La cima della guida - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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La cima della guida

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XVI(I EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2013
Segnalato

La Cima della Guida

di Antonio Sisana - Sondrio



Ottavio amava passare le ore insonni della notte svolgendo varie attività: lettura, preghiera, ascolto di musica classica alla radio e poco altro. Nella vecchiaia aveva ritrovato pace e serenità, temperato una vita attiva, pesante, vissuta di petto, tra privazioni e svolte del destino. Viveva da sempre in un piccolo borgo di montagna, abitato da poco più di duecento anime, circondato da altissime vette, mete di innumerevoli alpinisti. Se ne era allontanato solo poche volte: durante la seconda guerra mondiale, chiamato nell’esercito, due settimane a San Remo da un vecchio commilitone per il viaggio di nozze, e a Roma, alcuni giorni, per ricevere un riconoscimento dal Presidente della Repubblica. Tutto il resto del tempo l’aveva passato tra i suoi monti, lavorando la terra ed allevando alcuni animali. Aveva salutato molti suoi coetanei partiti in cerca di fortuna in terre lontane e mai più tornati, se non per fugaci visite ai parenti o per vendere la casa natia. Aveva salutato figli e nipoti stanchi della lenta e povera vita di montagna, fuggiti in cerca di cultura e lavoro in città. Infine anche la moglie se n’era andata, accolta dal Signore dopo una lunga e incurabile malattia.
Alloggiava in un’antica casa in centro, le finestre si aprivano sulla via principale, un susseguirsi di vecchi porfidi posati da alcuni uomini quando Ottavio era ancora bambino. Nel paesino abitavano parecchi anziani; ma vi era stato il ritorno di alcuni giovani amanti della montagna, desiderosi di una vita dai ritmi più lenti; e qualche turista caduto nella rete di alcune agenzie immobiliari capaci di prendere diverse dimore e trasformarle in lussuose villette.
Ottavio pensava a tutto questo mentre la luna piena aveva cominciato ad illuminare l’ennesima notte d’inverno scivolando, tra l’altro, entro l’antica casa di lui. L’orologio a pendolo, vecchio ricordo di Franco, amico da sempre e ingegnoso falegname del paese, segnava qualche minuto oltre la mezzanotte. Vi era silenzio, poca luce, mentre il vecchio assaporava l’ultimo libro di Rigoni Stern, compagno di guerra, compagno di Russia. Fuori alcuni rumori richiamarono la sua attenzione: sbattere di ferraglie e di portiere. Lentamente Ottavio si recò alla finestra e vide sotto, nella via, il giovane Alberto caricare alcuni oggetti sulla jeep: corda, piccozza, moschettoni, sci, zaino e ramponi. Alberto era il terzo ed ultimo figlio di Gioacchino, secondo cugino di Ottavio e forse la più abile guida alpina della zona. Alberto seguiva le orme del padre, era giovane, forte, caparbio e in lui ancora batteva l’ardore e il sano richiamo della Montagna. Ottavio spesso si era fermato a parlare con lui, notava come il giovane amasse ascoltare gli uomini più vecchi, chiedere consigli, proporre nuove idee, ma poi sapeva comunque trarre le sue conclusioni ed intraprendere ciò che sentiva dentro. Proprio mentre stava per salire in auto, Alberto buttò fugacemente lo sguardo alla finestra con la luce accesa della sala di Ottavio, e trovandovi il vecchio lo salutò con un semplice gesto della mano portata al capo. Il vecchio ricambiò, e per un attimo i loro sguardi si incrociarono profondi: Ottavio avvertì un brivido lungo la schiena.
Una volta persa di vista la jeep, lanciata verso l’alta montagna, Ottavio aprì i battenti della finestra. Dalla vetta, verso la “Cima della Guida”, scendeva un’aria flebile, quasi temperata, umida. Il vecchio ne annusò l’indole carpendone una strana atmosfera:
“E’ troppo sensuale, è troppo umida e calda. La montagna chiama e questo richiamo è ammaliante. Non mi piace, non mi piace” pensò, richiudendo i battenti. Cercò di tornare sulle pagine del libro, ma pessimi ricami della mente lo allontanavano dalla lettura, perciò decise di provare a coricarsi. Dopo diversi minuti il sonno riuscì ad avere sopravvento sui pensieri e una serie di sogni pesanti e veloci lo accompagnarono per alcune ore. Fuori la luna splendeva immensa nel cielo limpido da nuvole, e la sua luce rifletteva sul candido manto di neve che copriva ogni luogo. Il bianco perlato avvolgeva ogni oggetto, creava un’atmosfera fantastica, accompagnava suoni e rumori ovattati. Tutto era sinuoso, ogni spigolo o angolo del paesaggio smussato ed arrotondato dalla neve; forme lavorate dai vento, un mantello capace di velare tutto e nulla.
