Fragile forza - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Fragile forza

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XIX EDIZIONE - Arcade, 6 gennaio 2014
Terzo classificato

Fragile forza

di Barbara Canneti - Corlo (FE)



La strada, perso l’asfalto, si gettava in un sentiero sterrato che sembrava puntare dritto al cielo. Più la fissava e più l’idea di continuare a piedi gli pareva una follia, eppure si mise ugualmente in marcia. Mezz’ora dopo era esausto, solo le capre si inerpicano così in alto, si disse, superando un tratto in cui la mulattiera, aggredita dai rovi, era quasi irriconoscibile. La fatica gli piombava le gambe, non era abituato a camminare così a lungo e per di più in salita, aveva il fiatone, ogni dieci passi il palmo delle mani si allargava in cerca dell’appoggio delle ginocchia, e la schiena si piegava per assumere la posa tipica di chi tenta di espandere i polmoni. Nonostante faticasse a respirare, si accese una sigaretta. Il bosco alla sua destra ondeggiò, sotto una sferzata di vento. Succede così in montagna, gli aveva scritto l’amico, quando meno te lo aspetti il sole diventa acquazzone e le nuvole si caricano di neve. Qualcosa di molto simile stava succedendo a lui, una tormenta tanto invisibile quanto tenace stordiva i suoi pensieri, rendendoli incandescenti come lava; si era messo in viaggio nella speranza di riuscire a capire meglio i propri stati d’animo, ma lì, di fronte ai cambi d’umore della natura, cominciava a dubitare della propria scelta. “Devo sforzarmi, superare le mie paure...” si disse, ricordando i suggerimenti dell’analista. Ogni volta che aveva confrontato la sua vita con quella dell’amico si era sentito meglio, se si era arrampicato fin lassù era per incontrare lui, non certo per ammirare il panorama. Max viveva come un eremita, segno che non era riuscito a integrarsi come sosteneva nei suoi messaggi. Riprese a camminare, il baricentro spostato in avanti alla ricerca del giusto equilibrio. Punta. Tacco. Punta. Sembrava facile, un movimento appreso nella notte dei tempi, meccanico, sempre uguale a se stesso, naturale proprio perché istintivo... ma se era così per quale motivo continuava a inciampare?“
Sono ubriaco d’aria. Non sono una pianta, non mi basta tendere al sole per rinverdire... che ci faccio io qui?” si chiese, a un certo punto, sprofondando nello sconforto.
Colla mente piena del proprio malessere, non s’accorgeva del canto dei cuculi, del placido ronzio delle api sui fiori, del campanile di una chiesetta che da qualche parte in valle batteva le ore, dipingendo di sacralità un pezzetto di cielo. Finalmente lo vide, tagliava il fieno su un prato a ridosso di una macchia di castagni, con un movimento di fianchi ritmato, forse non troppo elegante ma utile per ridurre al minimo lo sforzo, un movimento solo in apparenza simile a quello di chi si appresta a colpire una pallina su un campo da golf. Gli diede la voce con tutto il fiato che gli era rimasto e attese. Attirato dal richiamo, Massimo si schermò gli occhi con una mano, strizzò le palpebre nel tentativo di mettere a fuoco la sagoma che si sbracciava a salutarlo, la stessa che la ferocia del sole rischiava di trasformare in un miraggio. Non appena lo riconobbe, gli corse incontro, complice il vento che, soffiandogli sulla schiena, rendeva ancora più enfatico il suo slancio. Nel sentire le mani callose dell'amico chiudersi a riccio sulle sue spalle, Luca stranamente si irrigidì. Desiderava lasciarsi andare, ma era più forte di lui, proprio non ci riusciva.
“Sei venuto, finalmente” si limitò a dire Max, fingendo di non essersi accorto della sua reazione.
"Il dottore mi ha consigliato di fare una pausa... e così eccomi qui.”
"Sei malato?"
