Il cappello rovesciato nel fango - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Il cappello rovesciato nel fango

Tutte le edizioni > Edizione09
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

IX EDIZIONE - Arcade, 4 gennaio 2004
Segnalato

Il cappello rovesciato nel fango

di Guglielmo Lera - Lucca



Attillato, con la cravatta, il colletto inamidato e i baffi appuntiti, le mani affogate entro i polsini: questo “il Conte Francesco Sardi, uomo di profonda dottrina”, che i concittadini, a memoria perenne, vollero immortalare nel bronzo per le sue preclare virtù.
- Contesà, tutti i giorni la solita tiritera.
- E tu? non sei forse la stessa che tanti anni fa, con una sedia e un cartello, trasformò il mio regno in un posteggio di biciclette?
- Contesà, cercavo lavoro. Venivo dall'Istria e campare di sussidi non mi andava.
- Quanto dici ti fa onore e mi aiuta a sopportare la confusione che provochi.
- Perché, allora, sbirci dall’alto il posteggio?
- Cosa debbo fare, Mariantonia, se il destino mi ha posto quassù?
- Speriamo che il destino non faccia così anche con me. Grossa come mi ritrovo finirei per rovinare dalla mensola.
- Ma tu non vanti preclare virtù e profonda dottrina.
- Ogni volta che parli difficile non ti sopporto.
- Lascia perdere. So bene che "dottrina" per te ha valore di "catechismo” e che ti ricorda i bei giorni quando. ragazzina, andavi alla chiesa del paese.
- Era piccola piccola, tutta bianca, Contesà...
- Fu lì che ti sposasti?
- Si, Contesà...
- E tuo marito per quanto lo vedesti ancora?
- Per poco, Contesà...
- Poi fuggisti in Italia con la figlia di soli tre mesi ed io, quando fu cresciuta, le diedi in marito un mio bravo concittadino.
- Beh! facciamo “un mio concittadino”, e tu ora possiedi una nipote che tutti i giorni, all’una, ti porta desinare.
Una ragazzina dai capelli biondi fissava da qualche minuta la donna tenendo fra le mani un portavivande.
- Nonna, se non smetti di parlare con il Conte la minestra ti fredda.
Mariantonia era una vecchia strana. Serbava a memoria l’elenco degli abbonati e quanto le dovevano. Non sgarrava di una lira. Ma se qualcuno intendeva ingannarla, da cortese e piena di riguardi diveniva becera e spietata. Era lei che sistemava ad ogni cliente la bicicletta nella rastrelliera. Non ammetteva disordini. Nei giorni di grande affluenza la piazzetta assumeva l’aspetto di un campo trincerato: quaranta biciclette allineate in gran pompa sotto il busto dell’emerito cittadino, più venti sugli altri tre lati. Un capolavoro di cui andava orgogliosa e che offriva per delle ore in omaggio al Conte Sardi.
- Di’ che son belle, Contesà...
- Non c'è che lodarti... Però sono cambiati i tempi. Ora ti adatti a prendere anche i motorini.
- Li odio, Contesà, ma ci guadagno il doppio.
- Sei diventata venale.
- Ti giuro, non più di sessanta macchine, ma i motorini rendono, e per non prendere dei rabbuffi dal “bravo concittadino” che tu desti a mia figlia, bisogna fare così...
I due restarono muti a lungo. Poi:
- Mariantonia, cominciano a cadere le fog1ie, fatti comprare un cappotto pesante. Sono quarant'anni che ti vedo vestita di cenci, con il solito scialle di lana pieno di rammendi e quel miserabile scaldino di latta che sei tu a tener vivo con le mani rosse di geloni.
- Contesà, sei buono, però il tuo vestito è più sberciato del mio. Non vedi come il polsino si è rotto e ti ciondola?
- Beh! ma il vestito che mi posero addosso non ha lo scopo di farmi calore.
- Allora tu sei una bugia, come le parole che porti scritte davanti.
Il primo vento di tramontana penetrava in quella città con l’estate dei morti. Staccate dai rami le foglie volavano oltre i muri dei giardini per ritrovarsi nelle vie, tutte insieme, come le rondini prima di andarsene. Poi seccavano negli angoli più riparati o marciavano nelle pozzanghere. La piazzetta del Conte Sardi, difesa da due palazzi che facevano angolo, aveva come fronte una strada senza marciapiedi, interamente in pietra, tagliata a distanza regolare da buche di sgrondo. Dall’odore che di lì usciva Mariantonia interpretava il variare del tempo e il cambiamento delle stagioni.
- Contesà, ma l’hai lasciata ben puzzolente questa città!
Oppure, scherzando:
- Contesà, levati pure la giubba, domani fa bello.
E il Conte Sardi.
- Sempre lo stesso ritornello. Ma puzza chi si profuma, non chi suda.
D’inverno, quando arrivava, era notte. Non sopportava i lampioni e avrebbe preferito lavorare alla cieca piuttosto che sentirsi un’ombra sotto quella luce piena di tristezza. Una mattina scorse una scritta bistorta e di colore rosso. partiva dal basso, e, impennandosi all’improvviso, pareva un’arma puntata contro il Conte.
