I treni del ritorno - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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I treni del ritorno

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXV EDIZIONE - Arcade, 4 Gennaio 2020
Segnalato

I treni del ritorno

di Flavio Moro - Casnigo (BG)



Il tenente Boni aveva solo qualche anno più dei suoi alpini, eppure in breve tempo si era conquistato la stima del battaglione intero. Dieci giorni prima era balzato fuori della trincea e li aveva guidati all’assalto risalendo il pendio verso il pianoro sovrastato dalla mole del Pasubio. L’avevano conquistato in pochi minuti, perdendo solo tre uomini. Anzi, quattro, perché il cecchino di fondo trincea, Marini, era morto durante la notte, dopo ore di lamenti, là fuori, nella terra di nessuno. Anche adesso il tenente era lì ad incitare e aiutare i suoi uomini a tirare le corde.
Il caporale lo raggiunse alle spalle: “Signor tenente, è arrivato quello nuovo, il soldato che deve prendere il posto del cecchino di fondo trincea”.
Il tenente si voltò e guardò il nuovo arrivato. Con quella faccia piccola, bianca e imberbe, pareva uno scolaretto delle elementari. Doveva averlo già incontrato da qualche parte.
“Tu devi rimpiazzare il povero Marini?”
“Non so chi devo rimpiazzare, signor tenente, mi hanno mandato qui perché serve un cecchino”.
Boni sospirò, assunse la posa del superiore e fissò il giovane soldato.
“Sai cosa devi fare, vero? Te l’hanno insegnato giù al campo di addestramento?”.
“Sissignore, devo prendere posizione dietro alla piastra di protezione e tenere d’occhio la trincea del nemico”.
Il tenente avvertì la collera salire fino al volto. Cercò di controllarsi.
“Prendere posizione? Tenere d’occhio il nemico?”
Non poté fare a meno di alzare voce: “Tu, devi ‘mantenere’ la posizione! Tu, mio caro soldatino, il nemico non lo devi guardare ma gli devi sparare! Mi hai capito?”
Il ragazzo si irrigidì, tremava un poco: “sì… sì signor tenente”.
Boni gli indicò la trincea nemica.
“Là, che ci sia luce, il buio, la nebbia o il diluvio, tu devi vedere tutto ciò che si muove e sparargli all’istante! E non ti deve venire sonno, voglia di fumare o qualche altro accidente. Continui a capire?”
Il giovane soldato annuì con forza.
“E cacciati bene in testa una cosa, signor soldato…”, lo afferrò per il bavero e sussurrò dritto sulle sue labbra: “Guardati attorno, li vedi i nostri alpini? Se tu, sì, proprio tu, fai il tuo dovere di cecchino e ammazzi un soldato nemico, ricorda che quel soldato non potrà più sparare durante il nostro assalto e così tu…”, scandì ficcandogli l’indice nella divisa, “avrai sal-va-to la vita ad almeno dieci dei tuoi compagni”.
I due si fissarono in silenzio, poi il ragazzo sorrise e annuì con calma.
“Si, signor tenente. Lo farò senz’altro”.
Boni mollò il bavero e urlò ai soldati che lo stavano osservando mentre stringevano la corda tra le mani: “Avanti con la pesca, voialtri! Lanciate e tirate. Svelti perdio”.
Obbedirono e si affrettarono a gettare le corde fuori dalla trincea. All’estremità era fissato un gancio che ricadeva nella terra di nessuno poi, mentre la corda veniva tirata, scivolava a solcava il pietrisco. Prima o poi, l’uncino arpionava un corpo. Allora i soldati tiravano con cautela e con l’angoscia di trovarsi davanti il cadavere del compagno dilaniato durante l’ultimo assalto.
Poco distante, due soldati stavano calando nella trincea un corpo in putrefazione.
Uno dei due richiamò l’attenzione dell’ufficiale.
“Signor tenente, abbiamo pescato Marini, il cecchino. Era là fuori da quasi dieci giorni, puzza, è conciato male ma è lui di sicuro”.
Trasportarono il cadavere con un telo verde e lo sistemarono sul mucchio che andava crescendo nello scavo a semicerchio della trincea. L’indomani lo avrebbero chiuso in una bara e caricato sul treno che viaggiava sul binario del ritorno.
