La convivencia, l'umiltat e la mesura - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La convivencia, l'umiltat e la mesura

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Segnalato

La convivencia, l'umiltat, e la mesura

di Valter Ferrari - Tortona (AL)



“C’era una volpe che tutte le notti veniva giù e rubava le galline. Tredici in una notte ne aveva prese. Laggiù dietro le case c’era un frassino o un castagno, non ricordo.  Gli uomini hanno messo una gallina morta appesa ad un ramo. Appena la volpe si avvicinava, gli uomini gli avrebbero sparato. Ma quella volta non c’era neanche un fucile che sparasse. Allora provano la sera dopo e di nuovo la stessa cosa: i fucili non sparavano. Vai a sapere che cos’era. La domenica uno degli uomini va dal prete, dopo la messa, e gli racconta tutta la faccenda. Allora il parroco gli fa: Provate a mettere nella canna tre bocconi di pane e tre grani di sale. La sera hanno fatto così, si sono nascosti e appena quella è arrivata pum! Sì che sparavano i fucili! Sono corsi fuori, ma si sono accorti che non era morta, l’avevano solo ferita. Hanno seguito per un po’ le tracce di sangue, ma era buio, non si vedeva niente nel bosco, allora hanno detto: Domani la prendiamo, tanto non va lontano…

