Cinque metri di tempo - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Cinque metri di tempo

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XXIV EDIZIONE - Milano, 12 Gennaio 2019
Segnalato

Cinque metri di tempo

di Luca Notarianni - Itri (LT)



Cinque metri. Cinque metri separavano Samuele dalla sua compagna di viaggio, la “gregaria”, così la chiamava. Questo perché la sua più grande caratteristica era un instancabile volontà, oltre a una resistenza fisica frutto del lavoro attento di madre natura, più che di qualche talento coltivato durante la sua vita. La gregaria portava borracce, cambio e cibo su uno zaino pensante, ma giusto per le sue spalle robuste. Era sempre dietro Samuele, non per una questione di sessismo, in montagna certi ragionamenti non ci arrivano, piuttosto per una questione di ruoli che in alta quota fanno la differenza. Samuele si muoveva agile con l’attrezzatura e alle sue spalle aveva bisogno di qualcuno che puntuale fosse lì a fare quello che lui diceva. Non era indispensabile la sveltezza di pensiero, piuttosto quella di azione. In montagna un cervello rapido serviva a poco se la mano non lo seguiva con la stessa prontezza. La gregaria portava il sostegno, Samuele apriva la strada, in una sorta di archetipo uomo-donna che sopra una certa quota trovava ancora modo di esistere, e di completarsi con rispetto, stima ed estrema fiducia.
Nonostante questo legame affiatato, restavano cinque metri a separarli. Una distanza che spesso è poca cosa, neanche il secondo piano di un palazzo. Cambiando prospettiva però, anche le distanze più insignificanti si trasformano in oceani, in chilometri che rischiano di farti perdere l’orientamento. Potersi guardare negli occhi a pochi centimetri è rassicurante, si capisce facilmente cosa vuole l’altro e trasmettiamo con sicurezza le nostre intenzioni. Quando tra questo gioco di sguardi viene messa una distanza, però, diventa tutto più complesso. Iniziamo ad ascoltare i nostri pensieri, a volte tremendi, senza poterli gettare addosso all’altro. Conoscersi, troppo spesso, coincide con lo scambiarsi i pesi delle proprie vite e in montagna è scomodo appesantirsi troppo. Il compagno che è li su con te diventa qualcuno con cui alleggerire il proprio bagaglio e cinque metri, in questa dinamica nascosta, diventano una distanza sufficiente a fare i conti con i propri mostri. Non sono neanche due piani  ma possono rappresentare sia una mano che unisce, sia un vuoto che isola. Le distanze, a volte, spingono ad incontrarsi.
Samuele, a tutto questo, non stava facendo caso. L’unico suo pensiero era la mano destra tumefatta in seguito alla caduta di alcuni massi. Uno di questi lo aveva preso in pieno rompendogli con molta probabilità il prezioso arto. Si era istintivamente accasciato dimostrando alla montagna di aver recepito il messaggio. Aveva alzato le mani in segno di resa. Cinque metri a sinistra, immobile come lui, la sua gregaria.
«Bella situazione questa».
Samuele iniziò a fasciarsi stretto la mano. Non serviva a molto ma il dolore per qualche minuto si sarebbe attenuato. I due si guardavano come degli innamorati desiderosi di abbracciarsi ma spaventati da ciò che li circonda, come se si sentissero osservati.
«Che poi ti ho portato io qua» disse Samuele con la voce roca. Nel frattempo cercava una posizione comoda sullo sperone di roccia che faceva da sentiero. Era una strada tutto sommato semplice che voleva fare con la sua gregaria per farla diventare più esperta. Una sorta di praticantato superato il quale avrebbero potuto affrontare scalate più difficili. Messa così non era né più né meno che una quotidiana attività di condivisione. Purtroppo le buone intenzioni si fermano a valle e hanno gambe troppo fragili per arrivare su in cima.
A volte sono i sentieri più semplici a nascondere insidie e pericoli. Una frase fatta, banale, già sentita. Una frase vera e diretta, com’è la montagna nel suo non voler scherzare e perdersi in retoriche e metafore che preferisce lasciare ad altre situazioni. Un sentiero semplice che con buona attenzione anche un bambino avrebbe potuto percorrere accompagnato da un occhio esperto. Per quanto possa essere facile un tracciato nessuno può prevedere una caduta di rocce. Un imprevisto è sempre presente lungo la strada della tranquillità. A Samuele fu abbastanza chiaro tutto questo, mentre osservava la sua gregaria cinque metri più in là.