Se ne tornava a casa, il Marini, il fuciliere infallibile, così come tutti gli altri buttati sul mucchio nello scavo della trincea. Con lui avrebbero viaggiato i giovani più fortunati, quelli feriti, quelli che potevano riportare in famiglia ciò che restava delle loro vite.
Il tenente Boni l’aveva visto partire, uno di quei treni del ritorno.
Dai finestrini biancheggiava un ammasso di bende striate di rosso. Quei resti di forza e gioventù erano stipati fin sui montatoi dei vagoni, occhi vitrei e opachi fissavano il vuoto e nell’aria c’era un forte odore di lisolo e di sangue. Boni ricordava bene il busto strano del soldato che riempiva tutto il finestrino. Non aveva la testa ma una palla di cotone e di fasce bianche. Chissà com’era quella faccia sotto le bende, chissà quale futuro stava immaginando quel ragazzo.
Qualcuno teneva in mano una fotografia perché quel treno li stava riportando ai loro affetti e, anche se mutilati fin giù nell’anima, in fondo erano pur sempre uomini.
Anche dalle retrovie del nemico sarebbe partito un treno con il carico di morte e di uomini senza più il mattino della vita. Chissà, in quei momenti, quanti treni del ritorno stavano trasportando il dolore e la pena che ogni soldato di ogni guerra conosce troppo bene.
Sul pianoro del Pasubio, solcato dalle trincee e martoriato dai cannoni, ormai le nebbie d’autunno non avevano più alberi da bagnare né foglie da ingiallire.
Dopo il rancio, al tenente Boni piaceva appartarsi nella bruma del crepuscolo e cercare frammenti di cielo e briciole di coraggio per sopportare un altro giorno nell’inferno della trincea.
Lassù, nel cielo, l’opera di Dio, lì davanti a lui, quella del demonio.
Accucciato sulla pietra che sporgeva al termine dello scavo, si ingobbiva nella mantella grigio-verde e accendeva una sigaretta. Alle spalle, uno strapiombo e un ammasso di filo spinato proteggevano l’avamposto dalle incursioni improvvise.
Quel punto era il più vicino alla trincea del nemico, distava appena una decina di metri e il tenente Boni, quando se ne stava lì a fumare, sentiva distintamente le voci dei soldati austriaci. Non che capisse quel che dicevano, ci mancherebbe, con quella lingua più contorta del suo dialetto l’unica cosa che intuiva erano le risate e la tosse catarrosa dei tisici.
Ciò che ammirava di loro, è che, a volte, cantavano.
Anche quella sera l’ufficiale, seduto sulla pietra, accese la sigaretta. Una trentina di metri più in là, il nuovo cecchino con la faccia da fanciullo era appostato col suo fucile e scrutava nella semioscurità.
Boni era sicuro di averlo già incontrato prima. Ma dove?
Chiuse gli occhi e, all’improvviso, ricordò.
La sua mente rivide quel viso imberbe allineato nel plotone di esecuzione, giù al campo di addestramento delle reclute.
Quel giorno, qualcuno aveva esitato nell’assalto, perciò si doveva fucilare un soldato scelto a caso, contando fino a dieci nella fila. Questa era la regola stabilita dal comando supremo per dare esempio deciso e risoluto a tutto il reparto.
Il povero disgraziato fissava i fucili puntati su di lui, tremava e balbettava: “Che c’entro io? Sono solo un calzolaio, io. La mia sposa aspetta un bambino e…”.
“Porta pazienza, Vitali” gli aveva detto il responsabile del plotone, “purtroppo è la regola. Su, su, un po’ di dignità perdio”.
Dignità: quella parola usata a sproposito risuonava ancora nella mente di Boni.
L’ordine di sparare era stato dato in fretta. Il tenente Boni aveva notato che tutti i fucili erano stati puntati un poco più in alto, oltre la testa del calzolaio. Tutti, tranne uno.
La testa del Vitali era balzata all’indietro con un fiore rosso in fronte, e il corpo si era afflosciato all’istante. L’unico che non aveva abbassato subito il fucile era lui, il soldato con la faccia da bambino, perché aveva da sorridere compiaciuto.
Boni era certo di avere percepito il pensiero strisciante di quel ragazzo che sanciva: “Sì, sììì, adesso sì che sono un vero tiratore scelto!”.
Il tenente riaprì gli occhi. Nel silenzio totale, le armi erano innocue come fiori di campo.
“Ehi, ssst”.
Il sibilo lo fece trasalire.
