1976 Terremoto in Friuli - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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1976 Terremoto in Friuli

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Storia del Gruppo di Arcade
Testimonianze di solidarietà
1976 - IL TERREMOTO E LA RICOSTRUZIONE IN FRIULI

La sera del 6 maggio 1976 il terremoto, l’ “orcolàt”, l’orco cattivo, come è detto in dialetto friulano, squassa la terra. Paesi interi del Friuli e della Carnia crollano in macerie; paesi cari agli Alpini, dove essi sono di casa: Osoppo, Gemona, Venzone, Carnia, Moggio Udinese, Tolmezzo, Paluzza, Timau... E Buia, Majano, San Daniele, Cavazzo, Verzegnis, Zuglio, Sutrio, e cento altri.
Più di ottocento i morti.
Primi ad accorrere dalle loro caserme in rovina gli Alpini alle armi; poi l’Italia intera in una gara di solidarietà nella quale gli Alpini dell’ANA. si distinguono al punto che il Governo degli Stati Uniti affida all’Associazione il suo contributo per la ricostruzione.
“A Natale tutti nelle case!”, proclamano i “fradis”.
L’A.N.A., raccoglie e fa suo questo anelito e organizza cantieri nei paesi più colpiti dove accorrono Alpini da tutta l’Italia.
Il Gruppo di Arcade, assegnato al cantiere n. 10 di Pinzano, partecipa con ben 16 soci: Efren Barro, Primo Barro, Tito Barbon, Sergio Bettiol, Ugo Bettiol, Ezio Bigolin, Attilio Casteller, Alfredo Pollicini, Amerigo Roncolato, Eliseo Roncolato, Mario Roncolato, Adriano Sordi, Rino Schiavinato, Giacomo Signorotto, Armando Zanatta, Ugo Zussa.
Ecco come Mario Roncolato, nell’intervista del 21 settembre 1997, rammenta quei giorni.
Come è stato il primo contatto con gli abitanti?
Arrivati nella piazza di Pinzano siamo entrati in un bar per bere un caffè e chiedere dove era il cantiere. La gente appariva scossa, tesa: ho osserva­to che quando sollevavano la tazzina o il bicchiere di vino avevano le mani tremanti. Abbiamo chiesto il conto e ci hanno risposto che era tutto pagato. Al cantiere abbiamo trovato gli organizzatori che ci hanno indicato dove andare e che cosa fare. Mi ha stupito l’organizzazione: lì per lì non capivo perché a noi, che eravamo due muratori e tre manovali, ne avessero aggregati altri due. Me ne sono reso conto quando abbiamo cominciato a salire verso la casa che dovevamo riparare: la strada era così stretta e ripida che nemmeno in Dumper’ si riusciva a salire: bisognava portar sù tutto a spalle.
Chi abitava in quella casa?
Un vecchio che viveva da solo. Quando venne il terremoto era appena fuori dalla porta di casa che si apriva proprio sul pendio ripido della montagna; un po’ per la perdita di equilibrio causata dalla scossa e un po’ per lo spavento cadde rotolando giù fino in fondo alla vallatella, dove lo trovarono ancora sotto choc il giorno dopo. Dovevamo riparare il tetto, che era stato sconvolto dal sisma, e consolidare un timpano che minacciava di cadere. Ebbene, terminato il tetto ci sono rimasti soltanto una decina di coppi: segno che i calcoli erano stati fatti con la massima accuratezza. E la gioia del vecchio al vedere la casa riparata, dove anche se pioveva non penetrava più l’acqua!
Come eravate sistemati in cantiere dal punto di vista logistico: mangiare, dormire... ecc.?
