Il sangue dei morti - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il sangue dei morti

Tutte le edizioni > Edizione14
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XIV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2009
Premio speciale
"Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

Il sangue dei morti

di Katia Tormen - Trichiana (BL)



“Poveri stupidi!” L’uomo lo disse al vento, muovendo le labbra attorno alla pipa rigorosamente spenta. Aveva smesso di fumare anni prima, ma il vizio di tenere quell’affare in bocca non era riuscito a farselo passare. D’altronde, non ne aveva altri. Le orecchie sensibili del pastore tedesco accucciato ai suoi piedi captarono la sua voce e l’animale alzò il muso verso di lui con fare interrogativo. “Vedrai se non ho ragione, vecchio mio, la natura ha leggi molto più severe di quelle umane!”. Il cane emise un guaito e tornò ad appoggiare il muso fra le zampe. Sauro sfiorava le leve nell’identico modo in cui accarezzava le donne: lievemente e con passione. Le sue mani, come quelle di un pianista, sapevano a memoria dove posarsi, dove toccare leggermente e dove premere con forza e così i suoi piedi, le punte che danzavano sui pedali. Sotto il suo tocco la gigantesca escavatrice sbranava la collina e depositava terra e roccia sui grossi camion gialli che, ininterrottamente, sollevavano nuvole di polvere bianca che formava una patina sulle foglie degli alberi ai lati della strada. Amava il suo lavoro ed era consapevole di saperlo svolgere bene. Spesso doveva restare distante da casa per settimane, ma, in fondo, non gli dispiaceva: non c’era niente che lo legasse al suo paese di mare se non il mare stesso, con il suo orizzonte infinito che sembrava aprirsi a tutte le possibilità che la vita può offrire. Stare in mezzo alle montagne come ora, però, lo metteva sempre un po’ a disagio. Quelle pareti che da ogni parte si alzavano verso il cielo sembravano voler intrappolare persone e sogni, confinare in quel pezzo di terra che qualcuno, migliaia di anni prima, aveva faticosamente strappato alla roccia, corpi e anime. Certe volte si sentiva il respiro pesante, come se anche all’aria di quel luogo fosse impedito di uscire per purificarsi. Si fermò in attesa che uno dei camion prendesse il posto di quello che se n’era appena andato e alzò gli occhi verso le piste da sci. Con lo sguardo percorse una delle cicatrici fra gli abeti fin dove spariva dietro la collina che stava sbancando e solo allora lo vide. Un brivido gli partì dall’attaccatura dei capelli e si irradiò fino alla punta delle dita. Quasi tutti gli alberghi erano sorti come funghi agli inizi degli anni ottanta, quando il paese era entrato a far parte di un carosello sciistico che comprendeva altre cinque vallate. Prima c’era solo la pensione Genzianella, che accoglieva perlopiù i bambini delle scuole elementari che salivano fin lì per imparare a sciare sull’unica pista servita da un vecchio skilift che, tra l’altro, funzionava a singhiozzo. Poi era arrivato qualcuno che più abile, più furbo o semplicemente più introdotto nei posti giusti, aveva cominciato a parlare di sviluppo economico, di turismo di massa, di lavoro per tutti e niente era stato più come prima: alberi abbattuti, montagne ferite per far posto a piste larghe come autostrade. Due seggiovie quadriposto a sganciamento automatico e una cabinovia che funzionava anche d’estate per gli escursionisti sfaticati. E colate di cemento a tre o quattro stelle, con piscina coperta riscaldata o servizio navetta per le piste, camera e colazione o pensione completa. Il lavoro c’era stato sul serio, ma solo finché si era trattato di tagliare alberi, appoggiare mattoni uno sull’altro e impastare cemento. Il business vero, quello che fa fare soldi, era tutto in mano a gente di fuori, ai “foresti”, e ai valligiani non era rimasto che accontentarsi di un posto da lavapiatti o da cameriera.
