Itaca - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Segnalato

Itaca

di Paolo Pergolari - Perugia



Il vecchio e il cane salivano lentamente per le terrazze, poi per altre scale. Lontano, nello scorcio di montagna, s’alzava, tra fiamme rosa, il mosaico della sera. Entrarono nei vicoli. Ancora quattro passi, e anche la piazza era percorsa. Non c’era anima viva. Sui sedili di pietra, qualche foglia d’ulivo accartocciata. Sulla lastra della fontana si appoggiava una mano callosa ed erosa dal tempo e dal lavoro, e l’altra mano formava un laghetto d’acqua che usciva da un coppo. “Che pace qua attorno...”
Questo mi venne da pensare seguendo il vecchio ed il cane che, di certo, se ne ritornavano a casa per la cena.
Proprio questo pensai là, in quell’angolo di mondo dove il tempo sembrava fermarsi. Sembrava fermarsi all’ingresso della porta principale, prima di un arco di pietra che chissà quali gesta aveva visto nascere e morire. E con il tempo si fermavano anche le mie tristezze e tutte le possibili insonnie, sicché non c’è una volta che entrando lì, nel paesino, non mi prenda la voglia di tornarci. Ma non in vacanza, per sempre, farmi casa. Non una di quelle nuove piene di cemento, ma di pietra come tutte le altre case, con il prato curato che sembra finto e con i gerani nelle ciotole, quelli parigini, che scendono giù come chiome di capelli.
I miei nonni erano nati proprio lì e, d’estate, mi ospitavano per mesi, e io non ero più un ragazzino per bene, diventavo un diavolaccio, come quelli della via Paal, sicché “Sorriso” si spolmonava a rincorrermi ma io scappavo insieme agli altri compagni, e facevamo storiche battaglie tra i filari delle viti e tra gli ulivi, e poi sui ciliegi e su quelle odorose piante di fico, il fico selvatico, che nasceva dappertutto, anche sui coppi vecchi del campanile di Don Mariano... E alla fine noi, ragazzacci, finivamo per fare il bagno nei fossi, fossi d’irrigazione freschi d’acqua limpida, fossi che partivano dall’alto, dalle colline e poi scendevano lungo le strade rurali e arrivavano fino alla circonvallazione, giù fino ai lavatoi frequentati dalle massaie per il bucato, e io ero pure quello che passavo a mia nonna Nella le lenzuola bagnate già strizzate, e le arrivavo al seno, e lei rideva e ne approfittava per prendermi in giro, mi strofinava i seni sulla faccia e con quei seni enormi mi oscurava il mondo, erano odorosi di lavanda, e quando me ne andavo a dormire, quando intorno c’era silenzio, in cortile le lenzuola sbattevano come se chiacchierassero tra loro, e il cortile era pieno di chiacchiere di mussolina. E poi, il giorno dopo, il vigile urbano giù a rincorrerci di nuovo. Non ho mai saputo il suo nome, lo chiamavamo “Sorriso” perché era sempre serio e compassato, solo se riusciva ad acciuffare qualcuno per un orecchio se la rideva soddisfatto... E così fino all’inizio della scuola, fino all’inizio dell’autunno e del freddo.
Mio nonno Giacomino... Lui, alla montagna gli voleva bene per davvero. Non c’andava nemmeno a scuola per scappare a tirar sassi con la mazzafionda, su per le coste. E il vecchio maestro era salito fino al borgo per dire quanto fosse mascalzone quel figliolo benedetto che si presentava in classe un giorno si e due no. E suo padre s’era spaventato, lì per lì chissà cosa aveva pensato, e poi s’era rimesso a posto lo spago che gli teneva i pantaloni e aveva detto che lui non sapeva fare nemmeno la firma e suo figlio, invece, era capace di dire ai parenti se fosse morto qualcuno, e quanto ai numeri sapeva ciò che bastava per contare le pecore, perché una cifra di più, suo figlio, non l’avrebbe mai avuta in soldi...