Il rancio era preparato da una cucina militare da campo e noi andavamo a prelevarlo in fila, come in caserma. Erano ammirevoli l’ordine e il rispetto che c’erano da parte di tutti: nessuno che si accalcava, nessuno che cercasse di scavalcare chi gli stava davanti: ognuno aspettava disciplinatamente in proprio turno. Il cantiere era un agglomerato di prefabbricati in lamiera dove c’erano tutti i servizi. Per dormire avevamo i letti a castello nelle tende Moretti; era settembre, il clima ottimo, anche se qualche volta pioveva e cera fango per terra, ma in tenda si stava benissimo. Era il 15 settembre, il giorno in cui si dovevano smontare i cantieri, che venne la scossa più forte: più corta ma più intensa di quella del 6 maggio. E noi eravamo li.
Nel vostro cantiere eravate tutti veneti?
No, no! Si sentivano tutti i dialetti: ligure, piemontese, emiliano, lombardo... Eppure ci si capiva a volo, quasi senza bisogno di parlare, come se avessimo passato tutta una vita insieme. E sul lavoro nessuno si tirava indietro; anzi sembrava che ognuno facesse a gara con se stesso per dare il più e il meglio che poteva. Ma questo credo che sia il nocciolo, l’essenza del nostro spirito di corpo.
Quanti giorni siete rimasti lì?
Sei giorni in tutto, in due turni dal Venerdì alla Domenica. Io sarei voluto rimanere ancora: era bello vedere questa organizzazione, messa insieme all’improvviso, e che pure funzionava alla perfezione. E poi la gente, che ne sentivi la gratitudine perché la stavi aiutando. Ma non stavano con le mani in mano come in altri posti: ognuno si dava da fare come e più che poteva; per sé e per gli altri.
Il paese di Pinzano, però, non era uno tra i più danneggiati?
Più che altro erano danneggiate le case sparse nella campagna, che erano anche le più vecchie. In paese cerano stati, sì, danni; ma non come in altri posti: Osoppo, Gemona, Venzone.. In paese siamo andati a consolidare una casa dove c’era stato un laboratorio di oggetti per la chiesa: c’erano ancora per terra quei lini ricamati a spighe e a fiori che servono a coprire il calice. C’erano delle crepe nei muri, non grandi però; in quei casi facevamo due buchi nei muri laterali e vi facevamo passare un grosso ferro che poi veniva ancorato all’esterno con dei cunei infilati nell’anello che c’era ad ogni estremità: era più che sufficiente a garantire la stabilità del muro. Noi abbiamo lavorato soprattutto a riparare tetti; che quelli, sì erano tutti danneggiati. Bella è stata un’operazione di alta ingegneria inventata al momento: il terremoto aveva spostato all’infuori le quattro colonne di sostegno di un terrazzo e la soletta, trattenuta dai ferri, penzolava giù. L’abbiamo sollevata con un trave messo sopra al cric di un camion, abbiamo risospinto le colonne al loro posto e consolidato il tutto con il cemento. Come nuovo! E proprio vero che l’arte di arrangiarsi è tipica degli Alpini. Ricordo che quella volta c’erano altri di Arcade: Efrem Barro... Sergio Bettiol... Sergio è rimasto molto tempo lassù: per noi che andavamo a fine settimana era un veterano. Credo che fosse il 14 settembre, il giorno prima della nuova grande scossa.
Eravate lì quel giorno?
Si. Quel giorno si dovevano chiudere i cantieri e per l’occasione avevano organizzato una festa. Si, smonta il cantiere, il parroco dice la Messa, poi festa in piazza. C’era anche il coro di Conegliano. Quando venne la scossa nelle case non c’era nessuno: erano tutti in piazza per la festa; e anche perché nelle case ci stavano il meno possibile per la paura. E stata una scossa terribile. Qualche momento di smarrimento, poi la festa è continua­ta: il coro ha cantato, la fanfara ha suonato, la gente ha ballato... Era una festa per noi e non si poteva interrompere. Gente tenace i friulani! Ricordo però che vicino alla cabina telefonica c’era una coda lunghissima: tutti cercavano di telefonare ma pochi ci riuscivano perché le linee erano intasate. È stata la scossa che ha finito di distruggere Venzone che era stato assai danneggiato, ma non come altri paesi. La Caserma “Goi”, degli Alpini, è stata completamente distrutta e ci sono stati una ventina di morti.
