Frammenri di ricordi - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Frammenri di ricordi

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Secondo classificato

Frammenti di ricordi

di Loreta Chenetti - Belluno



Il passo è lento e pesante, la schiena gobba e gli occhi fissi a terra sul terreno accidentato. La Celestina sale in silenzio lungo  lo stretto sentiero che porta a Col de Frena a malapena visibile tra gli alberi, sorreggendosi al vecchio bastone di noce reso lucido dai molteplici maneggiamenti. Raggiunto il capitello col Cristo si ferma , tira fuori dalla manica della maglia di lana un fazzoletto a quadretti  da uomo e si asciuga la faccia, le mani sudate. Una soffiata veloce e rumorosa al naso ed il fazzoletto viene nascosto agilmente sotto il polsino, un gesto inconscio e meccanico. Con un'occhiata di traverso al Cristo di legno a cui manca un piede, staccato dal tempo o da una mano blasfema, Celestina si sorprende a pensare che quel Gesù in croce ha proprio lo sguardo stanco, come se fosse stufo di star appeso proprio li, in quel capitello nascosto nel bosco dove da tempo non passa nessuno, perché quello è un bosco "selvarech", selvaggio, ostile.
Un giorno lo sapeva. Sapeva che quello era un bosco di terra povera e secca, di legna cattiva che brucia subito, che sporca il camino e non dà calore. Un bosco che non offre cibo agli animali, dove non crescono funghi o mirtilli o lamponi ed è il regno di piccole vipere verdi nascoste tra le pietraie. Un giorno sapeva tutto questo ma ora la sua mente è frammentata e confusa. Guarda il Cristo dallo sguardo stanco e si segna, un gesto frettoloso che pare un cerchio stretto che sfiora la radice del naso e il largo petto sformato dalle troppe gravidanze mentre le labbra si aprono come per recitare una preghiera, un'avemaria, un paternostro. Ma questa volta le parole conosciute si incastrano tra i denti e in un sussurro riesce solo a mormorare un rauco "Amen!".
La vecchia, una mano rugosa artigliata sulla sommità del bastone e l'altra a sorreggere le reni, raddrizza piano la schiena ed alza lo sguardo cercando frammenti di azzurro aggrappati alle cime degli alberi, studiando la luce del sole.
Resta lì a gambe larghe su quel sentiero abbandonato anche dalle erbacce sfruttando l'ombra offerta dai vecchi pini dai tronchi rugosi e dai rami gravidi di pigne. Una donna molto in negli anni, dalla pelle grinzosa e dalla stretta croccia di capelli bianchi, che indossa un paio di scarponi scalcagnati, grosse calze di lana e il giaccone che era stato di suo marito e che, alla sua morte, non aveva avuto il coraggio di buttare anche se era liso sulle tasche e sui gomiti, talmente consumato che in alcuni punti si poteva intravedere la fodera stracciata. Quella mattina, uscendo di casa, lo aveva indossato rimboccandosi le maniche troppo lunghe.
Con una mano sfiora la giacca che sente pesante sopra la coscia. Da una tasca, estrae un coltello a serramanico. Lo soppesa tra le dita rovinate dal lavoro nei campi e dalla vita. Lo raccoglie nel palmo e le viene in mente l'immagine di un vecchio che tiene tra le mani lo stesso coltello, che lo apre, ne saggia la lama sul polpastrello del pollice con un sorriso che mette in mostra la dentiera sconnessa. Occhi antichi illuminati di gioia, simili a due laghetti limpidi di montagna.
Celestina sa che quegli occhi azzurri sono stati importanti per lei, ma non sa perché. Aggrotta le sopracciglia e stringe le labbra, invasa da un ansia impotente poi, come un lampo nella sua testa ingarbugliata, risente la voce lontana del prete che un giorno, era ieri? le diceva: "Florindo e Celestina, ora siete marito e moglie!"
"Il coltello del Florindo..." - mormora. Sa solo questo e già le basta. Non occorre che ricordi che finché il Florindo è vissuto, quella lama ha tagliato rami per preparare innesti, ha sventrato e spellato conigli e galline, ha reciso fronde di noccioli per intrecciarli in una gerla, ha sbucciato mele selvatiche e pulito i gambi dei funghi. Non ricorda più ma non importa perché la sua mente è già oltre, in un grigiore ovattato di cui talvolta ha un'amara, ma fortunatamente effimera, consapevolezza.
Celestina non sa che dopo il funerale del Florindo si era dispiaciuta di non aver messo il coltello nella bara o magari nella tasca della giacchetta di velluto marrone con cui era stato vestito. Il Florindo ne sarebbe stato felice, sicuramente molto più della cravatta che Francesco, suo genero, aveva insistito per mettergli al collo.
"Una cravatta. Florindo ha usato la cravatta solo da soldato, al matrimonio suo e dei suoi figli ed ai funerali. Che assurdità" - si era detta.