"Soffro di attacchi di panico."
La prima volta gli era successo dopo una rissa tra detenuti. Assieme alle altre guardie aveva sedato la protesta con fermezza, salvo poi ritrovarsi a redigere il rapporto grondando dolore e sudore. Nonostante si conoscessero da sempre, per riuscire a mantenere la voce ferma mentre raccontava la sua esperienza, Luca era costretto a mettere in atto le tecniche che gli erano state insegnate dal dottor Spazi, lo specialista a cui la direzione del carcere lo aveva costretto a rivolgersi. Fissava perciò un punto lontano, dietro le spalle di Massimo, come se fossero al telefono e non così vicini, l’uno di fronte all’altro. "Quel posto faceva lo stesso effetto anche a me" lo rincuorò l’amico, cercando di intercettarne lo sguardo assente.
"Credo sia diverso. Io là ci lavoro, sono un uomo libero.”
“Non parlavo di quando mi hanno sbattuto dentro per furto, bensì di quando eravamo bambini. Ricordi? Già allora disegnavo montagne che non avevo mai visto, costoni baciati dal sole, picchi incoronati da aureole di nuvole. Avevo fame d’aria.”
A Luca non era mai venuto in mente che la sua fobia potesse avere origini così lontane nel tempo, quel tempo che aveva cercato con tutte le sue forze di dimenticare. Entrambi figli di donne carcerate, avevano condiviso in tenerissima età l’esperienza della detenzione infantile. Divisi dalle rispettive madri a soli tre anni, essendo stati affidati allo stesso istituto, avevano continuato a scambiarsi idee e sogni, fino al giorno in cui Massimo, appena sedicenne, non aveva deciso di fuggire.
“Riesci a capire perché sono venuto a vivere qui?” lo incalzò Max, invitandolo a entrare nel centro di recupero rapaci. Non ottenendo risposta, davanti a una enorme gabbia in cui sonnecchiava un nibbio, riprese a parlare “La gente pensa che questi uccelli siano pericolosi, in realtà sono più fragili di quanto non possa sembrare. Anch’io ero così, un pulcino caduto dal nido, costretto a tirare fuori gli artigli per sopravvivere. Quando sono scappato dall’istituto, per riuscire a sfamarmi ho dovuto rovistare nell’immondizia. Proprio come questo volatile, avevo bisogno di una gabbia per curarmi le ferite. Per capire la differenza che passa tra un rifugio e un nido. La rabbia che mi portavo dentro, si era trasformata in spirito di autodistruzione. Non c’era limite, si scagliava su tutto ciò che incontrava. Poi ho visto te, la tua uniforme, e ho capito che esistevano anche altre possibilità, stava a me trovarle. Tu allora mi hai aiutato a cambiare, ricordi?”
Certo che rammentava.
“Cosa ti è successo, Max?” gli aveva domandato, il giorno in cui aveva riconosciuto nei lineamenti dell’uomo che occupava la cella numero settantasette, l’amico d’infanzia.
