ogni volta che arrivava la corrispondenza scollava il francobollo per la sua collezione, prendendosi immancabilmente le sgridate di papà. Tiro fuori la lettera piegata in quattro e nel fare questo gesto un po’ impacciato, mi cade a terra una foto. La raccolgo. Riconosco nella foto il mio nonno. Spiego i fogli ripiegati in quattro, attaccata con lo scotch all’angolo destro della prima pagina c’è una piccola croce di ferro. Cerco di leggere. La scrittura è fitta e minuscola. Decifro a mala pena la data luglio 1971. Non riesco a vedere il giorno. Comincio a leggere piano. Inizio, poi mi prende il solito disagio. Ho vergogna di leggere qualcosa che non è destinato a me, ma a mio padre. Ritorno quindi alla busta. Mi limito a decifrare il mittente. Riconosco solo le prime due cifre, poi la busta si è scolorita proprio sul lembo superiore. Allora leggo con fatica.
Egregio signore lei non mi conosce. Mi chiamo Henrick e per molti anni suo padre mi ha onorato della sua amicizia. Di lui ho sempre conosciuto ed ammirato la sua sensibilità ed umanità. Mi dispiace moltissimo che ci abbia lasciato e sono molto vicino a lei e a tutta la sua famiglia per la grave perdita che vi ha colpito.
La prima volta che vidi suo padre, certamente lo ricordo come un giorno infausto ed incerto per la mia vita. Suo padre, come lei ben sa, era ufficiale degli alpini. Ha partecipato alle battaglie del Piave come me, solo che ci trovavamo in due linee diverse. Lui è italiano, io invece sono austriaco. I giorni del Piave sono lontani, ma è nitido e trasparente quell’incontro. Venni catturato appunto in un’azione di guerra. Anch’io come lui ero un ufficiale, ma soprattutto ero il suo nemico. Bastò che ci guardassimo negli occhi, però, perché ci sentissimo vicini. Non c’era odio, solo misericordia. Eravamo semplicemente due uomini scampati alla morte. Sicuramente saremo stati pronti al sacrificio per la patria, ma avevamo conservato lo spirito di giustizia nel cuore. Troppi morti, troppi giovani compagni ci avevano lasciati ed ora avevamo solamente bisogno di pietà. Quando suo padre seppe che ero cattolico, mi regalò la croce di ferro che gli ornava il petto, un involto di sigarette ed un sorriso amico. Io gli regalai il mio libricino di preghiere che custodivo nella tasca. E non so ancora come successe, sebbene avversari, ci mettemmo a piangere sotto quel cielo sbranato dal fuoco. Non mi separai mai dalla piccola croce e la conservai con gelosa cura, assieme ai ricordi più cari.  Suo padre era un vero alpino e aveva un animo gentile, degno delle più nobili tradizioni della sua gente forte e generosa.
In quell’episodio della sua vita rivelò, senza accorgersene, il suo modo onesto di concepirla e lasciò in me un indefinito senso di gioia ed un desiderio vivo di volerlo imitare.  Il suo non fu un gesto eclatante davanti alla folla, ma un atto semplice che mi sconvolge ancora. Essere attratti dalla gloria è visibilmente umano, donare qualcosa agli altri e vivere nei piccoli atti è prepotentemente concreto. Mite, umile di cuore, lui era incapace di credere alla violenza, non sapeva giustificare il diritto del più forte, anche quando l’inesorabile legge della guerra fa dimenticare agli uomini la dignità della persona e lascia al vincitore la convinzione della legittimità di ogni sopruso.
Io sono orgoglioso di averlo conosciuto. Lui era un uomo con una cerchia di amici molto ristretta. Era riservato e condivideva con pochi le proprie azioni buone.  Mi disse infatti che non parlò con nessuno di quello che aveva fatto per me. I suoi gesti buoni li nascondeva sotto una scorza di rigore. Dai suoi occhi però traspariva quella bontà che non poteva essere contenuta dal dovere, o dalle regole, perché la bontà trapassa la violenza.
Io sono un povero vecchio che ne ha viste tante, ma ho capito che la guerra non può risolvere nulla. Si combatte per chi? Per cosa? Solo per l’interesse di pochi. Solo per sete di danaro e di potere. I miei compagni se ne sono andati tutti. Anche quel giorno della cattura ne ho visti cadere tanti.
Finita la guerra ci siamo scritti e rivisti.
Suo padre era un buon alpino che amava la salita. Amava la sua montagna ed ogni volta che leggevo le sue lettere mi sembrava di essere con lui. Diventavo foglia, ago di pino, prato. Diventavo natura anch’io, mi spandevo con tutti i sensi e dipingevo la mia anima con i colori della sua cara montagna.
Quando venivo in Italia ed incontravo suo padre, c’era sempre una scoperta nuova. Un angolo da esplorare assieme. Talvolta, dopo una salita, ci levavamo gli scarponi ed i calzetti perché volevamo sentire la carezza della montagna ai piedi. L’erba ed il muschio ci solleticavano e noi eravamo un tutt’uno con la montagna. Lei ci circondava come una buona madre che ti fa sentire bene, al sicuro. Ci sollevava fino a guardare più da vicino il cielo. Le salite ai rifugi erano conquiste e appagati e stanchi ci davano un lungo abbraccio come ricompensa. Anche la montagna non voleva essere messa da parte e con la sua brezza ci faceva sentire il suo respiro che ci toccava lo spirito. Eravamo senza limiti, senza contorni. La concretezza dei nostri corpi si plasmava, si smussavano gli spigoli. Attraverso di lei davamo alla luce noi stessi. La rinascita era liberatoria e la mente si levava di dosso le angosce. Il silenzio diventava trasparente. La nostra estasi era una pausa tra una nuova ascesa e discesa in lei.
Ringrazio dell’incontro che ho avuto.  Suo padre mi ha riversato un infinito amore. Mi sento bene per averlo conosciuto. In un mondo di cattiverie il suo esempio sia l’esempio che vorrà donare anche lei ai suoi figli. L’eredità lasciata è preziosa. Non getti via la croce. Essa ha fortificato il patto di due uomini che sono diventati amici. Non scordi le mie parole. Oggi sono molto triste, perché ho perso il mio migliore amico. La comunione delle nostre anime non si può disperdere con la cenere dei nostri corpi. Io lo vedo là sulla cima della montagna e certamente non lo farò attendere.
Un caro abbraccio. Henrik.
Ritorno a rileggere qualche frase. Riguardo la foto del mio nonno, verso cui ho provato spesso soggezione. Oggi no! Passo il dito sul suo viso ed il suo aspetto severo mi sembra che si addolcisca in un sorriso.
Tengo nella mano la croce, la stringo e come se fosse un talismano mi trasmette la sua forza. Anche le cose hanno un’anima, sono il frutto delle sensazioni avute da altre persone e in questa casa io sento la traccia lasciata da tutti quelli che mi hanno voluto bene. La vita di ognuno è fatta anche della vita di chi ci ha preceduto. E’ parte integrante di noi stessi. E’ doloroso cercare le orme di chi ci ha amato, ma i miei cari mi hanno permesso di essere quello che sono e non posso chiudere gli occhi verso il passato, perché la mia vita non è solo mia. Il loro esempio mi sostiene, l’ho dentro di me ed è questo che mi fa andare avanti sempre.
Torna ai contenuti