«Che fai, hai paura?» le disse. Nessuna risposta.
«Accelera il passo altrimenti arriviamo domani» fu questa l’ultima frase che l’uomo aveva detto prima del rumore che portò entrambi ad alzare il mento verso l’alto. Un rumore sordo e sinistro, poco piacevole, ma così naturale nella sua armonia. Spesso non si presta attenzione a ciò che si sente ma in montagna ogni suono ha una cadenza netta e precisa. Ogni vibrazione produce un immagine che rappresenta esattamente quello che sta accadendo. Il margine di errore è bassissimo. Infinitesimale. La montagna suona uno spartito che lascia poco spazio alla fantasia, riecheggia tra le pareti una musica fedele alla realtà che l’abita. Samuele riconobbe subito che quei rumori densi stavano a significare massi e pietre che cadevano, un roteare armonico attraverso il quale parti della roccia stuzzicavano la parete, come a lasciare un ultimo messaggio prima della caduta. Apparivano come lancette che segnavano la fine di una parte, anche se insignificante, di quella montagna. Il canto del cigno di minerali che andavano a schiantarsi a valle per l’ultima volta. L’agilità dell’uomo servì soltanto a scansare le pietre più grandi, quelle minacciose e mortali, senza riuscire a fare nulla verso i sassi che piovevano come una pioggia improvvisa e incalcolabile. Era stato un caso che la sua mano venisse colpita rompendosi. Le coincidenze, però, non esistono e quell’apparente aggressione della montagna mascherava sicuramente un messaggio che Samuele e la sua gregaria si accingevano a cogliere. Una sorta di invito brusco e feroce a riflettere su loro stessi.
«Poteva andare peggio» pronunciò ad alta voce Samuele.
I due erano separati dalle rocce che avevano ostruito il sentiero che stavano percorrendo; per la donna passare oltre, per raggiungere Samuele, sarebbe stato pericoloso data la sua poca esperienza; per l’uomo un problema, viste le condizioni della sua mano. Potevano soltanto ingannare il tempo in attesa che l’ossigeno producesse qualche idea funzionale alla causa, o che il distrarsi servisse ad attenuare il dolore della frattura, concedendo all’arto qualche secondo di presa sulla parete.
«Guarda lì», Samuele indicò la montagna che si stagliava davanti a loro, una montagna dalle spalle larghe che terminava con un cappello a punta: l’Adamello.
«Lo sai che lì hanno trovato il cadavere di uno che combatteva la prima guerra mondiale» Samuele fissava la sommità della montagna, la mente era altrove, le parole, invece, cercavano di intrattenere la gregaria che, se pur paziente, iniziava a sentire i brividi dell’agitazione.
«Tu ci pensi?» proseguì Samuele mentre si teneva la mano ferita «su quella montagna, quasi cent’ anni fa, un uomo come me combatteva contro gli austriaci, si svegliava e guardava i paesaggi che stiamo guardando noi ora. Mangiava qui su. Leggeva per tenersi impegnata la mente».
Samuele si voltò per un attimo verso la sua gregaria che, come un bambino seduto davanti al caminetto, ascoltava quelle parole immaginando una storia, un volto, un corpo che saliva e scendeva ogni giorno da quelle pareti con la paura della morte che lo rincorreva.
«Sicuramente pregava, dopo aver bestemmiato per il freddo e il dolore. Lo hanno trovato dopo cent’anni. La sua famiglia si sarà dovuta accontentare di piangere un fantasma e chissà cosa avrà pensato lui mentre si spegneva. Un pensiero ai figli, alla moglie. A prescindere, i suoi occhi, prima di chiudersi, hanno guardato queste montagne» proseguì l’uomo.
Si alzò uno strano vento che portò entrambi a guardarsi intorno.
«Un giorno piacerebbe anche a me andarmene così, con queste montagne come ultimo frammento d’immagine» aggiunse Samuele «io lo avrei lasciato qui quel corpo, ormai faceva parte anche lui di questi monti, gli aveva difesi, rispettati e loro, per contraccambiare, gli avevano donato una tomba immortale».
La gregaria si asciugò una lacrima che le stava scendendo un po’ per il vento freddo, un po’ per quella storia che la riscaldava.
