Come l'America - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Come l'America

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

X EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2005
Segnalato

Come l'America

di Donatella Tenderini Inastasi - Sant'Elena Vengli (VE)



Il passo lento e uguale della montagna, il senso atavico del tempo che scorre, per tutti con la stessa cadenza, senza privilegi, senza soprusi; il ritmo dell'esistenza che si misura su quel passo, che matura nelle cose di sempre, che alimenta, nel monotono ma fiducioso andare, la sua stessa forza.
Ilario era uomo di montagna. Ilario era come la sua terra, anche quando ne varcava i confini per quella sua vita parallela che lo costringeva lontano, in una separazione che diveniva quasi una continuità E quell'altra, era terra d'acqua, acqua di mare, verdastra d'alghe eppure, come quella trasparente dei suoi torrenti e dei piccoli laghi incastonati nel monte, a dispetto di tutto, sorgiva.
Le due acque si fondevano in lui che, uomo fedele e di robusti principi, cadeva in preda, comunque e sempre, ad una nostalgia senza radici.
La prima volta era accaduto che era ancora bambino. Quasi sospingendolo, lieve ma decisa, la porta si era chiusa sulle sue spalle curve, restie a lasciarsi espellere, come un ospite indesiderato, dalla propria casa. Stretto dentro alla giacca di fustagno, Ilario sentiva il buio premergli sul corpo, sulle gambe incerte, sul torace magro, sugli occhi semichiusi, sulla sua stessa paura. Davanti, una sagoma scura e imponente: la sua guida fino a Venezia.
L'odore fresco dell'alba, l'alito inconfondibile delle zolle che si risvegliano lo avevano accompagnato per un tratto di strada. Poi, dopo la curva di Piazzo, i tetti d'ardesia erano scomparsi alla vista ed era stato come l' America.
Dell'America aveva sentito sussurrare; era molto più lontana della città sull'acqua dove emigravano gli uomini del suo paese. Andavano a Venezia a fare i fabbri e gli arrotini, a costruire lame, cancelli, ferri da gondola. Portavano i propri figli e i nipoti a imparare il mestiere in bottega, a lavorare sodo, a dormire su pavimenti di terra battuta, a indurire le mani ancora piccole e fragili al calore rovente del metallo infuocato.
L'America invece era un sogno, una fiaba, una poesia.
Sua madre lo aveva salutato senza una lacrima: era così la sua gente, col cuore gonfio e il coraggio dei forti. Venezia o l’America, per lei non c'era differenza: erano entrambe al di fuori del tempo e del suo spazio.
Sua madre pregava: nel canto e nella preghiera attingeva , come acqua dal pozzo, consolazione e speranza.
E il canto, quello che risuonava nella valle quando era festa e tutti si univano in coro attorno alla croce sul monte, gli faceva compagnia nelle sere fredde d'inverno, in bottega. Lo rievocava come fosse vero, nei toni di voce struggenti che scendevano armoniosi fino in paese.
Trascorsi sei mesi sarebbe tornato a casa. Ma non per sempre. Dopo il battesimo del fuoco, sarebbe stato sempre così: sei mesi, un anno, forse due. Poi di nuovo il respiro dei monti, a ritrovare la famiglia, a fare un figlio che non si sarebbe visto nascere ma si sarebbe ritrovato già grande.
E le lettere, rare e scarne, portate a mano e scritte dai pochi che ne erano capaci, per dire che si sta bene e che si tornerà, per chiedere delle bestie, del campo, della mamma, dei bambini.
Ilario aveva soffocato il pianto, nascosto i sentimenti, piegato la sua volontà.
Ne era uscito con la corazza del suo popolo, fatto di poche anime tenacemente avvinte agli alpeggi, ai dirupi scoscesi, alle case di roccia, ai ritagli di orti improbabili, alle gelate dell'inverno, alle fioriture primaverili che stupiscono lo sguardo e l'anima.
Col tempo, le mani avevano smesso il tremito leggero che le scuoteva nell'aggredire arnesi e ferro incandescente, le orecchie scambiavano per musica il suono metallico del martello che si abbatteva sull'incudine.
La fucina era come la sua casa e Ilario era diventato bravo, più bravo di quanto lui stesso si potesse aspettare.
Lì ormai riconosceva la sua America, il suo sogno, la sua fiaba, la sua poesia.
Era tornato al paese per sposare Valeria.
Cresciuto a una scuola che della fatica fa virtù, spartano in ogni sua abitudine, non aveva saputo trovare parole tenere per la donna che aveva scelto. Ma lì, sul sagrato della Chiesa, dopo che il prete li aveva benedetti, le aveva fatto una promessa: una vita diversa da quella che da secoli vedeva gli uomini andare e le donne restare, i figli crescere senza padre, i padri coltivare un'eterna, sottile nostalgia e dei figli e della moglie e della terra.
Se l'era portata a Venezia, la sua sposa ma aveva lasciato, al limitare del paese, su verso il Sant'Antonio, le stanze pronte e il focolare in attesa di un ritorno forse lontano ma definitivo.
Gli strumenti che costruiva dovevano essere perfetti.
Ilario lo sapeva.
Sapeva che in sala operatoria un bisturi non poteva tradire, una forbice doveva salvare una vita.
