Il mio tenente - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il mio tenente

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXVII EDIZIONE
Arcade, 8 gennaio 2022
Secondo classificato


Il mio tenente

 
di Carlo Monteleone - Palmi (RC)





Campagna di Russia. Fine Gennaio 1942.
 
Da alcuni giorni stiamo cercando con tutte le nostre forze di uscire dalla sacca lungo il fiume Don in cui il nemico ci sta chiudendo. Siamo i resti del battaglione Morbegno, per salvarci dobbiamo andare sempre verso ovest. Oltre ai Russi, un nemico più temibile: l’inverno.
 
Eppure, quasi tutti noi proveniamo da zone alpine, abituati al freddo ed alla neve. Pensavo fosse così anch’io finché non ho conosciuto l’inverno russo.
 
Inizia a nevicare ad ottobre e prosegue senza sosta per mesi con temperature che raggiungono i trenta e quaranta gradi sotto zero. Il gelo blocca non solo il corpo, ma anche i pensieri e cominci a sentire un dolore atroce dappertutto a partire dalla testa. I cappotti servono, ormai, a poco e dobbiamo sempre battere i piedi per terra specialmente di notte per evitare il congelamento.
 
Abbiamo dovuto abbandonare carri e viveri. Anche i muli, uno dopo l’altro, sono caduti stremati. I fucili e le mitragliatrici smettono di funzionare, la benzina si congela nei serbatoi ed i camion non riescono più a partire.
 
Stiamo proseguendo il cammino a piedi.
 
Le lunghe camminate, da piccoli, per i boschi, lo stare anche all’addiaccio e le fatiche compiute nelle nostre montagne sono cosa ben diversa dal camminare lungo la steppa gelata. Si procede per settimane e mesi senza vedere qualcosa di diverso. Sempre lo stesso paesaggio uniforme innevato, nebuloso, impalpabile. Bianco il cielo, bianco il terreno, bianchi i nostri cappotti ricoperti di neve gelida.
 
Mi domando cosa ci facciamo, armati di fucili e di cannoni, in questa terra straniera. Non è la nostra terra e, allora, perché ci troviamo qui anziché stare a lavorare nelle nostre vallate? Mesi fa abbiamo fatto anche dei prigionieri: contadini, operai, boscaioli come noi, povera gente vestita con stracci ed un fucile in mano. Nei loro volti solo tanta paura e povertà.
 
Stiamo procedendo molto lentamente e con fatica, mettendo avanti una gamba dopo l’altra come due blocchi di pietra, non mangiamo da due giorni, mi sento la testa vuota, pesante e vedo tutto annebbiato.  
 
Siamo rimasti in sei, compreso il tenente. Non so dove sia il resto della compagnia. È facile perdersi di vista, quando c’è una tormenta di neve o quando si deve cercare velocemente un riparo perché senti avvicinarsi i carri armati nemici.
 
Probabilmente gli altri alpini del battaglione sono a poche centinaia di metri da noi e stanno camminando anche loro verso ovest. Tanti altri sono rimasti per sempre sotto la neve.
 
All’improvviso un forte sibilo nell’aria. Poi, alcune esplosioni, di cui una vicinissima. Lo spostamento d’aria mi fa sbalzare di qualche metro scaraventandomi contro un albero. Cado a terra tutto intontito con un forte dolore al petto.
 
Sento che sto per chiudere gli occhi per sempre. Il pensiero va alla mia famiglia, poi le forze mi abbandonano. Mi sento avvolgere da un silenzio assoluto.
 
Trascorre qualche altro minuto, m’accorgo di essere ancora cosciente e vivo. La prima sensazione che avverto è d’un freddo rigido che mi blocca il corpo impedendone i movimenti. Apro gli occhi, mi guardo attorno, gli altri alpini sono ancora a terra, immobili.
 
Li chiamo tutti per nome. Di nuovo grido a voce alta i loro nomi. Invano. Nessuno risponde. Sono solo, sperduto in quest’immensità bianca.
 
Riprende a nevicare e grossi fiocchi ricoprono silenziosamente ogni cosa. Tra poco dei miei compagni non resterà nulla, si uniranno alla madre terra ritrovando quella pace ed il silenzio che la guerra ha fatto da tempo dimenticare.
 
È solo questione di poche ore anche per me. Il gelo mi blocca tutto, parlo con difficoltà, il volto si sta irrigidendo. Non so dove andare. Sono tanto stanco. Penso allora di adagiarmi per terra insieme a loro ed aspettare la fine che non si farà attendere. Ripenso ai miei genitori e rivedo mio padre che conduce le mucche al pascolo mentre mia madre a casa prepara la polenta in un paiolo di rame.
 