Ora, proprio lì, sarebbe stato edificato il primo hotel cinque stelle, l’unico di tutto il comprensorio, che, a detta di quelli che se ne intendevano, avrebbe portato in paese fiumi di denaro provenienti da gente che poteva permettersi di pagare trecento euro a notte. Sembrava non importare a nessuno che, per farlo, fossero state demolite le vecchie segherie e deviato il corso del torrente che anticamente le alimentava. Il denaro aveva la prerogativa di lavare le coscienze e cancellare le memorie in nome del progresso e del benessere che, per il momento, esisteva solo sulle carte. Sauro aveva un carattere aperto e gioviale, tipico della sua regione. Amava stare in mezzo alla gente, parlare con le persone, ascoltare le storie dei posti in cui il lavoro lo portava. Per questo, la sera, invece di seguire i suoi colleghi nei discopub del fondovalle, spesso preferiva sedersi al bar della pensione Genzianella, dove i vecchi del posto spendevano le loro giornate avvolti da nuvole di fumo e bestemmie, dimentichi del mondo che stava fuori dei confini del tavolo su cui sbattevano con violenza le carte macchiate di vino. Sauro li osservava affascinato scambiarsi impercettibili segnali, ascoltava, senza afferrarla del tutto, quella lingua aspra e tagliente come le cime dei monti che incombevano sulla valle. Quel personaggio strano gli si era avvicinato una sera, fissandolo intensamente. Dopo un attimo di smarrimento, aveva riconosciuto nel volto segnato dal tempo quello dell’uomo che ogni giorno dall’alto della collina sorvegliava il cantiere. Per qualche secondo aveva tenuto lo sguardo fisso in quegli occhi che sembravano pezzi di ghiaccio, poi si era sentito gelare il sangue nelle vene e aveva abbassato la testa fingendo di guardarsi la punta delle scarpe. “State disturbando il riposo dei morti!”. L’uomo gli puntò contro il manico della pipa. “Mi scusi...?”- balbettò Sauro a disagio, quegli occhi chiari sembravano frugarlo nel profondo, si sentiva come un animale braccato. La donna dietro il bancone venne in suo aiuto: “Ulisse lascialo stare, tu e le tue storie! Sono passati sessant’anni, i morti ormai hanno riposato abbastanza, bisogna che i vivi facciano la loro vita!”. Il vecchio si voltò e lentamente ruotò la testa squadrando uno ad uno i presenti. “Voi non mi credete. Mi prendete per matto. Beh, vi dico una cosa: tra non molto sulla strada qui davanti scorrerà il sangue dei morti!”. Nel bar era calato il silenzio. Tutti fissavano l’uomo che si era rimesso in bocca la pipa spenta, un’espressione di accusa stampata sul volto. Dal fondo della sala una voce si levò beffarda: “Ulisse, ma sempre sangue deve correre su ‘sta strada? Se per una volta fosse vino?”. La risata generale spezzò la tensione e l’uomo, palesemente contrariato, scosse la testa e se ne andò sbattendo la porta. Sauro non diede peso alle parole dell’uomo, ma da quella sera ogni volta che i suoi occhi incontravano l’azzurro glaciale di quelli dell’uomo, che col suo cane compariva immancabilmente sulla collina, non poteva fare a meno di sentire freddo. La casa di Ulisse era nascosta tra i larici, circa un chilometro fuori dal paese. Lì la strada finiva e lasciava il posto al sentiero numero 202, un ripido viottolo che portava su al rifugio, sotto la fermata della cabinovia. Lui non era nato lì, in quella valle. Vi era capitato quand’era poco più che un ragazzo, in cerca di un lavoro e oltre a quello, giù alla segheria, aveva trovato anche l’amore. La patria lo aveva chiamato a compiere il suo dovere quando mancavano pochi mesi alla nascita del secondo figlio. Aveva lasciato la sua giovane sposa e il suo primogenito con le lacrime agli occhi sulla porta di quella stessa casa in mezzo ai larici, con la promessa che presto sarebbe tornato. Riudiva spesso nella mente la voce di suo figlio che lo chiamava e rivedeva se stesso fingere di non sentire per non voltarsi e mostrare il suo viso rigato dalle lacrime. Seppe dell’arrivo della piccola Elena da una lettera che gli fu recapitata al fronte. Poi le comunicazioni con la sua famiglia si interruppero e per molto, molto tempo a Ulisse non restò altro che sperare e pregare. Ritornò dalla Russia, fu uno dei fortunati, ma per mesi non riuscì nemmeno a dire il suo nome.