Ma quel giorno aveva lasciato che Francesco gli legasse al collo la larga cravatta verde, pensando che in fondo anche il Florindo, se fosse stato vivo, non l'avrebbe impedito. Con il suo carattere pacifico e remissivo avrebbe accettato qualsiasi pretesa, preferendo la soddisfazione altrui alla propria.
"Però portarsi dietro il suo coltello lo avrebbe reso felice!" - aveva ripetuto quel giorno tra sé e sé, con rammarico. Non le era sembrato strano pensare che il Florindo, da morto, potesse avere emozioni o sentimenti come in vita. Entrambi estremamente credenti non avevano mai creduto che la morte fosse una condizione terminale e definitiva ma sapevano che era solo un passaggio tra  il prima e il dopo, tra  il qui ed un posto dove, se degni, avrebbero potuto vivere in serenità e gioia. Quindi era sicura che sarebbe stato contento di avere il coltello con sé, andandosene.
Lentamente la Celestina si rimette in cammino, facendosi strada tra rovi e piante di ortiche, immune al loro veleno pruriginoso che non riesce a penetrare attraverso la pelle coriacea.
Un passo, un altro passo. Il respiro corto. Gli occhi bassi.
Il sole gioca a nascondino tra i rami degli alberi che frusciano sotto la spinta del vento di montagna. Un vento che anche in agosto è fresco, pizzicante, dispettoso.
Un'altra voce, questa volta di donna, le attraversa la mente. "Copriti che sei sudata e ti prendi la polmonite."
La Celestina si stringe ubbidiente nel giaccone senza riconoscere la voce della madre, come la sentiva quand'era bambina. Gracile e smunta, sempre seria perché a quel tempo non c'era molto da ridere, da bambina era soggetta, più dei suoi fratelli, ad eterne bronchiti, tossi cattive che le scuotevano il petto gracile da novembre a Pasqua, mentre infagottata in scialli infeltriti si aggirava tra le piccole stanze di casa alla ricerca di un effimero calore. La vecchia casa dei suoi genitori aveva larghi muri di sasso e piccole finestre imbrigliate in riquadri di ottone. Le uniche fonti di calore erano la cucina a legna e la stube, costruita in un punto centrale dell'abitazione in maniera da garantire, per quanto possibile, la massima espansione del calore. Le camere da letto fredde, le coperte imbottite pesanti, le lenzuola di lino umide. L'odore dei corpi non lavati che inacidiva l'aria.
La Celestina non ricorda più com'era la casa dei suoi genitori e neanche ricorda la casa costruita dopo il matrimonio con il Florindo su un terreno del padre, pagata con mille economie, mille rinunce, con la vergogna che no! soldi non ce ne sono, questa spesa la faremo un'altra volta, ora non si può. Non sa più quanto si era sentita  "signora" nell'usare il bagno nuovo, la vasca, il bidet. Ma soprattutto il riscaldamento centralizzato che riempiva di caldo ogni stanza, anche i corridoi, anche le camere da letto e non importa se fin da subito lei e il Florindo avevano deciso di usare il riscaldamento il meno possibile, per non consumare troppo gasolio. Meglio la legna che è gratis e ce n'è tanta e non importa se per tagliare, scortecciare, fare a pezzi ed "intassarla" in cataste livellate si spaccavano la schiena e le mani, non importa se anche nella casa nuova le bronchiti l'avevano perseguitata ancora, colpa del calore della cucina in cui il fuoco ardeva tutti i giorni da mattina a sera mentre nelle camere il fiato le si condensava in nuvolette grigie. A quel tempo sapeva che se avesse voluto, se avesse dovuto, le sarebbe bastato girare l'interruttore ed i termosifoni avrebbero iniziato a gorgogliare.
Il sentiero si è perso, cancellato da un fitto sottobosco invadente come i pensieri nella sua mente stanca. La Celestina è confusa, smarrita. Sale da ore ma non ha cognizione del tempo. Non ha consapevolezza né delle distanze né dello spazio che la circonda. La sua testa si inceppa sempre più frequentemente e questo la inquieta anche se non sa dare un nome alla sua angoscia. Si gira e guarda da dov'è arrivata e non capisce perché si trovi lì, tra alberi immensi che la circondano e tentano di afferrarla con i loro rami spinosi. Con uno strattone libera la manica del giaccone che si è impigliata in un rovo, un gesto che la riporta in un "allora" lontano.