Quando Khalil trovò, in un anfratto impervio della montagna, la carcassa informe dell’ ultima pecora, uccisa dalla peste come le altre quattordici del suo misero gregge, capì che era arrivato  il momento di lasciare la  sua terra. Sedette all’ombra di una roccia, sul sentiero sabbioso dei carovanieri dalle parti di Azrou e, con le mani al cielo, pianse  all’infinito tutta  la sua disperazione. Poi, raccolse le povere cose in un sacco, cianfrusaglie, su  un carrettino stonato di lembi riccioluti di pelliccia e pentolini scuriti, ciondolanti dalle sponde come pendagli,  con vecchie lanterne ad olio e lo sciabordio lento  dei  ventri infiacchiti  dell’ acqua avanzata, sulla pista tormentata di sassi che andava verso casa.
Khalil guardò le sue montagne e la figura lontana del Jebel Toubkal, più di quattromila metri d’orgoglio in faccia  al deserto, dove la neve rimane per mesi e i ghiacci disgelano al rifiorir delle rose nei palmeti.
Era nato lì, quasi trent’anni prima, in un villaggio di terra e paglia  abitato da pastori nomadi e cammellieri berberi, una stretta valle di cedri, rossa di granito, tra le  catene dell’ Atlante. Quella maledetta peste aveva ucciso anche lui, sua moglie Jamila e i loro bambini.  
Quella di Chafrè è una rouhà di case sparse aggrappate ai valloni occitani.  Pietra grigia e tetti scuri sul limitare del bosco, castagni  e cembri, e muriccioli  a secco intagliati tra casa e casa. Da sotto, nell’immobile silenzio di un pomeriggio d’autunno, pare che le finestrelle siano tanti occhi che ti passano dentro. E ti senti osservato. Hai l’impercettibile sensazione che qualcuno, dalla spaccatura di una porta o dall’ombra  di un granaio, nell’abbandono composto  di questi luoghi, possa seguire il tuo cammino, orientare ogni  tuo passo, nell’incertezza di un sentiero nascosto o nel dubbio di un crocicchio  confuso nella macchia.  
Anche Khalil avrà provato la stessa favorevole impressione, portato dal destino lungo il corso del Grana, mentre decideva di salire le strade aspre d’occitania,  nell’attimo  di una scelta, quando sono i dettagli, le piccolezze – un semplice taglio di luce, uno sbuffo di vento, il cigolio improvviso di un uscio –  ad incidere la nostra vita, a far cambiare la nostra storia. Sarebbe stato più facile rimanere in città o nell’opulenza della pianura e forse un lavoro l’avrebbe anche trovato, magari a raccogliere pomodori nei campi, a scaricare mattoni in un cantiere oppure a respirare i veleni di un’asfaltatura. Si sarebbe accontentato di vivere in un basso, in un sottoscala rancido del centro, spartito con altri maghrebini, svelti di mano e di coltello, e, in tasca, avrebbe avuto, da subito, un cellulare alla moda  e soldi sporchi  nascosti negli slip.  
A Khalil il mare non era mai piaciuto. Quando il barcone, dopo giorni di traversata e di burrasca,  si era  arenato sugli scogli, era stato il primo a scappare verso terra e, disteso a faccia in giù sull’arenile, l’ aveva abbracciata stretta come avesse ritrovato sua madre. Il caso, solo il caso, l’ aveva fatto arrivare a Chafrè. La circostanza, quella combinazione  accidentale  di momenti che genera il principio delle cose, era stata, per lui, un camioncino d’arance e mandarini in viaggio verso nord. C’era salito di soppiatto, all’imbrunire sullo stretto, con la speranza di andare lontano, ma, appena due ore dopo, si era fermato in un borgo chiamato Guardia Piemontese. Khalil non sapeva che quello strano nome celava una storia secolare, quando gente montanara e valdese era arrivata fin qui, in pace, a popolare terre abbandonate ed incolte, portando con sé l’occitano e la parlata alpina, ora tinta d’inflessioni calabresi.  E quella gente era rimasta per sempre, davanti al mare, dove aveva scelto di vivere, con  la croce sul vessillo e  la musica antica dei trovatori a cantare l’amore, la generosità, la tolleranza, la convivencia, l’umiltat, la mesura e il senno.
Così Khalil iniziò a conoscere quegli uomini e ad ascoltare le loro parole. Gli raccontavano delle montagne  e delle loro valli, dei pascoli, dei casolari affastellati all’ombra delle quintane, vicoli angusti dove luci ed ombre scantonano capricciosi come fantasmi, degli inverni nevosi, dell’odore delle stalle, dei formaggiai, dei marghè, dei curiosi capellai di Elva, delle loro feste nei boschi.
Per uno come Khalil, pastore in disgrazia dell’Atlante, quelle voci erano sirene accattivanti, brillio di stelle nel buio della notte.
Arrivò a Chafrè che era quasi mezzogiorno, un sabato d’ottobre umido di nebbia e di muschio.  Non trovò anima per strada,  solo qualche gallina  a beccar meliga ed un insolito silenzio.
Eppure, nelle basse case di pietra grigia, sotto gli sgrondi dei tetti, attraverso le tendine a fiori raccolte con un nastro, pareva ci fosse vita, la luce cerea di un lampadario, il tonfo sordo di una porta, il fumo acre dai comignoli caliginosi.  E dalle stalle, lo scorrere nervoso di una catena o lo sfregare insistente di un corno sulla greppia.
Calandra, da una breccia del solaio, osserva attenta il forestiero. Mormora, tra sé e sé  : “ i ladri vengono, qui in alto, solo per rubar le bestie piccole, capretti ed agnellini, ma vengono di notte e non di giorno, e da noi i soldi, nelle case, non li puoi trovare, e non c’è nient’altro da portar via, perché nocciole e castagne   sono merce povera e la cacana della porcilaia nessuno la vuole.
Quello non deve essere un cristian, ha la faccia scura come un carbonaio, paure om!, quando torna Laurensin…”
Quella di Calandra è una delle prime case della rouhà, le altre si distinguono appena, tra le nuvole sfilacciate e il riflesso velato  di un misero sole.
Qualcuna è casa di vacanza, chiusa e sprangata come una fortezza; altre hanno cataste di legna a pezzi, sotto portici di pietra, e ognuna porta i nomi di chi ci abita, incisi su tavole dai colori vivaci appese alle pareti – cà ad Menì, cà ad Marieto, cà ad Cotèla -  e un drappo rosso con una croce gialla legato ad una grata, meridiane disegnate sui muri, un lavatoio, il forno per il pane.
