La cordata dell'Averau - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La cordata dell'Averau

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVII EDIZIONE Arcade, 8 gennaio 2022
Segnalato

 
La cordata dell'Averau

 
di Francesco Paloschi - Mestre (VE)





Torino, novembre 1927. Le dita di Umberto sfogliano le grandi pagine dell’album, lo sguardo indugia sulle fotografie organizzate con cura, gli angoli inseriti nelle incisioni, l’ordine minuzioso delle didascalie che parlano delle lunghe ore spese in preparazione di quell’omaggio inconcepibile. Giacomo gli siede di fronte, impietrito sulla poltrona di pelle, rimane in silenzio e ha gli occhi lustri. Umberto finge di non accorgersene, continua a percorrere le crode e i boschi sulle stampe in bianco e nero e a conversare con la moglie del suo impacciato ospite. Nel salotto è sospesa una sobria commozione.
Mentre fa girare i fogli di cartoncino a Umberto pare di poter sfiorare anche la roccia, quella dolomia spigolosa e nobile sulla quale arrampicava come un gatto, e che a distanza di dieci anni i polpastrelli non riescono a dimenticare. Nella mente gli appare nitida la grande luna che aveva accompagnato la discesa in massa dai piani d’alta quota. Erano venuti giù affondando nella neve fresca. Sopra i duemila metri, come preparandosi al congedo, la montagna aveva indossato in anticipo il suo bel manto di cristallo.
Rivede le file di sagome scure, i soldati barcollanti e increduli sotto il peso dello zaino, le imprecazioni rabbiose di chi perdeva l'equilibrio e a fatica si risollevava, oppresso dall’attrezzatura pesante, mentre gli “Alt” degli ufficiali di continuo ricucivano la fila. Ciascuno marciava immerso nel gelo dei propri pensieri. Lui chiudeva per ultimo, in fondo al plotone di cui aveva il comando, e di frequente si girava a guardare in alto, scombussolato, nervoso. Gli occhi andavano lassù dove nel silenzio delle pareti millenarie s’erano accumulate le tombe dei compagni, le trincee e i buchi nella roccia, i chilometri di filo spinato, le baracche vuotate all’improvviso e sfasciate in gran fretta. I profili familiari delle cime sorvegliavano la fuga dall’alto come ombre di giganti nella tenebra.
Erano scesi nella semioscurità per più di mille metri. Alle spalle le cannonate del nemico rombavano cupe, segno che forse gli austriaci avevano fiutato la manovra. Sulle sterrate tra i boschi le torce tagliavano il buio con fasci di luce sinistra, stuzzicando gli animali e gli spiriti acquattati nella boscaglia. Simile a un’onda di piena, l’esercito si riversava in disordine sulla strada per San Vito di Cadore e il fondovalle ribolliva di uomini in divisa e scarpe pesanti, con i carri e i muli gravati dal bagaglio. Le notizie della disfatta di Caporetto avevano spinto i vertici a dare l’ordine di lasciare il fronte, la paura di rimanere schiacciati nella morsa del nemico, e la necessità di portare rinforzi sul Grappa e sul Piave, avevano convinto i comandanti a regalare le Dolomiti agli austriaci. Per ragioni che ai soldati apparivano incomprensibili, si stavano cedendo i monti senza essere sconfitti e circolava la sensazione orribile che i sacrifici e il sangue fossero stati inutili. Tre razzi colorati, sparati dalla cima delle Cinque Torri, avevano dato il segnale. Nella notte dei morti si era sviluppata una muta e interminabile processione di fantasmi.
Raggiunsero San Vito poco dopo l’alba. Alle porte del paese un fragore di fiamme e spari erompeva nell’aria. Era stato appiccato il fuoco a dei baraccamenti e i proiettili dimenticati all’interno esplodevano come mortaretti. Assieme al crollo dei tetti e al crepitio del legname, le raffiche incontrollate accoglievano il passaggio della brigata come un macabro festeggiamento. Poco più avanti il centro si presentava tetro e silenzioso, la gente era rintanata nelle case e qualche sagoma furtiva scivolava dietro i vetri delle finestre. Umberto ricordava bene una vecchina che non aveva voluto nascondersi, aveva aperto la porta di casa e dalla soglia ripeteva tra i singhiozzi: “E i austriaci? Dove xei i austriaci? O pore noi, pori fioi, Gesù, Maria, i va via tuti, cosa saralo de noaltri!”. Avanzavano macchinalmente sulla strada portando nelle orecchie quella litania sconsolata e nessuno fra loro aveva in animo una risposta da dare.