- Contesà, ti hanno conciato bene stanotte. Sei stato fascista che vogliono la tua morte?
Per la prima volta da quando era in quel luogo il Conte, chiuso nel suo bronzo,non degnò Mariantonia di un cenno, né di una risposta.
- Contesà, non farmi pensare che sotto la crosta del monumento si nasconde la camicia nera.
La nebbia che incombeva sulla città s'era d'improvviso levata oltre i comignoli e un tenue raggio di sole sfiorò il Conte Sardi. Mariantonia rilesse nell'iscrizione, che sapeva a memoria, la data di morte del Conte: 1888.
- Ma a quel tempo il fascio non c'era!
- Vero, Mariantonia, vero come il sole che ti darà tra poco una bella giornata.
Un’altra volta, sotto lo sberleffo che ormai si stava stingendo, Mariantonia trovò questa epigrafe a lettere nere: "I rossi al muro". Guardò il Conte e le sembrò strano che un signore così distinto, con il colletto alto, i baffi e i polsini fosse stato un rivoluzionario. Lo sbirciò di nuovo e convenne che la nuova scritta, sotto quell'uomo proprio non ci stava. Ma il Conte Sardi, che la sapeva più lunga, ebbe un sorriso:
- Tutti hanno sempre un po’ di ragione quando si scalmanano tanto. Cosa c’è di strano? Non lo vedi che “al muro” ci sono da tempo e ben appiccicato?
L'ultima estate dei morti fu precocemente fredda.
- Contesà, ci arriveremo a primavera?
- Con quelle gambe non so proprio come farai a muoverti per mettere in ordine le biciclette. Stai un po’ tranquilla e quando i ragazzi della scuola faranno ressa e pretenderanno di essere serviti alla svelta, non dire le solite parolacce. Hanno solo fame.
Un gonfiore marronastro si stava formando da mesi sull’occhio destro del Conte. Il giorno che se ne accorse Mariantonia rimase di sasso. Quel signore freddo, compassato, elegante stava diventando come lei, con in più un bitorzolo in viso. Pensò alle sue mani che di lì a poco di sarebbero coperte di geloni.
- Siamo conciati bene, Contesà!
Non poteva più sopportarlo. pareva imbronciato e senza più voglia di parlare dopo che un maledetto insetto, per fare il nido, l’aveva accecato. Mariantonia cercò una canna e, traballando, tentò di liberare il Conte dalla crostosa protuberanza. Ma si trovò goffa, impacciata, minuscola sotto di lui che pareva sostenuto da una nuvola.
- Non so proprio che farci. Chiamo la guardia?
Nonostante il bitorzolo il Conte rispose a Mariantonia:
- Cosa vuoi che importi alla guardia di un pezzo di bronzo!.
La donna, tutta sudata, posò al muro l’inutile canna. Quell’uomo le faceva pena.
- Contesà, ti voglio bene – le scappò detto una mattina. Pioveva a dirotto e, avvolta nello scialle, guardava un gatto triste, posato sulla soglia del portone di fronte.
- Contesà, tu non hai conosciuto mio marito. Faceva un tempo così quando bussarono all’uscio e me lo portarono via. Gli corsi dietro per dargli qualcosa che lo riparasse dall’acqua e dal freddo. nella fretta trovai solo il cappello d’alpino che pendeva a un chiodo dell’ingresso. Lo staccai. A quei tempi ero svelta e d’un volo mi avvicinai al camion carico di uomini già in movimento. Dal retro della cabina uscivano grida e si agitavano braccia. Chiamai disperatamente il mio uomo sollevando con la destra il cappello.
- Ti ha riparato per tutta la guerra, è tuo, riprendilo!
Una mano, dal folto di quei corpi, si allungò disperata. Non ne potevo più, ma uno straziato “Mariantonia!” mi diede la forza d’inseguire ancora. Poi caddi e il cappello finì rovesciato nel fango. Ruppi in un pianto dirotto.
- Tanto non gli sarebbe servito - commentò qualcuno. Il cuore mi schizzò in gola...
Passarono pochi giorni e seppi che una foiba l’aveva inghiottito per sempre.
La pioggia cadeva insistente e Mariantonia pareva un mucchio informe di cenci e di carne posato tra ruote e motori. Quando si riebbe alzò il capo verso l’antico busto di bronzo.
- Parlava la tua stessa lingua, Contesà, per questo me l’uccisero. Era buono e distinto, quasi come te.
Il gatto s’infilò nel palazzo e ricomparve tra le sbarre di una finestra. Lo scialle di Mariantonia gocciolava da tutte le parti.
Una tenera spera di sole venne a posarsi sul Conte. L’acqua aveva sciolto il grumo di terra e dall’occhio malato scendevano sulle guance schizzi di fango. A Mariantonia parve che Conte Sardi piangesse e prese a mandargli baci, come se all’improvviso fosse ricomparso il suo uomo.
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