Khalil ha attraversato il reticolo dei cunicoli e delle gradinate, arrampicato la comba fino in cima, superato l’ultimo bosco, fitto ed aggrovigliato di cespugli ingialliti, e scoperto una grangia  abbandonata da anni, dove le stagioni sono entrate, ad invaderne le stanze, a ricoprirne le pareti e gli intarsi delle travi, ad imputridirne  i pavimenti, a fiaccarne il tetto.
Laurensin trova Khalil seduto sull’abbeveratoio. Torna dalla casera dov’era andato, all’alba, a girare le forme di Castelmanh. Basta un’occhiata, un gesto, poche parole stentate e il ricordo delle genti occitane di Calabria per diventare amici.
Calandra sorride, mentre versa una minestra nel piatto di Khalil,  e dice: “ questa è la menestra degli uomini, quella buona di verdure e di patate,  e sulla stufa è pronta anche  quella di crusca e barbaboc per le bestie, ma certe volte viene più buona della nostra - sarà la luna, saranno le erbe del vallone - è  così Laurensin ne tiene un po’ per la nostra cena.   A Chafrè siamo rimasti in pochi, ci contiamo come i denti che mi sono rimasti in bocca, e ci sono sette bambini in tutte le frazioni, comprese le baite, e da due anni gli hanno chiuso anche la scuola. C’è un pulmino che li porta giù a Caraj.
“Se vuoi rimanere, devi sapere che qui la vita è dura, bisogna lavorare, lavorare sempre, cerca di capire, perchè i pelandroni non vivono in montagna…e se vuoi continuare a fare il pastore, come facevi al tuo paese, devi avere tanta pazienza, e prenderti le pecore o le chabre giuste, avere una stalla per l’inverno, e  ci vogliono dei soldi per incominciare. Poi, per uno giovane come te, se vuoi divertirti, c’è solo la televisione che si vede solo il secondo canale e quelle con la reclame, ma lì puoi metter l’occhio su certe damisele mezze spogliate che ti tolgono il fiato…” sussurra appena Laurensin, mentre sala un mezzo uovo sodo, folgorato dallo sguardo severo  di sua moglie.
A Khalil quelle parole sembrano le stesse di suo padre, ascoltate quando era ancora bambino e si preparava a vivere. E le cime, ruvide di roccia, di queste montagne occitane sono sorprendentemente simili a quelle del lontano Jebel.
Chiese  della grangia oltre il bosco.
Laurensin non rispose, si alzò da tavola ed uscì da casa in tutta fretta.  Calandra balbettò, in dialetto, un’incomprensibile litania, quasi una preghiera, e con un cenno largo delle mani, come volesse scacciare un maleficio, disse: “ la casa della vourp, lassù, non la vuole più nessuno, saranno duecento anni, anche di più, che è lì abbandonata, che anche i lupi si tengono alla larga e i cacciatori cambiano sentiero… Se la vuoi prendila, fa già troppo freddo di notte per stare in giro, caro Ramadan, e infila nel tuo sacco queste coperte e addosso due maglioni pesanti e ricordati di fare un fuoco, nella grangia, di legno di ginepro e fiori secchi di  lavanda, perchè scalda il cuore e ti porterà fortuna.”
“Ma ce l’hai una moglie, Ramadan ?” insistette Calandra, con la sua voce carezzevole come il canto delle allodole, “ io sono troppo vecchia, ma tu sei un bel jovenot, non come quel ferro arrugginito di Laurensin”.
Khalil abitò la grangia dopo il bosco, l’ultima casa della rouhà,  e cominciò ad andare con Marieto, Cotèla e Menì a raccogliere castagne, imparò ad intrecciare listelle per le gerle, ad ascoltare le storie delle masche, streghe  amiche del diavolo che si trasformano in animali, o quelle dei sarvanòt, folletti dispettosi, che scambiano  il sale con lo zucchero, che gettano per terra la biancheria stesa, nascosti di giorno nelle grotte e in giro di notte  con le lucerne in mano.
Laurensin gli regalò una coppia di caprette per Natale.
Nell’escola, chiusa da due anni, all’ombra della canonica dove, ancora oggi, i paramenti sacri come una leggera cotta o un piviale solenne prendono aria appesi ad una cordicella tesa sul sagrato,  si insegnava la lingua dei montanari, il provenzale, la loro storia, di come si lavorava il legno e si studiava musica.
Khalil ha imparato una canzone che si canta tutti insieme, una specie di inno, e tutte le volte si commuove, piange malinconico e pensa a Jamila e ai suoi bambini.  
“Davanti alla mia finestra c’è un uccellino, canta tutta la notte, canta la sua canzone. Se canta, che canti! Non canta per me, canta per la mia donna, che è lontana. Quelle montagne così alte non mi lasciano vedere  dove sono i miei amori…Abbassatevi montagne, pianure alzatevi! Perché possa vedere dove sono i miei amori…” (*)
A primavera sarà di una dozzina il gregge di Khalil e farà latte e khefir da vendere ai mercati.
“Dicono che per riaprire l’escola ci vogliono dieci mainaa”, chioccia Calandra con una vicina, mentre scioglie matasse all’arcolaio.
“Ma come li facciamo, noi vecchi, tre bambini… neanche col pensiero. Laurensin pensa, adesso, alle gambe delle ballerine e quando doveva fare, eravamo giovani anche noi, andava agli alpeggi, a fare legna, a piantar patate e tutte le volte aveva la scusa buona. Così, figli niente, nipoti neanche e scuolina chiusa.”
La grangia di Khalil ha il tetto nuovo, una solida porta di quercia e un forno dove cuocere il pane. Nella notte di San Giovanni, Calandra e Laurensin hanno acceso, davanti alla grangia di Khalil, un gran falò che chiamano solestrel, di sole e di stelle, perché sia il più luminoso e, alla festa, Menì ha suonato la ghironda ed un organetto e tutti insieme cantato l’inno d’occitania:
Devant de ma fenestra i a un aucelon
Tota la nuech chanta chanta sa chanson…(*)  
Khalil quella volta ha pianto di gioia, stringendo sua moglie e i loro quattro bambini. Quando verrà ottobre, tre di loro faranno riaprire l’escola di Coumboscuro. L’ ultima sta crescendo nel ventre di Jamila e nascerà in primavera, come gli agnellini.  

… Il giorno dopo, gli uomini sono partiti dietro la traccia nel bosco, ma il sangue poi andava verso una grangia, in alto, fino davanti alla porta. Hanno trovato due persone a lutto, dei parenti. Hanno chiesto e gli hanno detto che la vecchia che abitava quella grangia era morta quella notte. Non era mica morta così, l’avevano ammazzata coi fucili. Era lei la volpe!”
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