Massimo però, chiuso com’era nella sua corazza, non gli aveva risposto. In seguito, per evitare di ferirlo, non era più tornato sull’argomento. Mai avrebbe però immaginato che un giorno i loro ruoli si sarebbero invertiti: non sapeva né come, né quando, né per quale motivo fosse successo, ma adesso era lui ad annaspare sul fondo di un pozzo di sofferenza così profondo da non riuscire a venirne fuori senza l’aiuto di qualcuno. E chi, si era detto, meglio di colui che aveva già compiuto un percorso simile, avrebbe potuto tendergli la mano? Durante la prigionia, Massimo gli aveva dimostrato che fidarsi era difficile, ma non impossibile. Quando, infatti, intuendo la sua voglia di cambiamento lo aveva incoraggiato a chiedere il permesso di lavorare nell’orto del penitenziario, lui aveva seguito il suo consiglio. Più che seminare e prendersi cura delle piantine, ad aiutarlo era però stata una gazza caduta dal nido dopo un temporale. Per tre lunghe settimane l’aveva tenuta al caldo, sorvegliandola e nutrendola giorno e notte, non per addomesticarla come aveva visto fare da altri detenuti, bensì per permetterle di tornare in libertà. A fine pena, grazie anche a uno stage, quella che all’inizio era sembrata a tutti solo una passione passeggera, si era trasformata in una vera e propria filosofia di vita. Adesso lavorava presso un centro recupero rapaci. Per mantenere in vita i pulcini caduti dai nidi, li teneva al caldo, controllandoli e nutrendoli ogni tre ore. Non lo infastidiva la mancanza di sonno e nemmeno la solitudine. Per mettere gli animali selvatici nelle condizioni di poter tornare al proprio habitat era infatti fondamentale ridurre il più possibile i contatti con l’uomo, per questo il rifugio era stato costruito in una zona isolata, lontano dai paesi e dalle principali vie di comunicazione. In pochi sarebbero stati disposti a rinunciare alle comodità per arrampicarsi fin lassù, dove non c’era altra voce da ascoltare se non quella della natura. Dove il perno su cui giravano le giornate erano le necessità degli animali più deboli, in particolare quelli che uomini senza scrupoli, fregandosene delle leggi e del rischio di estinzione, prendevano sistematicamente di mira.
“Anche tu sei una guardia, adesso” balbettò Luca, abbozzando un sorriso.
“Io mi considero più un infermiere. Qui gli animali si riposano, vedono il cielo dal fondo di una gabbia, ma si tratta di un male indispensabile, il più delle volte passeggero. Nel giro di qualche settimana, non appena recuperano le energie, li rimetto in libertà... vedessi come fanno presto a ritrovare la loro natura! Il carcere della mia infanzia, invece, mi è entrato dentro e lì e rimasto come una cancrena. È una tagliola sempre pronta a scattare. Ero solo un bambino, non avevo ferite mie da curare, sono state le circostanze ad aprire le mie prime voragini.” “Adesso però sei felice. Stai bene... la detenzione qualcosa di buono deve pur averlo fatto.”
“Ovunque andrò, qualunque cosa farò, porterò con me il senso di abbandono provato quando siamo dovuti uscire di cella. Sai cosa mi ha spinto a fuggire dall’istituto? La paura di affezionarmi a qualcuno che avrei potuto perdere da un momento all’altro.”
“Ti guardavo ma non sapevo come aiutarti, più tu affondavi nella tristezza e più io mi sentivo impotente.”
“Hai fatto tanto, credimi” lo consolò Max, riprendendo a vangare i campi della loro infanzia “Ricordi quando le nostre madri ci facevano giocare agli indiani, la cella era la nostra riserva, chi usciva dal perimetro sarebbe stato messo in punizione…”
“Cos’è per te la libertà?” “Perché me lo chiedi?” “Perché credo di averla persa e non so come ritrovarla. Ho un lavoro, la sera torno a casa dalla mia famiglia, dovrei essere felice, e invece il mio mondo sta cadendo a pezzi. Guardo la vita andare avanti senza di me, e quel che vedo non mi piace affatto. Lo ammetto, anche a me manca l'aria…”
Un pianto a lungo represso gli invase la gola: arrivò all’improvviso come un acquazzone di montagna, per poi dileguarsi come l’ombra dell’aquila reale che aveva scelto quel momento per attraversare il prato. Gli occhi di Luca sembravano due nuvole, avevano bisogno di scaricarsi delle proprie tempeste per tornare ad attraversare il cielo, un po’ più placide e leggere di prima.
“Forse dovrei seguire il tuo esempio, quassù tutto è così sereno...”
“Vieni, andiamo a fare due passi” lo invitò Max.