Ottavio si svegliò all’improvviso; richiamato alla veglia da un rumore sordo e lontano, un boato, un urlo, un grido. Si alzò di scatto portandosi a fatica in salotto; verso la finestra. L’orologio segnava le quattro e quaranta, la luce della luna ancora alta e ammaliante. Decise di riaprire i battenti e nuova aria lo accarezzò bruscamente: “E’ aria fredda, frizzante, cattiva Viene dalla “Cima della Guida”, profuma di metallo, ha il sapore del sangue, non mi piace” pensò. Guardò verso la montagna e, poi, lungo la via tra le vecchie case. Per la strada silenzio, ma un silenzio che strideva. Il cuore in subbuglio, non avvertiva più sonno, una serie di brividi attraversavano dalla testa ai piedi il suo magro ed esile corpo. Chiuse la finestra e si sedette sulla poltrona riprendendo a leggere un vecchio libro di preghiere che apparteneva alla moglie. Spesso, quando pensieri è problemi lo assillavano, quando il battere dell’inquietudine e della solitudine lo assalivano, recuperava il vecchio breviario della moglie, dono del parroco per il loro matrimonio, e leggendo tra le righe ritrovava serenità. Ritornava a vivere le serate in compagnia di lei, quando seguiva le sue lodi, seduti davanti al fuoco che scoppiettava e riscaldava i loro corpi, come le preghiere la loro anima. Sempre nella stessa baita, nello stesso paesino, riparati dalle stesse montagne. Anche ora non si sentiva solo leggendo il breviario allo stesso ritmo allora.
Il campanile della piccola chiesa suonò le sei e trenta e la chiamata per la messa delle sette risvegliando Ottavio, ancora seduto con il breviario in mano e la luce della lampada accesa. L’alba stava arrivando e il vecchio ritornò ai suoi pensieri. Decise di cambiarsi, indossare l’abito da festa, più consono per andare a messa nella piccola e fredda chiesetta. Scese le scale e uscì sulla via, risalendo lentamente lungo la strada verso la casa del Signore. Passando davanti alla dimora di Alberto osservò che la jeep non era parcheggiata al solito posto, quindi il giovane non era ancora tornato dalla montagna, è questo non lo rendeva tranquillo. Arrivato alla chiesa entrò in silenzio ritrovando le solite quattro vecchiette, uniche avventrici nei giorni feriali, e Francesco, nipote e chierichetto del prete che, tutte le mattine, prima mungeva le poche mucche del padre, poi serviva messa ed infine si recava nel paese più sotto à scuola.
All’uscita, dopo la funzione religiosa, salutate le donne e il ragazzino, Ottavio aspettò il parroco e con lui si diresse all’umile e vecchia osteria ora bar ristoro. Vi trovarono Camilla, la non più giovane, ma sempre avvenente barista, ultima figlia del primo e non ricambiato amore di Ottavio, la bella Loretta.
“Buon giorno signor Parroco e Signor Ottavio, vi preparo il solito?” chiese con gentilezza Camilla mostrando occhi stanchi e gonfi forse per il poco sonno, il bar chiudeva spesso tardi la sera.
“Certo signorina Camilla, per me un buon cappuccio e per l’Ottavio un caffè lungo macchiato freddo” rispose il parroco.
Nel locale vi erano anche altri clienti: Simone, l’idraulico, Paolo, suo fratello e collega Pietro, allevatore e contadino appena arrivato dalla stalla, il dottor Pagheri, pensionato milanese, da anni trapiantato nel borgo ed amante frequentatore dei luoghi d’incontro, ed infine l’immancabile Savino, spasimante mai ricambiato da Camilla, capace di passare intere giornate al bar d’inverno quando il lavoro di muratore era fermo a causa del freddo.
“Mi sembrate irrequieto e strano stamane signor Ottavio” chiese ad alta voce il parroco.
“Non so come spiegarvi, padre, ma da questa notte ho strani sentori. Non avvertite anche voi che aria strana tira giù dalla montagna?” rispose ad alta voce rivolgendosi a tutti Ottavio.
“Le la solita aria fredda che arriva, signor Ottavio” rispose Simone.