Un altro volto s’affaccia nella mente, quello di una ragazza. È la figlia del bottegaio e, da quando l’ho notata, scendo spesso in paese per andare a comprare qualcosa. Non so neanche il suo nome. Come mi sarebbe piaciuto conoscerla!
 
Mentre sto per chiudere gli occhi, un flebile lamento:
 
- Luisa! Luisa! Il bambino!
 
Il lamento si ripete più volte. Striscio verso quella voce. È il mio tenente, è ferito allo stomaco e perde sangue. La situazione è disperata, ma pronunciando il nome della moglie è come se tentasse di attaccarsi con ogni forza alla vita.
 
Proveniente dall’Accademia Militare e figlio di un colonnello, il mio tenente è l’ufficiale che tutti i soldati vorrebbero avere. Corretto, capace, sempre all’altezza di ogni situazione e soprattutto semplice.
 
Con un grande sforzo mi alzo e l’aiuto a sedersi, mentre continua a ripetere disperatamente il nome della moglie. Dopo un po’, acquistata lucidità, guarda la bussola e mi indica la direzione da seguire. Per sé, mi dice, non c’è più niente da fare, è gravemente ferito e non può affrontare il viaggio. Mi ostacolerebbe soltanto.
 
Insisto perché venga, altrimenti non mi muoverò di lì. Dopo molte insistenze, lo convinco e preparo con dei rami robusti una portantina rudimentale da fare scivolare sulla neve. Lo faccio sdraiare coprendolo con dei cappotti, recupero anche tutto quello che ci potrà servire. È quasi mezzogiorno e ci mettiamo in cammino.
 
Adesso non nevica più, ma la neve per terra è d’un candore accecante, devo camminare ad occhi chiusi. Il tenente alterna periodi di delirio in cui nomina sempre la moglie ed il figlio ad altri in cui mi dice di lasciarlo e di continuare da solo.
 
Fingo di non sentire e proseguo a fatica lentamente. Il pensiero di salvarlo, perché possa ritornare dalla moglie e dal figlio, mi dà una nuova energia. Le ore passano, ogni tanto mi fermo, controllo le legature della barella e scambio col mio tenente qualche parola.
 
Nel tardo pomeriggio scorgo a distanza una baracca. Non è abbandonata, c’è del fumo. Siamo salvi. Ancora alcune centinaia di metri. Arrivati davanti, inizio a chiamare. Un volto appare dietro i vetri della finestra.
 
Qualche istante dopo, un vecchio contadino viene verso di noi e mi aiuta a portare dentro il tenente. È un uomo alto e robusto, da solo non ce l’avrei fatta. Che sensazione piacevole appena entrati! La legna sta bruciando nel camino ed una donna la alimenta.
 
Sistemiamo il tenente accanto al fuoco con la certezza che lo aiuterà a sentirsi meglio. Infine mi siedo anch’io. Ci guardiamo tutti in faccia. Marito e moglie ci dicono qualche parola nella loro lingua, noi rispondiamo nella nostra. Anche se non possiamo capire quello che ci diciamo, ci comprendiamo lo stesso con gli occhi e con qualche cenno.
 
La donna versa, ora, una calda minestra in due ciotole di legno. Aiuto il tenente a mangiare, poi la assaggio poco per volta gustandola fino in fondo. Mi piacerebbe averne ancora un po’. Come se mi leggesse nel pensiero, me ne versa ancora.
 
Penso sia giusto presentarci, dire il nostro nome. Ed allora indicando me con l’indice pronunzio ad alta voce il mio nome.
 
- Io, Giovanni! – poi, indicando il tenente – Lui, Riccardo! –
 
I due nostri salvatori sorridono e, poi, la donna fa la stessa cosa:
 
- Io, Anna - ed indicando il marito – Lui, Miscia!
 
È trascorsa circa un’ora e si è creata un’atmosfera unica, particolare. Ancora continuiamo a non comprendere il significato delle poche parole che diciamo, ma abbiamo capito che non è, poi, così importante. Ci si comprende lo stesso con gli sguardi e col sorriso.
 
I due contadini sono molto anziani, il volto rugoso di chi ha lavorato per tutta una vita, ed a loro poco importa se siamo di un’altra nazione. In quella vastità della steppa il vero nemico non sono gli uomini con i loro fucili, ma il gelo. Mi piacerebbe sapere altro di loro. Chissà se hanno dei figli e sono in questo momento a combattere anche loro. Sono certo che vedono in noi i propri figli forse bisognosi di cure.
 
Anche se ha sempre la mano sulla ferita, mi sembra che il tenente stia meglio, ne sono molto contento. Miscia con dei gesti mi fa capire che ad una giornata di cammino verso ovest ci sono tanti altri soldati italiani ed il tenente potrà essere curato.
 