Non appena il terreno diventò più brullo e sassoso, Massimo riprese a parlare: “Alza lo sguardo da terra, lo vedi che anche qui ci sono mille ferite? Laggiù c'è un calanco, alla tua destra un albero caduto sotto il peso della neve, a pochi chilometri da qui sono ancora visibili i segni lasciati dalla guerra, d’inverno i venti sono così taglienti da arrivare ad aprire crepe nella roccia, perfino il sasso su cui ti sei seduto poco fa non è rimasto indenne dalle burrasche. Eppure anche quando le asperità della pietra sono gli unici sentieri perseguibili, se si ha la volontà di andare avanti, se si cercano le cose giuste, si arriva al cuore. ” Nonostante il silenzio, sapeva di aver attirato l’attenzione di Luca, per questo continuò: “La montagna soffre da più tempo di noi, i vacanzieri della domenica vedono solo il divertimento, ma in realtà per vivere qui è necessario attrezzarsi, imparare a respirare a fondo, immaginare i pericoli che potrebbero celarsi dietro a ciascuna roccia, sopravvivere alle bufere, piangere e non vergognarsi mai delle sconfitte... proprio come in carcere”.
A tratti i sentieri li portavano dentro le nuvole, eppure Luca non aveva paura. Pur essendo desti, i suoi sensi non gli mandavano segnali di allarme. Non sentiva più nemmeno la stanchezza. Più si saliva e più gli sembrava di essere leggero, segno che stava abbandonando lungo il sentiero una pesante zavorra. Ora riusciva a udire, oltre al tintinnio delle pietraie smosse dai passi, il gracchiare di un corvo imperiale. E quando i prati lasciarono il posto alle rocce, capì di trovarsi nel regno dei falchi e delle aquile. Nudo era il sasso senza l’erba, nudo ora si sentiva lui stesso, di fronte alla sua anima. A mani nude aveva scalato il pendio, colle ginocchia nude aveva cercato un punto d’appoggio nei tratti più ripidi. Nuda era la vetta e nudo il cielo che la soprastava.
“Guarda! Una farfalla di roccia!” gridò Massimo, puntando il dito.
“Dove? Io vedo solo un uccellino colorato.”
“È un picchio muraiolo, chiamato anche farfalla di roccia per il colore delle sue ali. Si aggrappa ai sassi per strappare il nutrimento. Proprio come fanno i carpini...”
“Come abbiamo sempre fatto anche noi da piccoli” aggiunse Luca, emozionato. Mancava poco per arrivare in vetta. Dalla cima, i due amici guardarono in valle, provando la vertigine dello strapiombo. Avevano mezza faccia al sole, l’altra metà ancora in ombra, eppure Luca ora riusciva a vedere le tante frontiere che aveva creato chiudendo gli occhi, e perfino le miriadi di ponti che aveva dovuto attraversare per arrivare fin lassù.
“Si sta facendo sera. Dobbiamo tornare al rifugio” lo esortò Massimo. “Vai avanti, ti vengo dietro...”
Comprendendo l’importanza di quel momento, il montanaro si allontanò di qualche passo. Rimasto solo, Luca estrasse un taccuino. Era pronto a trasformare le emozioni in poesia.

In una fessura che sussurra vento ma non ripara sole,
in un intaglio di roccia su cui non svetta rocca
solo una farfalla di roccia si posa,
di volo e d’artigli se ne resta sospesa
nelle difficili pieghe della vita,
là dove solo le stelle alpine osano ridere
appoggiate a due granelli di terra
che sporcano appena il sasso.
A questo devo pensare quando sto male,
mi ci aggrapperò per non mollare
per credere ancora,
per ripetere alla voce dell’eco
che anche una giornata ferita
alla fragilità consacrata
può trovare un anfratto
in cui respira, discreta, una speranza.
Qui mi confondo con quello che, in fondo,
da sempre mi appartiene e diventa forza
perché anche un refolo di vento
dalla mano incerta, col tempo,
può dipingere nuovi panorami
e smussare gli spigoli all’ossidiana...
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