“Forse oggi è i
un po’ più fredda, rispetto a ieri, il termometro fuori di casa misura due gradi in meno” s’intromise il dottor Pagheri mostrando interesse.
“Macché due gradi in meno, dottore, non parlo di temperatura. E’ normale è stata notte di ciel sereno, non nuvolosa come quella prima. Parlo di odore, di sapore, di atmosfera!” riprese Ottavio.
“Adesso l’aria profuma e ha un sapore!” s’intromise Savino scoppiando a ridere e risvegliandosi dal torpore mattutino.
“Fai silenzio Savino, cosa vuoi saperne tu che altro, non fai che fumare e leggere la Gazzetta dello Sport” disse decisa Camilla
“Certo che non è comune pensare ad odore e sapore parlando di aria, al massimo possiamo dire che sia più fredda o umida, calda o che proviene da nord o da sud. Non è vero?” riprese il dottor Pagheri.
“Non si tratta di dati scientifici, caro dottore. Deve sapere che la natura parla e racconta. La montagna occorre saperla ascoltare” riprese Ottavio.
“Vede don Paolo, abbiamo con noi un altro San Francesco” riprese Savino con tono di burla. .
“Taci Savino qualche volta, ti farebbe bene!” disse Camilla portando cappuccino e caffè al parroco ed a Ottavio.
“Ci vorrebbe qui Alberto, lui potrebbe comprenderla e sostenerla nella sua tesi. Io  vi saluto il lavoro mi chiama” Simone pagando il conto a Camilla ed uscendo accompagnato dal fratello.
“Si, ci vorrebbe Alberto, strano che non sia qui a far colazione, di solito quando non è via per lavoro viene sempre verso le sette e trenta” riprese Camilla.
Ottavio ricordò il giovane e la nottata passata. “L’ho visto partire questa notte, attorno alla mezzanotte e trenta, con la jeep verso l’attacco della “Via della Guida”. Aveva caricato sci e ramponi, ma non credo sia tornato e questo un poco mi preoccupa”.
“Si, ora ricordo, l’altra sera mi aveva detto che se fosse stata notte serena di luna piena voleva salire in notturna la “Via della Guida” per poi godersi all’alba una bella sciata scendendo dal costone delle marmotte. Credo si sia goduto una bella neve friabile” riprese Camilla.
“Trovo strano che non sia ancora tornato” preoccupato Ottavio.
“Si sarà perso ad osservare qualche animale o a contemplare il sorgere del sole. Lo sapete che è un sognatore quel uomo” riprese Savino.
“Ti farebbe bene anche a te passare qualche tempo nella natura a contemplare invece che starmi sempre attorno dalla mattina alla sera” attaccò di nuovo Savino la barista.
“Vabbè, cercate di non litigare come sempre. E’ bene che vada a portare la comunione alle mie vecchiette. Quanto le devo signorina Camilla?” chiese il Parroco
andando verso la cassa.
“Devo sempre ripeterle, don Paolo, come tutti i giorni, che non mi deve nulla, al massimo dica qualche preghiera per me, sa che ne ho bisogno” rispose Camilla.
“Preferirei vederla di più in chiesa, comunque la ringrazio e mi ricorderò come sempre nelle mie preghiere” disse andandosene il Parroco.
“Sarà dura che vedrà la Camilla a messa, povero Parroco, parole spese per nulla” rise di nuovo Savino.
“Va al diavolo, Savino, ora posso dirtelo visto che il don se ne è andato, vedi di andare a quel paese e di farlo in fretta” riprese lei. “Suvvia, fate i bravi. Eccole i soldi, Camilla, vi saluto, torno a casa a vedere se
Alberto è tornato” disse Ottavio uscendo dal bar.
“Stia tranquillo Alberto sa badare alla sua vita, non è come te Savino” ribatté: Camilla salutando il vecchio.
Uscendo Ottavio diede uno sguardo giù lungo la via, ma non vide la jeep di Alberto. Allora guardò verso la cima della montagna e annusò di nuovo l’aria: era silenziosa; muta, inodore, dava un senso di pace, di troppa pace. S’incamminò verso casa, ansia e paura albergavano nel suo cuore.