E poi nonno Giacomino m’aveva raccontato che suo padre l’avrebbe messo volentieri a servizio di qualcuno in città, magari per imparare un mestiere al momento giusto. Ma Giacomino dovette ringraziare la madre se almeno per un altro anno la scampò bella di andare a padrone, perché la madre ragionò che senz’altro poteva essere meglio servire nostro Signore anziché un buzzurro arricchito, e fece tanto per farlo entrare nel seminario. Però avevano ben poco da offrire anche per là e del seminario non si parlò più.
E Giacomino si ritrovò a fare le solite cose di quando non andava a scuola: tagliava la legna, portava il pastone ai due maiali, tirava l’acqua dal pozzo per l’abbeveratoio e, soprattutto, andava al pascolo, faceva quelle passeggiate insieme alle bestie. Mio nonno m’aveva detto che pascolare gli piaceva, a differenza degli altri ragazzacci che pativano a stare tra vento, acqua, erba e cielo. Loro pensavano alle domeniche e alle feste, e alle stalle delle vacche dove giocavano a carte coi bottoni e le figurine per posta e invece lui, Giacomino, da quando saliva a quando sentiva il vespro dal campanile stava sempre là, perché gli sembrava di essere come un selvaggio, come gli indiani che aveva visto in città, l’unica volta che compare Michelino l’aveva portato al cinema per la prima Comunione. Sicché lui, Giacomino, girava gli occhi tutt’intorno, guardava su sfiorando cime e creste e, di ritorno, chiudeva il cerchio con la punta del campanile del paese, e poi via via per tutta la vallata, a capofitto tra gli oliveti, giù in quella conca chiusa e pietrosa fin verso il cimitero. Con gli occhi riusciva ad arrivare al l’azzurrochiaro, fin dove per la lontananza le ultime linee si perdevano e si confondevano tra le nubi bianche, e non erano che nuvolette d’incenso in chiesa.
Giacomino m’aveva confessato che s’immalinconiva a pensare che per andare ad opera avrebbe dovuto lasciare tutti quei posti. Quei posti che ammirava ogni giorno senza che gli fossero venuti a stufo e che se chiudeva gli occhi e puntava il dito e poi li riapriva quegli occhi, be’, Giacomino conosceva a memoria quei posti al punto che il dito riusciva a puntarlo sempre dove voleva lui per gioco, così sul campanile, sul picco di fronte o, sul podere di Mimmo, e sulla vecchia torre.
Anzi, mio nonno non soffriva in quella solitudine del pascolo, perché si metteva ad ascoltare il silenzio e nel silenzio indovinava il tordo, l’allodola e la presenza della cornacchia, e sentiva l’uggiolo del cane del podere, legato alla catena tutti i santi giorni dell’anno.
E poi Giacomino si stendeva supino con le mani sotto la testa e un filo d’erba in bocca e così disteso si faceva succedere nella testa tutto quello che voleva, e lui era un’aquila e volava alta come la sua fantasia, arrivava a casa a spiare i suoi e poi i suoi compagni a scuola, e si trasformava in un lupo possente e prendeva in prestito la furbizia della volpe e la corsa della lepre, così, sempre, fino a quando sentiva il vespro dal campanile. Ma un giorno gli successe veramente qualcosa di diverso. Per il sentiero vide spuntar fuori quattro ragazzette che lui conosceva appena e che, certo, andava no per funghi. Giacomino si appiattì istintivamente a terra per non farsi vedere, ma quelle venivano su, dritto per il suo prato e fu costretto ad alzarsi.
“Tu sei il ragazzo dell’Attilia” gli fece una di quelle.
“Sì, sono proprio io” le rispose Giacomino con la voce che gli tremava.
“Tu sei pratico di questi posti, dov’è che possiamo trovare i ‘prataroli’?”