“Ehi… c’è qualcuno di là?”.
Boni non capiva chi stesse bisbigliando. In quell’angolo di trincea era solo, ne era certo, perché l’uomo più prossimo era il cecchino, lì, a trenta metri.
La voce continuò: “Ho visto la sigaretta, chi sei?”.
Il tenente la spense subito.
Adesso era certo che qualcuno gli stava parlando dalla trincea opposta, l’accento e la pronuncia lo confermavano. Era dieci metri più in là a fare domande stupide. Decise di rispondere.
“Sono… ma chi vuoi che sia, cribbio! Sono il tuo nemico, no?”.
Boni si pentì di avere risposto con incoscienza. Quello poteva essere un espediente del nemico per carpire informazioni utili a preparare il prossimo assalto.
“No, no”, sussurrò quella voce con insistenza, “intendo dire al di fuori della guerra. Ad esempio, nella vita civile io sono uno studente, mi manca un anno alla laurea”.
Quel soldato era più incosciente di lui. Del resto viveva nello stesso fango, a pochi metri di distanza, con lo stesso terrore nelle ossa, e magari voleva capire se era così anche per gli altri. Boni era indeciso se continuare la conversazione o cambiare posto.
Poi convenne che, in fondo, con le parole non ci si può sparare.
“Anch’io frequentavo una scuola, poi… poi adesso sono qui a sparare a te perché…”
Si accorse di non saperlo.
Forse doveva stare zitto perché stava per oltrepassare il limite. Era la prima volta che parlava col nemico, finora aveva ascoltato i suoi lamenti, faccia a faccia, solo dopo avergli piantato in corpo la baionetta.
Di là giunse il sollecito: “Perché?”.
“Ecco, sì, perché anche voi mi sparate!”.
All’austriaco questo non importava, era troppo impegnato a raccontare di sé: “Io sono sposato, conosco l’italiano perché abito nelle zone di confine”.
Parlava di confini, quel tizio, ma quali confini?
Quelli che la geografia fissa sulla carta o quelli che la storia sposta con le guerre?
Quel soldato aveva tante cose da dire, e ci stava prendendo gusto.
“Sai, oggi è il mio compleanno, qui non lo sa nessuno, ma sono sicuro che mia moglie ci sta pensando”.
Il tenente decise di continuare la conversazione, ma con cautela.
“Mah,” disse con ironia, “in questa guerra maledetta, il compleanno è il giorno che ricorda da quanto tempo la morte ti cerca e non ti trova”.
Di là, giunse un risolino sordo.
“Ah, questa è filosofia. Non dirmi che devi laurearti anche tu!”
Il tenente annuì a sé stesso. “Già, anche a me manca poco”.
L’austriaco era concitato e rischiava di farsi scoprire. Ormai era chiaro che nella testa era poco più che un ragazzo, talmente incosciente da cercare un po’ di felicità discorrendo col nemico.
“Io mi chiamo Johann, e tu?”.
“Alberto, ma qui, per tutti sono il tenente Boni”.
Per diversi minuti, i due giovani si confidarono le passioni per i divertimenti e la musica, per le letture e per i grandi poeti. Johann confidò persino di avere la moglie gravida e i sogni per il futuro della sua famiglia.
Parlavano e non sapevano perché lo stavano facendo, erano nemici, pronti ad uccidere al prossimo assalto, ma qualcosa in fondo all’anima li spingeva a raccontare di sé.
Boni era quasi incantato dalla spensieratezza dell’austriaco ed era sicuro che, se avesse potuto scorgere i suoi occhi, ne avrebbe visto uscire i sentimenti.
Il caporale d’ispezione gli giunse accanto all’improvviso.
“Che fa, signor tenente, parla da solo?”.
Boni avvertì una vampata di calore al volto, sapeva di rischiare la corte marziale.
Si affrettò ad infilare la mano in tasca e tolse una corona. Cercò di calmarsi.
“No, caporale, sto… sto recitando il rosario. Lei lo sa fare?”
“Sì tenente, a casa pregavo tutte le sere, con la nonna, nella stalla”.
“Bene, allora venga qui con me, recitiamo insieme: Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum…”
Il caporale rispose alle invocazioni e, per qualche istante, avvertì il tepore della stalla, l’alito pesante degli animali, l’odore del fieno umido e la voce delicata della nonna.