Verso le undici e trenta decise di recarsi nel piccolo negozio di generi alimentari che ancora resisteva nel paese, gestito da alcuni suoi nipoti. Scese di nuovo sulla via e uscendo sentì il viso schiaffeggiato da un’aria tagliente, schietta, agitata che come sempre proveniva da nord. Lo sguardo su verso la strada, la jeep di Alberto non c’era ancora, al suo posto quella di Claudio, il fratello maggiore e capo del soccorso alpino del paese più a valle. Mettendosi il cappello si avviò verso il negozio svoltando subito a destra per un piccolo vicolo Li la strada tornava ad essere sterrata, ai bordi antiche dimore in sassi non più restaurate portavano ancora vecchi dipinti e residui di voti e devozioni. Una moderna fontana aveva sostituito la vecchia costruita a suo tempo da Bepi, suo suocero, proprio davanti alla baita che gli  apparteneva, ora lasciata in disuso dai nipoti. Ogni volta che passava, Ottavio si fermava: dalla soglia della dimora osservava lontano la “Cima della Guida”, proprio li aveva chiesto a Bepi la mano della figlia. Si fermò anche questa volta ed osservando in alto vide l’elicottero del soccorso muoversi dalla cima e volteggiare lontano verso valle. Riprese lentamente il cammino giungendo alla piccola bottega ricavata da un antico fienile. Entrando sentì uno strano vociferare: Milena, la moglie del proprietario, stava parlando con la signora Rosa, la perpetua del parroco.
“Dicono che sia stato sommerso da una valanga verso le cinque del mattino mentre aveva iniziato a scendere con gli sci. E’ successo appena sotto la “Cima della Guida” e mio marito, che ha partecipato al soccorso, dice che è strano che una valanga si stacchi proprio da lì. Comunque a trovarlo è stato proprio suo fratello Claudio. Alberto era sotto mezzo metro di neve, ma esanime, forse è stato soffocato dalla neve oppure è morto per il colpo”.
“Sono appena arrivati alcuni parenti, la sorella è stata dal parroco e stavano pensando di seppellirlo nella tomba dello zio Valente, qui al cimitero del paese, in modo che riposi tra le baite che conosceva e sotto quella maledetta cima che lui tanto amava. Certo che è una tragedia” proseguì la perpetua.
Ottavio si fermò sulla porta, un brivido freddo attraversò tutto il suo corpo. Pensò a Valente, un uomo di un decennio più giovane di lui che assomigliava molto ad Alberto, suo nipote. Con Valente aveva passato pregnanti momenti tra i boschi e le vette della zona, aveva imparato ad ascoltare i rumori e le voci della natura. Lo zio di Alberto, pochi giorni prima di morire, aveva voluto raggiungere una radura da dove si poteva scorgere bene la “Cima della Guida”, sopra, ed il borgo, sotto.
“Guarda che meraviglia, Ottavio, su in alto la “Cima della Guida” sembra toccare il cielo, un cielo azzurro e limpido. E sotto il nostro paese che si sta spopolando. E’ un peccato vedere le baite degradare e cadere sotto l’incuria del tempo e i giovani andarsene verso valle, in città. Fra un po’ nessuno più saprà ascoltare la voce del bosco, leggere nel vento i messaggi che ci manda la “Cima della Guida”, scorgere e capire quando sfidarla e quando contemplarla. E’ un grosso peccato, perché così ci allontaniamo da ciò che siamo, dalla vita, dalla felicità e dalla gioia”.
Con loro c’era Alberto, e pochi giorni dopo, alla morte dello zio Valente, si erano rincontrati. Il ragazzino era sconvolto, amava molto lo zio, e si rendeva conto che non aveva saputo cogliere tutto l’insegnamento che racchiudeva nel proprio cuore.
Ottavio tornò verso casa, non aveva più voglia di mangiare né di parlare con la gente. Il suo cuore era distrutto: aveva perso un amico e soprattutto una delle poche persone nel cui cuore batteva ancora l’amore profondo per la montagna, per il loro antico borgo, e in cui la semplicità d’animo sapeva ancora vivere. Mentre percorreva la via principale le campane della piccola chiesa iniziarono a suonare a morto. Si fermò un attimo, l’aria era ferma, nemmeno un alito di vento muoveva. Ottavio comprese che la montagna non aveva più nulla da dire, forse aveva commesso un errore.
“E proprio vero, spesso la montagna si prende le persone più belle” pensò fra se aprendo l’uscio della sua dimora.
“E pensare che io sono qui vecchio e stanco, mentre Alberto era giovane e pieno di vita. D’altronde la vita...” borbottò chiudendo la porta. Del resto, Ottavio, era stato temprato dalla lunga esistenza e certe domande ancora se le faceva, ma era consapevole che il mistero della vita non dava mai risposte logiche. Offriva solo esperienze da digerire. A volte con molta difficoltà.
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