Il vento si fece più forte, come se le montagne, udendo quelle parole, volessero dire la loro a sul racconto del soldato italiano. Sembrava volesse puntualizzare il discorso, aggiungendo aneddoti. In montagna tutto si trasforma in memoria e il vento è il narratore.
«Sai cosa mi piace dello stare qui su?» disse Samuele. La gregaria fece un segno invitandolo a cotinuare.
«Il tempo».
Samuele restò in silenzio qualche minuto lasciando all’orecchio la liberà assoluta di catturare i suoni che preferiva.
«In montagna il tempo scorre con un ritmo diverso dal normale. L’aria che accarezza le vette, la nebbia improvvisa che ti sorprende con la sua densità, il ticchettio della pioggia quando cade dolce. Tutto questo scandisce un tempo prezioso che non ha nulla a che fare con quello che viviamo a valle. Qui il tempo segue il suo corso, inafferrabile, inconquistabile. Un eterno oscillare di immobilità mai uguale a se stessa. Come gli astronauti, mentre cercano di conquistare lo spazio, che una volta tornati si accorgono che per loro il tempo è trascorso più lento; così noi, che cerchiamo la conquista del cielo, una volta scesi a valle torniamo più giovani di qualche giorno. È il regalo che ci lascia la montagna per ringraziarci di averci provato. In fondo la vita di tutti non è altro che questo, un continuo tentativo di conquistarci il nostro pezzo di cielo, attraverso le nostre mani».
Samuele guardò i suoi arti, anche quello tumefatto. Quello spiacevole imprevisto, come spesso accade, si stava rivelando un buon espediente per prendere coscienza di se stessi. I due, stavolta in silenzio, continuarono a godersi il paesaggio per qualche altro minuto. Immobili e silenziosi come le montagne che li circondavano.
Samuele decise che era giunto il momento di agire. La mano, per via del freddo e della fasciatura perfetta, gli faceva meno male. Con un sforzo si aggrappò alla parete e si spinse sopra i sassi. Dall’altra parte, facendosi coraggio, la gregaria si alzò in piedi anche lei sui massi caduti, nonostante la poca esperienza. Con una mano, allungata al momento giusto, bloccò la schiena di Samuele che, appoggiandosi con la mano rotta, si era notevolmente sbilanciato, rischiando di precipitare. Gli aveva salvato la vita, forse. Una di quelle che scene da raccontare, anche se nessuno dei due aveva avuto la reale percezione del pericolo scampato.
Samuele, una volta riabbracciata la sua compagna di viaggio, le disse:
«Grazie. Sei tu quella forte. Io devo lavorare ancora molto, tu, invece, ti sei già guadagnata il tuo pezzo di cielo».
I due scesero piuttosto velocemente a valle. Non dissero una parola durante la discesa. Una volta giunti al rifugio Samuele si fece medicare accuratamente la mano. La sua fedele gregaria si avvicinò, gli diede un bacio sulla fronte e lasciò accanto a lui un bigliettino. Samuele, sorridendo, la seguì con lo sguardo mentre si allontanava.
Si chiamava Majka, proveniva dal Gambia. Era muta, non dalla nascita però. Non poteva più parlare perché le avevano tagliato la lingua come monito dopo averla stuprata. Questo era una uno dei motivi per cui era scappata dal suo paese. Il non poter più dire una parola l’aveva resa una donna estremamente paziente e abile nell’ascolto. Caratteristiche che Samuele, che collaborava con un’associazione di integrazione del luogo, adorava sopra ogni cosa. A una compagna di montagna esperta ne preferiva una capace di ascoltare, di percepire i suoni e i racconti che quelle vette avevano da dire.
Si era guadagnata già il suo pezzo di cielo.
Samuele prese il biglietto e lo lesse.

In Gambia non ci sono montagne. Sei stato tu a farmele vedere e scoprire la prima volta. Nonostante questo ho conquistato il mio pezzo di cielo. Per farlo non bastano le mani, serve il cuore. Io il mio spazio di azzurro l’ho sempre portato dentro di me. Bisogna saper ridurre le distanze per conquistare il cielo, la distanza tra la valle e la montagna, la distanza con i nostri pensieri e soprattutto la distanza con noi stessi. Oggi siamo stati divisi da cinque metri. Cinque metri sono stati una buona distanza per avvicinare i nostri cuori. Un bacio, Majka”
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