Giacomino disse di alcune colline, su, per le coste e indicò la strada ma le ragazze non si muovevano e Giacomino non riusciva a sopportare il loro sguardo, ogni tanto si girava indietro come se dovesse controllare le sue bestie, però quelle non si muovevano, ruminavano e basta, allora il ragazzo perse la testa e se la dette a gambe senza nessuna ragione, corse per il prato fin oltre le bestie e poi fino al bosco, inseguito dalle risate di quelle ragazze. E dopo, solo quando scomparvero, Giacomino uscì fuori dal bosco dove s’era rintanato.
Giacomino mi confessò che si sentiva sì, umiliato, però gli era capitato qualcosa di strano, perché tra le ragazze ne aveva notata una che gli sembrava diversa. Nemmeno mio nonno sapeva spiegarsi perché. Gli succedeva e basta.
Fatto sta che Giacomino cominciò a pensarla quella ragazzetta. Non è che lui lo volesse, ma era lei a presentarsi al posto dell’aquila e del lupo, ma questa novità non gli dava fastidio, anzi, gli faceva più diversa e curiosa la vita. Una vita che Giacomino unì insieme a quella ragazzetta di nome Nella. Mia nonna Nella che più tardi Giacomino teneva sul comò della camera da letto. E mia nonna Nella stava là, tutta seria in una fotografia ingiallita dal tempo. Ed il ricordo mi si confondeva con quell’immagine di donnetta dai capelli chiari e con due piccole fosse sulle guance che immaginavo sempre arrossate dal vento, e poi si notava un corpicino magrolino e appena lo scorcio di due gambette esili sotto quelle pesanti calze di lana, di certo non mangiava più di quello che mangiava lui, mio nonno Giacomino…
Così non c’è una volta che, entrando in quel paesino, io non entri in una cartolina sbiadita, dai sapori confusi ma intensi, e guardo verso le persiane della casa malandata in fondo al vicolo, guardo con la speranza di ritrovare un periodo di armonica spensieratezza, come se da quelle persiane chiuse possa sentire ancora qualcosa come... La luna rossa me parla ‘e te, io le domanne se aspietta a me... Perché lì, in quella casa, una volta ci abitava Otello.
Otello… che, da quando gli era morta la moglie, era afflitto da pensieri di rumorosa solitudine. E spinto da questi pensieri a ottantanni aveva preso la corriera e in città aveva comprato una radio, i risparmi di una vita li aveva spesi per quello sfizio che gli era venuto all’improvviso, e da quel momento non fu più visto in giro, le persiane sempre serrate. Perché Otello, in cucina, metteva al centro del tavolo quell’aggeggio con i bottoni che giravano e i numeri in fila e se ne stava così, con i gomiti sul marmo e la testa tra le mani, ascoltava con gli occhi chiusi quelle melodiche canzonette del dopoguerra, e con gli occhi chiusi vedeva applausi, vestiti scintillanti, rose gettate sul palco, biondi boccoli sulle spalle, e viveva in una vita diversa, una vita in cui era acclamato e ammirato, e Otello mandava baci a donne sconosciute nella sua cucina, riempiva gli spazi di quella povera stanza con il suo canto e con sorrisi tremendi come quelli stampati sulle riviste. E Otello si era ritrovata a chiedere allo specchio... Maramao, perché sei morto?... E con le braccia in aria volteggiava insieme al pinguino innamorato, ed aveva imparato a passarsi la brillantina sui capelli, gli piaceva vedersi così, con i capelli che gli sfuggivano rigidi all’indietro, anche se arrossiva a farsi vedere, anche se arrossiva davanti allo specchio, perché si vergognava di quel secondo Otello. E quando arrivò la prima canzonetta dall’America fu preso dall’esaltazione e con quell’agitazione dentro uscì sul vicolo, arrivò fino alla piazzetta del Grano e sopra una sedia barcollante attaccò... On li iuuuu, chen mec ov dis uor sim rait!... E proseguiva, proseguiva con gli occhi chiusi a cantare il suo inglese davanti al microfono della mano chiusa a pugno, e Assuntina alzava gli occhi dall’uncinetto e diceva... Come canta bene... e, alla fine, Otello apriva lentamente gli occhi e vedeva una piccola folla riunita sotto di lui, e