Pioveva. Le divise dei soldati tedeschi fumano, rilasciando il calore dei corpi. Lei stringeva forte tra le braccia il piccolo Lino, il suo primogenito e il pianto del bimbo si mescolava al latrare cattivo di un ufficiale che in un italiano stento gridava a lei e alle altre donne di camminare più veloce, schnell, schnell, più veloce. Sua suocera ad un certo punto era caduta, inciampando sul terreno dissestato, ai piedi un paio di "scarpet" fatti in casa. Lei, con il bimbo stretto al petto, aveva cercato di aiutarla a rialzarsi nonostante il colpo di frustino che l'ufficiale le aveva sferrato sulle spalle. Pioveva, e le lacrime di paura e frustrazione si mescolavano alle gocce di pioggia mentre camminavano lungo le strade del paese, le donne ed i bambini raggruppati come pecore, i soldati ai lati, con le spalle coperte di vapore. Vicino alla fontana sua suocera era caduta di nuovo e lei le si era inginocchiata accanto, sostenendola con un braccio. Un soldato l'aveva afferrata per la manica del vestito, forse per sollevarla, forse per allontanarla dalla donna caduta. Lei si era svincolata con uno strattone liberando la manica dell'abito dalle dita rapaci del tedesco. Dita amare come spine di rovo.
Questo ora ricorda della guerra, null'altro. Non ricorda più la paura per il Florindo, lontano, in divisa, sulla frontiera con la Jugoslavia o del freddo patito durante l'inverno perché i vicini  le avevano rubato quel po' di legna che aveva potuto tagliare prima della nascita di Lino né la rabbia quando i partigiani del paese le avevano portato via due forme di formaggio, quasi tutte le galline e due anatre, che le dovevano servire fino alla fine della guerra. A lei avevano rubato la legna ed il cibo, a lei! che di guerra mondiale non se ne intendeva né si interessava di guerra tra poveri e non riusciva a capire perché il vicino di casa volesse la sua legna nonostante le lunghe cataste ammonticchiate sotto il fienile o le sue galline che ora facevano compagnia ad altre, in un altro pollaio vicino. Non ricorda la Celestina e forse è meglio così.
Si siede tra le radici di un vecchio abete coperto di licheni argentati, è stanca ed ha freddo. Il giaccone la ripara dal vento ma sente un gelo che le stringe il petto facendola rabbrividire. Incrocia braccia stringendosi i gomiti, tremando. Mugola a mezza voce una melodia antica e si culla, dondolando lentamente a destra e a sinistra come se ninnasse un bambino. Quanti figli ha stretto tra le braccia la Celestina? Tutti quelli che il buon Dio le ha messo nel grembo. Tanti, ad un certo punto così tanti che una l'ha lasciata per qualche anno da sua sorella, la zitella. Lei ed il Florindo si erano detti: "Che la cresca lei che desidera tanto un bambino ma non si è mai sposata. Che la cresca lei,  che  ha così tanto  e nessuno  con cui condividerlo.  Andrà a star meglio e tanto solo per poco e poi le nostre case sono abbastanza vicine". Chissà se ha sofferto la Celestina le volte che la piccola, piangendo, le gridava che voleva tornare a casa, con la mamma con il papà con tutti, tutti i tanti fratelli. Chissà se ha sofferto la Celestina quando con la faccia dura le rispondeva che no! non poteva tornare a casa, non  ancora,  e  la mandava via. Chissà se ha sofferto quando la piccola,  anni dopo, a  casa non è più voluta tornare.
Sicuramente ha sofferto quando le è morto un  figlio, uno di mezzo, uno già grande, proprietario di un lavoro, un amore e una motocicletta. Maledetta motocicletta.  Ha sofferto di un dolore che non si è mai sopito, che l'ha tenuta sveglia la notte, che non le ha dato tregua peggio di un rimorso, giorno dopo giorno, finché  l'Alzheimer, unica buona azione di questa malattia infame, se l'è portato via assieme alle gioie, assieme ai ricordi, al Florindo, ai nomi dei figli e dei nipoti, assieme alla sua vita che si è sbriciolata come una bussala nel cesto dei funghi.
Il mugolio si fa preghiera. La Celestina ad occhi chiusi prega a fior di labbra, parole antiche che non hanno peso ma rendono leggero il tormento. Le dita sgranano un invisibile rosario ripetendo movimenti confermati quotidianamente per decenni. Sente la voce del Florindo che le risponde come un tempo, la sua voce pacata e sommessa che sr accosta alla sua, si intreccia alla sua. Due voci ed un'unica anima.
Sente altre voci, voci di bimbi che chiamano, che reclamano, che crescono. Rivede volti sorridenti, arrabbiati, perplessi, concentrati, bocche da ripulire, ginocchia sbucciate da disinfettare, compiti da seguire. E insieme, tutti insieme il fieno da tagliare, le galline da accudire, le mucche, i conigli e gli orti, il maiale che a dicembre diventa salame e cotechini e il bosco che d'estate si riempie di funghi e d'inverno di neve. La sua vita che corre, è già arrivata la notte.
Il mento di Celestina è appoggiato sul petto, il respiro sfugge tra i denti.
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