Rimaniamo tutta la notte accanto al fuoco, ringraziando il cielo, il contadino e la moglie. Mentre la fiamma del camino guizzando attira la nostra attenzione, il tenente commosso mi ringrazia ancora una volta di tutto. mi domanda, poi, cosa mi piacerebbe fare, finita la guerra.
 
Rispondo che lavoro con i miei in montagna nella piccola azienda familiare spiegandogli nei dettagli la nostra attività, mentre lui ascolta con attenzione.
 
Aggiungo che mi piacerebbe fare il maestro. L’ho capito solo in questi ultimi mesi. Mi piacerebbe insegnare la storia ai ragazzi e spiegare loro che le guerre non servono a niente, portano solo rovina e distruzione, lutti e povertà. Tanti bambini, finito questo conflitto, aspetteranno invano i propri genitori ed altrettante mogli e madri si vestiranno di nero.
 
Egli mi ascolta colpito profondamente da queste parole, vorrebbe abbracciarmi. Con un filo di voce mi dice di essere felice di quello che ho detto. Dopo: - Pensaci attentamente, Giovanni! Occorre solo qualche anno di studio. Secondo me saresti un buon maestro. Ci sei veramente portato.
 
L’indomani mattina, abbracciati e ringraziati a lungo i due nostri amici, riprendiamo il cammino. Anche questa volta devo insistere col tenente perché mi chiede di lasciarlo lì, facendomi notare che col suo peso mi rallenterà la marcia ed a breve distanza ci sono i russi.
 
Sa che gli rimangono solo poche ore, la ferita sanguina ancora, ha perso molto sangue. Il contadino lo seppellirà, poi, sotto la neve. Al mio rifiuto di partire senza di lui, è costretto a venire con me. Con cura lo adagiamo sulla portantina ed inizio a trainarlo.
 
Le ore della giornata trascorrono lentamente, le mani sono gonfie, tutte le articolazioni mi fanno male. Ogni tanto mi fermo, gli faccio mangiare un tozzo di pane, poi continuo. Durante una pausa estrae dal cappotto un orologio da tasca d’oro. Vuole donarmelo. Non posso accettarlo. Insiste tanto perché lo prenda.
 
- Giovanni, tu mi hai dato una seconda vita, mettendo a rischio la tua. Hai ridato la speranza ad un moribondo. Vorrei che lo tenessi in segno di riconoscenza. È il minimo che posso fare.
 
Non dico più niente. Sono commosso. Ringrazio e riprendo il cammino. Nel tardo pomeriggio scorgiamo a distanza un nucleo di baracche. C’è un po’ di movimento. Sono i nostri della Tridentina. Appena arrivati, il tenente viene subito portato nella baracca che fa da infermeria. Dopo un po’ vado a trovarlo. È sereno e non fa che ringraziarmi. È molto provato e mi vuole parlare della moglie e del figlio. Poche parole spezzate per accennare ad un grande amore per i suoi.
 
Muore durante la notte.
 
Sono trascorsi circa dieci anni. Spesso ripenso a quei giorni. Mi reputo fortunato, perché sono riuscito a fare subito ritorno a casa. Per molti altri, purtroppo, non c’è stato niente da fare.
 
Finita la guerra e ripreso a lavorare con i miei, sento che mi manca ancora qualcosa e capisco bene quel che devo fare.
 
Sono, ormai, un maestro di scuola elementare e ne sono orgoglioso; sulla mia scrivania, a casa, fa bella mostra un bellissimo orologio da tasca con catenella, quadrante di ceramica e numeri arabi, quello del mio tenente. È molto bello, ogni tanto gli do la corda. All’interno del coperchio un’incisione: “Con te per sempre. Luisa “.
 
Un pensiero da tempo, però, mi agita. Vorrei sapere come stanno la moglie ed il figlio. Ormai è passato tanto tempo. Un giorno, infine, mi decido e faccio qualche telefonata. Al Distretto Militare, dai dati da me forniti, risalgono al cognome della vedova ed alla città. Luisa abita vicino Udine insieme ai genitori nella villa di famiglia.
 
Fissato per telefono un appuntamento, un giorno salgo su un espresso e da Sondrio raggiungo Udine. Un taxi mi porta davanti ad un cancello. Alla fine di un vialetto una giovane donna ed un ragazzo di circa tredici anni. Mi colpisce subito quanto il ragazzo sia simile al padre.
 
Sento un tremito e gli occhi diventano rossi dalla commozione. Ho preparato tante cose da dire, ma non ce la faccio. Vedo ancora davanti a me il mio tenente ferito che con un filo di voce mi dice di lasciarlo lì nella neve e di salvarmi. Da solo ce l’avrei fatta meglio.
 
Abbraccio mamma e figlio, poi consegno uno scatolino. Luisa lo apre. C’è l’orologio del mio tenente.
 - È più giusto che sia qua!
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