Ilario era orgoglioso, perché gli sembrava, lui uomo così modesto e schivo, di contribuire un poco a far guarire un pezzettino dell'umanità.
E prendeva sul serio ogni particolare, ogni minimo accorgimento.
Sarebbe stato così anche se il destino gli avesse riservato un lavoro diverso, perché era così che la sua gente intendeva le cose della vita.
I chirurghi andavano alla bottega, a complimentarsi.
Lui non abbassava gli occhi ma si schermiva e spingeva lo sguardo schietto oltre la stretta finestra con le inferriate, oltre il canale scuro. Sentiva il grido modulato del gondoliere e capiva di aver imparato ad amare questa strana città legata a doppio filo con quel grumo di case in bilico sul monte, lenta e uguale come il suo passo sul sentiero.
E se Valeria ormai cucinava il pesce in tutti modi possibili, Ilario non scordava i sapori lontani della "measce" o della "mascarpe rostide" ed era solito dire che comunque qualcosa in comune, oltre alla voce dell'acqua, ce l'avevano le sue due patrie: la polenta.
Ilario era stato partigiano. In quella manciata di mesi dolorosi e violenti, vissuti clandestinamente tra i boschi e le cascine della sua montagna, aveva conosciuto Valeria; agile e silenziosa, percorreva sentieri più impervi per raggiungere gli uomini nascosti lontano dal paese e persino dai "looch" e consegnare cibo, notizie, speranze.
A guerra finita, tornando a Venezia, Ilario aveva faticato a staccarsi dalla dolcezza delle sere sull'alpe e dall'ombra che calava sulla fragile resistenza che la sua donna tentava di opporre alla sua corte.
Andarsene era stato come spaccarsi in due.
Gli anni non erano più gli stessi ma la sensazione straziante di allora si ripresentava mentre abbassava per l'ultima volta la saracinesca di bottega. Come in quel lontano passato, si era concesso un velo appena di commozione e aveva chiuso dentro di sé mille ricordi.
AI suo paese il buio viene presto e l'alba è carica di energia, il fiume a valle mormora come una nenia che scandisce le ore della fatica e culla quelle del riposo.
Al suo paese ci si raduna attorno al focolare o nella stalla a raccontare storie e segreti.
Aveva lasciato i figli a Venezia e le tracce del suo passaggio ma il cerchio doveva chiudersi e Ilario manteneva il suo impegno perché la sua era una terra cui non si può negare il ritorno.
Appesa a un chiodo, dentro una cornice dorata, la sua fotografia.
Bell'uomo, con tanto di baffoni impomatati.
Al suo fianco una donnina tutta minuzia, che non sembra accusare i segni di un percorso tutto in salita e dei suoi cinque parti.
Due volti aperti, sgombri dalle ansie e dalle inquietudini che nel vivere di oggi ci assillano, una serenità semplice di cui siamo stati, complici noi stessi, malamente derubati.
Nonno Ilario l’aveva riportata a casa la sua donna, a perdersi tra i castagni, a fatica ancora una volta con la falce tra l’erba, a raccogliere la ginestra per l’altare.
Adesso, la casa di pietra al limitare del paese è di nuovo silenziosa, visitata solo dalle loro ombre restie a permetterne la profanazione del progresso. La scala di sasso, le assi sconnesse del pavimento di cucina, la ciotola lustra che odora ancora di burro, il caminetto con su un’immagine sfocata di Venezia ai primi del Novecento raccontano una storia, la loro, la mia; delle mie estati bambine, di fontane che gorgogliano, di crepuscoli lievi, di fantasie e di corse spensierate, di persone che hanno perduto voce e consistenza fisica ma vivono nella mia memoria.
Adesso sono io l’emigrante, cui spetta il compito ingrato di infrangere una leggenda persa nel tempo, di sciogliere e rinnovare un esilio che non è più sogno, fiaba, poesia; sono io, nel dualismo di queste patrie che si perpetua, a portarmi dentro la nostalgia senza radici del nonno e a dover decidere di segnare il limite tra il vecchio e il nuovo.
Nell’abbraccio ideale in cui avvolgo ogni oggetto, ogni scricchiolio, ogni sussurro di questa casa c’è la spinta al futuro. Ma non ripagherò col deserto e l’abbandono il luogo delle origine e dell’infanzia. Non lo ha fatto la sua gente caparbia che ha vinto la scommessa e oggi non ha più bisogno, per sopravvivere, di scendere al mare a forgiare il ferro.
Le distanze di ieri si annullano, si attenua il dolore del distacco e la nostalgia si fa meno profonda nella corsa veloce sull’autostrada o nel volo di un aereo che già non sa più di miracolo.
Il futuro si impone col suo carico di bene e di male ma non deve distruggere il passato, deve fondersi in esso, assorbirlo, modellarlo, valorizzarlo.
Come il nonno, sono spaccata in due mentre abbasso "la mia saracinesca"; cercherò di farlo piano, con un velo appena di commozione; non sarà facile ma camminerò in punta di piedi e per l'impossibile farò in modo, come per lui, che bastino i ricordi.
Fingo di avere la sua stessa forza e lentamente, mentre le loro ombre si allontanano, stacco dal chiodo la cornice dorata con dentro la sua fotografia.
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