La sera dopo il tenente Boni tornò ad accucciarsi sulla pietra incastrata nella parete giù in fondo alla trincea. Tutt’attorno regnava la calma, fissò la luna e restò in ascolto del rombo lontano dei cannoni.
Ssst, Alberto, ci sei?”
Il sussurro dalla trincea nemica era uguale a quello della sera prima, con lo stesso timbro e il medesimo accento. Boni sorrise, una smorfia.
“Sì, Johann, sono qui”.
“Che stai facendo?”
“Sto ascoltando il silenzio. I cannoni sono lontani e qui c’è un po’ di pace. Lo senti, il silenzio?”.
Nella calma più assoluta, i riflessi di luna riposavano quieti sulle lame lucide delle baionette.
Johann rispose con serenità: “sì, lo sento. Se guardo la luna lassù, questo silenzio mi sembra… mistero”.
“Già,” sussurrò il tenente alzando lo sguardo, “oppure preghiera”.
Entrambi pensarono al loro Dio.
“Ti ricordi il silenzio prima dell’attacco?”, Johann parlava con una vena di malinconia, “aspettiamo tutti quell’urlo che ci manda nell’inferno, e intanto pensiamo a casa, alle nostre donne, alle serate in osteria, a mia madre… Di’, lo ricordi quel silenzio?”.
Come poteva, il tenente Boni, scordare quegli attimi? E tutti quei pensieri che poi erano gli stessi dell’austriaco?
“Si, Johann, lo ricordo quel silenzio. Quel silenzio… è paura”.
All’improvviso qualcosa cadde ai suoi piedi. L’ufficiale cercò a tentoni e raccolse un sasso avvolto nella carta e legato ad uno spago. Sciolse il nodo e dispiegò il foglio, poi lo rivolse alla luce della luna.
“Che mi hai tirato, Johann?”
L’austriaco parlò con l’entusiasmo della sera prima: “Ricordi che ieri ti ho parlato della mia famiglia? Be’, quella è la fotografia di mia moglie. Poi però rimettila attorno al sasso, così che riesco a riprenderla con lo spago”.
Boni osservò meglio e gli parve di vedere una figura femminile con il vestito chiaro che spiccava sullo sfondo artefatto.
“La vedi mia moglie, Alberto? Ha la pancia grossa”.
“Sì, vedo. Gran bella signora! Però tu non ci sei sulla fotografia, così non posso sapere che faccia hai”.
Johann non rispose. Forse temeva di essere scoperto da un superiore.
“Hai ragione”, disse all’improvviso, “adesso mi alzo un po’, fuori dalla trincea, così puoi vedere la mia faccia e al prossimo assalto… beh, al prossimo assalto non mi spari”.
Boni si alzò lentamente e scrutò oltre il bordo della trincea, sapeva quanto stava rischiando, ma la curiosità era troppa. A dieci metri di distanza c’era una testa che spuntava dal terreno nemico, alla luce incerta della luna i capelli erano quasi candidi. Fumi biancastri si levavano pigri dal terreno umido e avvolgevano la figura in un alone quasi mistico.
Pareva… sì, pareva una creatura celeste, un angelo biondo dipinto sulla volta a vela di una cattedrale.
Il tenente bisbigliò a quella sagoma: “Sei tu Johann? Johann, sei tu?”.
Lo sparo rimbombò nella trincea e il boato rimbalzò fra le rocce della montagna e fin giù al fondovalle. La testa ondeggiò, disse sì, un sì a rovescio, prima volgendosi all’argento della luna poi al nero della terra.
Boni lo vide bene, vide il piccolo fiore bruno che ornava la fronte un istante prima che avesse a scomparire sotto l’orizzonte della trincea nemica.
“Chi ha sparato?” urlò furibondo, “chi si è permesso di sparare senza il mio ordine!”
Il tenente cercò alla sua destra, lungo il solco della trincea, e vide il giovane cecchino che lo guardava. Sorrideva soddisfatto, non parlava e mostrava i denti bianchi. La sua testa era ancora poggiata sul calcio del fucile infilato nella feritoia della protezione.
Non parlava quel ragazzo, ma il tenente Boni udiva i suoi pensieri, li sentiva urlare e coprire il rombo lontano dei cannoni: “L’ho beccato!”, latravano alla luce della luna, “ho fatto fuori un soldato nemico! Ho salvato la vita a dieci dei nostri compagni, signor tenente!”.
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