Non appena si fu un poco ristabilito, intraprese il viaggio verso casa, impaziente di riabbracciare la sua famiglia, fantasticando sulla scena di sua figlia che gli correva incontro con le sue piccole braccia spalancate. Il percorso fu un susseguirsi di rovine, macerie e gente disperata. Lungo la valle non incontrò praticamente nessuno, l’unico rumore che solleticava le sue orecchie era il battito del suo cuore accelerato dalla fatica e dall’emozione. Non appena intravide le case del suo paese anche quel rumore cessò. Con le poche forze che gli restavano corse a perdifiato verso il bosco di larici, urlando i nomi della moglie e dei figli, ma quello che trovò fu un mucchio di assi bruciate e un silenzio rotto solo dal frusciare del vento tra i rami. Venne a sapere più tardi che i tedeschi, per rappresaglia, avevano radunato tutti su al “pozzo”, una grande e profonda fenditura nel terreno. Lì, quando pioveva, l’acqua entrava e, attraversando chissà quale labirinto sottoterra, usciva poco sopra le segherie a andava confluire nel torrente che le lambiva. Andavano di fretta, i maledetti crucchi, così alcune persone le ammazzarono, altre le gettarono dentro vive. Poi buttarono un paio di taniche di benzina e diedero fuoco. Quelli che riuscirono a scamparla, raccontarono a Ulisse che il fumo e l’odore di carne bruciata impregnarono l’aria per molto tempo. L’architetto si tolse l’elmetto giallo e dispiegò alcuni fogli su un mucchio di mattoni. “Vedi, il progetto prevede che lo scavo si interrompa qui…” - e indicò un punto sulla carta. “Tu invece dovresti prolungarlo ancora di un paio di metri, una robetta da poco, in mezz’ora te la cavi. Però meglio se lo fai stasera, sai com’è…”. Sì, Sauro sapeva com’era. E, sinceramente, non gli interessava. Il suo lavoro era scavare e lui lo faceva, per il resto se la sbrigassero tra di loro, progettisti, committenti e politici vari che la maggior parte delle volte sapevano e facevano finta di niente. Chissà cosa aveva promesso stavolta il proprietario dell’hotel… l’allargamento della strada? Un parco giochi per i bambini? Qualche voto in più alle prossime elezioni? Un paio di metri erano una cosa che a occhio nudo quasi non si vedeva, ma ruba un po’ qui un po’ là , la cubatura finale ne avrebbe risentito notevolmente. Guardò l’orologio. Ancora qualche ora e poi si sarebbe fatto una bella doccia, avrebbe messo i jeans nuovi e una maglietta pulita e sarebbe andato con gli altri in discoteca giù in città: stasera aveva voglia di distrarsi. Una folata di aria fredda lo fece rabbrividire: l’autunno era alle porte e probabilmente sulle cime stava già nevicando. Alzò gli occhi per sincerarsene, ma l’ascesa del suo sguardo fu interrotta dalla vista del vecchio. Anche se era distante, era sicuro che lo stesse fissando. Poi anche lui guardò verso la montagna, scosse la testa e se ne andò col suo cane. Aveva ricostruito la casa pietra su pietra, mischiando le lacrime al cemento, esattamente identica a prima. Aveva perfino messo i lettini nella camera dei bambini. Dall’incendio si era salvata ben poca cosa e se anche ci fosse stato qualcosa da recuperare, quante persone prima del suo ritorno avevano calpestato i resti della sua vita frugando nella cenere? Aveva lavorato per non impazzire, per impedire che i pensieri lo facessero uscire di senno e si era eretto a custode di quel luogo di morte. Andava su al pozzo e lasciava un mazzo di fiori, una volta lo faceva tutti i giorni, adesso meno spesso perché gli anni gli avevano portato in dote una lunga serie di acciacchi. Diede un’occhiata al cielo e decise di salire lassù, prima che arrivasse la pioggia e rendesse tutto viscido per giorni. Era solo un quarto d’ora di strada, ma quando arrivò sull’orlo dell’orrido i suoi polmoni sembravano attraversati da schegge d’acciaio. “Maledetta te quando stavi accesa!”- disse rivolgendosi alla pipa e si sedette su di un masso. Nella scarsa luce dell’imbrunire ancor più attenuata dalle nubi di tempesta, lasciò vagare lo sguardo sul paese sottostante senza trovare più i punti di riferimento di un tempo, ma solo insegne al neon. Lo scavo del nuovo Hotel era immenso, arrivava fin sotto la collina, troppo sotto a parer suo. Le prime gocce di pioggia lo colsero sulla via del ritorno. Sauro non ricordava di aver mai visto un tempo simile. Pioveva ininterrottamente da tre giorni e si rodeva il fegato al pensiero che gli sarebbero bastate un paio d’ore per finire il suo lavoro e andarsene finalmente da lì. Dalla finestra della sua stanza poteva vedere lo scavo qualche centinaio di metri più avanti, sovrastato dalla montagna la cui cima era celata alla vista da nuvoloni neri.
Rimase per qualche minuto con lo sguardo fisso sul cantiere finché gli occhi non diedero segno di stanchezza e sembrò che il muro di terra dietro lo scavo si muovesse. Sbuffò e decise di scendere nella “hall” a bere qualcosa. Il cane cominciò ad abbaiare e rizzò il pelo sulla schiena. L’uomo gli accarezzò la testa per tranquillizzarlo e si alzò per gettare legna nel camino. La vibrazione che avvertì non lo colse impreparato: “Poveri stupidi!” - mormorò fra se. La collina si sciolse completamente. Fu come se qualcuno avesse tolto una diga che conteneva fango. La terra, di un colore rossastro, invase le strade del paese travolgendo auto, persone qualunque cosa trovasse sul suo cammino, entrando nelle “hall” degli hotel e ai piani bassi delle case, inghiottendo e devastando ogni cosa. Su al pozzo l’acqua entrava nella voragine col fragore di una cascata e, a valle, il torrente si era riappropriato del suo corso originario demolendo gli argini e sfondando il sottile diaframma formato da quel che restava della collina, indebolito dall’ulteriore sbancamento effettuato in corso d’opera. Nell’atrio dell’hotel, mentre annaspava in mezzo alla melma che, come una mano viscida, lo teneva avvinghiato a sé, Sauro si trovò a pensare che quella poltiglia aveva proprio il colore del sangue rappreso.
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