Interminabile e pesante si snodava la strada per Borca, Vodo, Valle di Cadore. La marcia era disorganizzata, tenere un ordine era difficile, specie con il morale caduto sotto i tacchi. Alle colonne si mischiavano in confusione gruppi di donne e di ragazzi, portando con sé qualche sacco, qualche masserizia, pochi indumenti. Molte donne piangevano e avevano i visi stravolti. Tra gli sfollati si distingueva una ragazza dall’aria ribelle. Lo sguardo azzurro ghiaccio, l’espressione fiera sul viso magro, si era caricata sulle spalle una gerla riempita di sculture di legno. Mentre procedeva a braccia conserte mandava intorno occhiate di fuoco. Di quando in quando si arrestava e si volgeva a guardare indietro, verso il paese dov’era nata, verso i boschi e le cime innevate, mentre più avanti qualcuno la esortava ad andare. “Nina!”. Allora Nina con un gesto di stizza riprendeva il cammino, più orgogliosa e imbronciata di prima.
Sulla via della ritirata Umberto ebbe il suo da fare per dare coraggio e assistenza alle reclute. Aveva nel plotone chi era tormentato dalle piaghe ai piedi o da malanni peggiori, chi era sfinito, chi frastornato, sconvolto da quella fuga forzata e inaccettabile. Aveva compiuto ventisei anni in quei giorni, il tenente, e sentiva in cuor suo gli obblighi del fratello maggiore.
“Coraggio, su, resta lucido, fatti forza” incitava i soldati, con l’accento piemontese e il sorriso aperto, “vedrai che finita la guerra ci troviamo insieme a festeggiare”.
Nei logoranti mesi in quota, appostati a sparacchiare in difesa del Nuvolau e dell’ardito osservatorio dell’Averau, Umberto aveva finito per stringere alcune belle amicizie. Si era legato in particolare a un giovane, Giacomo, di diciannove anni appena, spedito al fronte dal meridione d’Italia. Umberto a Torino era accademico del Cai e negli arditi spostamenti tra postazioni e feritoie aveva notato nel ragazzo un talento innato per le pareti verticali. Durante gli scampoli liberi, lungo il versante posto a sud e nascosto agli austriaci, portava Giacomo a esercitarsi con lui sulle prodigiose fiancate del gruppo montuoso. Salivano in cordata condividendo gli appigli e l’emozione, la roccia e le sue articolate fessure, gli scorci abissali sotto la linea d’ascensione e, più in lontananza, le vedute sugli immani bastioni del Civetta, delle Pale di san Martino, della Marmolada. Insieme si illuminavano davanti ai grandi panorami, insieme si indignavano per lo sfregio della guerra sulle montagne aggredite e sventrate. In quell’amicizia spontanea avevano saputo mantenere la distanza dovuta al loro grado. Ora, sulla discesa lungo la strada del Cadore, mentre profughi e militari si mescolavano nel trambusto generale, Umberto non poteva fare a meno di notare che l’amico a lui sottoposto veniva affiancato dalla Nina, la ragazza con la gerla e il piglio sovversivo. Mentre li teneva d’occhio, con quell’andatura leggera e quasi lieta che assumevano quando andavano affiancati, sul viso stanco di Umberto si disegnava un sorriso.
Una notte accadde il fatto che gli avrebbe messo a soqquadro la coscienza per gli anni a venire. Nelle brevi pause notturne ci si disponeva in bivacchi di fortuna, sparpagliati sommariamente per qualche ora di riposo. Quella volta si erano accampati con il plotone nei pressi di Venas di Cadore e Umberto sostava in dormiveglia con la schiena appoggiata allo zaino. I soldati attorno erano sprofondati nel sonno, sfiniti dalla marcia. Sentiva Giacomo russare a pochi passi, abbandonato pancia all’aria come un bambino. D’un tratto, come fosse sopraggiunto uno spirito nell’aria, avvertì l’amico far silenzio e, nel giro di qualche istante, i rumori di un trafficare sospetto. Aprì gli occhi. Impugnata la pistola si levò di scatto. Nell’ombra, sopra i profili immobili degli uomini sdraiati, spiccavano le sagome clandestine di Giacomo e la Nina, predisposti per l’evasione attraverso la notte. Colti sul fatto, i due giovani si arrestarono con il respiro degli animali spaventati, e fu come se tutti e tre potessero leggersi negli occhi. Come se in quel punto preciso della valle si decidesse l’intero destino della guerra.