c’era “Tillio”, l’oste, che per “coglionarlo” gli infilava una rosellina tra i capelli e allora Otello spalancava la bocca e felice lanciava... Mamma son tanto felice, perché ritorno da te... E così concedeva il bis, tanto che ormai era un’abitudine, e ogni giorno il vicolo e la piazzetta del Grano si animavano perché lui, Otello, saliva sulla sedia e il panettiere fischiettava, Egidio lo stagnino sollevava il berretto perplesso e si dava una grattatina in testa, Amalia confezionava cesti di vimini, i ragazzini si rincorrevano schiamazzando proprio come ragazzini e Don Mariano, che amava tener prediche, si lamentava di stare attente “pecorelle mie” perché la musica l’ha inventata il diavolo per interessi di bottega... Ma su tutti Otello guardava il cielo in piedi sulla sua sedia e al cielo sussurrava... Va’, serenata celeste, celeste come gli occhi di una donna... E così cantava, si annullava nel canto, spariva tra il vento stesso delle sue parole e poi rimaneva immobile e viveva attimi di passione e di melodia, e una lacrima gli rigava il volto tagliuzzato dal tempo e poi sulla sedia s’inchinava profondamente da ogni lato, s’inchinava in qualche grande salone e lanciava baci agli angoli della piazza... Perché ogni canto era una verità, perché Otello non cantava una canzone ma parlava dei desideri di quei cristiani là davanti, delle loro passioni, della magia di un sogno diverso, così che Otello parlava di storie raccontate per loro stessi, cantava canzoni per ognuno di loro, finché Otello, stanco, comprese l’inutilità del suo canto, un canto che non trasmetteva vera felicità, ma inquietudine e allora decise di smettere gli spettacoli della piazzetta del Grano. Un pomeriggio quando tutti l’aspettavano, come sempre, Otello aprì la finestra e tirò sopra le loro teste non melodiose parole ma l’acre contenuto del suo orinale e lui stesso, da quella volta, tornò muto e, con il tempo, nessuno più parlò di quel periodo di armonica spensieratezza, anche se a volte dalle persiane chiuse tornarono a sentirsi biascicare parole incomprensibili, qualcosa come... La luna rossa me parla ‘e te...Sì, mi piacerebbe una casa come quelle di una volta, sulla strada dritta che in fondo in fondo porta chissà dove, e poi sotto lo spiovente del tetto un balconcino che scompare tra i vasi di fucsia e davanti, magari, una striscia di terra, un giardinetto, poca cosa dietro una staccionata, un praticello da annaffiare la sera con il tubo, poche piante, ortensie, vite del Canada sul muro e uno di quei cespugli che a primavera si accendono di giallo intenso in mezzo a colori ancora invernali. E poi, seduto, guardare niente, solo davanti.
Niente più. Oppure un gatto per compagnia, grigio o nero non ha importanza, e rivolgere la parola al gatto e poi vedere le cose in maniera del tutto diversa, più pacata, in maniera accattivante, quando ci si prende in giro da soli, ormai si basta a se stessi. La presenza della gente comincia a dare fastidio, si capisce che è naturale, che alla fine si deve parlare da soli con se stessi, che quel secondo io diventerà solo lui il nostro pungolo, il compagno più caro e più simpatico, quando si siede accanto al focolare e si pensa che siano le dieci di sera e invece sono appena le sei e mezza, e di nuovo ci si rivolgerà la parola, per consigliarsi o per interrogarsi, per porsi delle domande volendo scoprire di sé le cose più nascoste, e così amare il paesaggio in quelle ore e quei giorni e quel le settimane, quando piove e quando tira vento, e così sentire ancora lo scricchiolio delle ruote del carretto sul terriccio polveroso, e il tonfo degli zoccoli mal ferrati dell’instancabile Caruso, placido mulo senza sguardo, riecheggiare per la strada principale. E vivere la vita anche attraverso i ricordi. Perché i ricordi sono cori di voci soffuse e discrete che salgono come nebbia da una Terra amata, che prendono forza anche dalle cose che sono cambiate dagli anni.
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