Il peso gli era rimasto dentro. Non aveva agito come gli avrebbe richiesto il suo grado. Quella notte Umberto non aveva gridato il “Chi va là”, aveva solo tentennato davanti a Giacomo e la Nina per un momento smisurato, incapace di parlare, confuso dal rancore verso l’ingiustizia della guerra. Infine li aveva lasciati andare, abdicando al proprio dovere di ufficiale. Riportata la testa sullo zaino era rimasto in silenzio, la mente in subbuglio, gli occhi serrati senza poter dormire. Al risveglio della truppa aveva fatto finta di niente e si era rimesso in cammino, lasciando che la scomparsa di Giacomo si sciogliesse nel magma caotico della ritirata. Un senso di disagio e d’incertezza gli tormentò la coscienza fino alla fine del conflitto, e poi ancora negli anni, anche dopo il 1919, quando con non poche polemiche fu sancita per decreto l’amnistia dei disertori.
“E’ ancora come l’abbiamo lasciato! Questo filo spinato l’abbiamo montato io e Giacomo!” Punta l’indice emozionato, Umberto, mostra il reticolato alla Nina. Dopo dieci anni gli sembra che tutto, lassù, sia rimasto intatto. Sullo scenario oltre la trincea svettano il Lagazuoi e la Tofana di Rozes. La Nina sorride compiaciuta, quella foto l’ha scattata lei, salita in quota assieme al suo Giacomo e al bambino più grande.
Con l’animo colmo di meraviglia, Umberto contempla l’album che hanno confezionato per lui. Ha posato gli altri doni accanto a sé sul tavolino, il Cristo in legno di larice scolpito dalla Nina, i chiodi e i moschettoni nuovi di zecca, la splendida corda da roccia, incomparabile rispetto alla fune consunta che adoperava con Giacomo sugli strapiombi dell’Averau. Sono riusciti chissà come a rintracciarlo qui a Torino, hanno viaggiato due giorni per venire da San Vito, dove hanno messo su famiglia. Alla porta ha aperto sua madre. In salotto se li è trovati davanti preparati con il vestito buono, tra le mani la borsa da viaggio e quella dei regali.
Fuori nevica fitto e una cornice bianca decora le finestre. Per un attimo ricorda a Umberto i cumuli di neve sulle postazioni di guerra, quando pareva di non poter sopravvivere al freddo. Mancano due giorni a Natale e questo è l’omaggio più incredibile che potesse aspettarsi. Sulla pagina finale dell’album si aprono le ultime immagini, le foto della loro bella famiglia sullo sfondo dei monti, con la coppia di sposi e i tre bambini pieni di vita. Si avvicina per vedere meglio, esamina i piccoli nei vestiti da alpigiani, li osserva uno ad uno con la tenerezza con cui si osservano dei figli. Poi solleva piano la testa e adagia lo sguardo su Giacomo.
L’amico è bloccato in silenzio, l’aria depressa, il corpo atletico che pare svuotato. Da quando ha visto Umberto seduto in carrozzina, le tibie portate via da una granata, frutto della discesa fino all’ultimo fronte sul Piave, una nuvola grigia gli ha oscurato il volto.
Ma Umberto molte volte ha guardato in faccia ciò che non si può spiegare e nei momenti difficili sa essere forte. Chiude l’album sulle ginocchia, lo sistema sul tavolino. Manda un’occhiata attraverso i vetri e solo per qualche istante si isola nei propri pensieri. Quindi, dalla sedia a rotelle, tende sicuro le mani in avanti e manda a Giacomo un sorriso d’intesa. Nella stanza è sospeso un grande silenzio e l’intera città sembra ovattata.
La Nina si scosta, con discrezione scivola verso la finestra, dove la sua figura nervosa spicca sul flusso morbido della nevicata. Negli occhi azzurro ghiaccio ha un velo di commozione. Al centro del salotto i due uomini si scrutano senza parlare. Giunge da un'altra stanza il picchiettio di un orologio. Giacomo si passa la manica della giacca sul viso e sospira piano, due, tre volte, misurando un tempo nella testa. Poi lento si alza, abbandona la poltrona e timidamente si avvicina. Si porta accanto a Umberto, piega le ginocchia e la schiena.
Le braccia del tenente stringono l’amico.
Sostano lì, muti, accanto ai chiodi e alla corda da roccia, come avessero finalmente trovato un buon appiglio. A centinaia di chilometri, sotto il cielo del Cadore, i resti dei baraccamenti sulla forcella dell’Averau si coprono dei fiocchi che cadono copiosi. Fa molto freddo. Trincee e postazioni si sono riempite di neve e sopra i picchetti e i reticolati il vento ha modellato soffici ondulazioni.
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