- Interviene Renato Pollicini -
Si, gente dura. Un cugino di mia moglie, di Oderzo, era in servizio pro­prio alla Caserma “Goi”: si è salvato si può dire per caso, o per miracolo, perché era andato al cinema. Il padre, zio di mia moglie, andò subito a Venzone; vide la caserma distrutta e i morti allineati in terra. In quel momento passò una vecchietta - avrà avuto ottant’anni - che trainava un carretto carico di fieno. Si fece il segno della croce, mormorò qualcosa, forse “Poveri giovani” o qualcosa di simile ed aggiunse: “Mi dispiace, ma io devo andare a dar da mangiare alle bestie”. Questa scena colpi profondamente l’uomo. “Non era una mancanza di rispetto per quei giovani Alpini morti - diceva - o per tutto ciò che era andato perduto; ma una affermazione della volontà di vivere. In mezzo a quella tragedia la vita doveva continuare!”.
- Riprende Mario Roncolato -
Quel giorno a Pinzano c’era anche Cattai, che allora era Presidente della Sezione. Avrebbe dovuto partire subito dopo il pranzo della festa e invece si fermò fino a notte inoltrata. Voleva telefonare a casa che non stessero in pensiero ma il telefono funzionava solo in direzione Est: Udine, Gorizia... Finalmente riuscì a farlo mediante i radioamatori di Conegliano; arrivato a Treviso, la mattina alle cinque telefonò a casa mia per rassicurarli.
- Interviene Carlo Tognarelli -
In quell’occasione i radioamatori, o meglio i CB., hanno fatto molto. Anch’io ero un C.B.. Subito dopo la scossa accesi il “baracchino”; c’era un “bailamme” incredibile: tutti volevamo sapere che cosa e dove era accaduto e ci domandavamo che cosa si potesse fare. Io ebbi la fortuna di “coppiare”, cioè collegarmi con uno che stava scendendo in auto dal Piancavallo; si era fermato proprio sul passo ed era in collegamento con un C.B. di Cabia - un paesino sopra Arta Terme - il quale aveva detto che il Monte Amariana si era spaccato in due. Non era proprio così, ma dall’Amariana era caduta una frana enorme. Rimasi al baracchino quasi tutta la notte e, di collegamento in collegamento, quasi sempre a mezzo di amici che facevano da ponte, seppi ben presto dove era stato l’epicentro, quali i paesi più colpiti, come si stavano organizzando i soccorsi, che alle due di notte era partita una colonna di soccorso del Radio Club di Trieste, dove si stavano impiantando le stazioni base, ecc. E seppi anche che il C.B. che trasmetteva da Cabia era l’amico “Arvènis” (nominativo di frequenza ; il mio era “Tango Mike’9, di Zuglio Carnico, con il quale avevo passato tante piacevoli serate, sia “in verticale”, cioè fisicamente di fronte, che “in frequenza” durante i miei soggiorni ad Arta. Purtroppo non potei dare una mano concreta né sul posto né alle stazioni base. In quel tempo ero direttore didattico a Sacile; le mie scuole erano quasi tutte inagibili, ciò nonostante riuscimmo non solo a terminare regolarmente l’anno scolastico, ma a prolungarlo per tutta l’estate, a tempo pieno sotto le tende.
- Roncolato -
Sì, i C.B. sono stati importanti. Ma tutti hanno fatto quello che potevano. E la gratitudine della gente?! Tante volte era addirittura imbarazzante. Noi, ad esempio, eravamo costretti a non andar più nei bar perché non ci permettevano di pagare: “Qui per voi che ci aiutate è tutto pagato” -dicevano; e a noi sembrava di approfittarne. Ma era commovente vedere la contentezza di quella gente quando le riconsegnavi la casa riparata, che non ci pioveva più. Ma era gente che non si lasciava scoraggiare, che si dava da fare. che avrebbe fatto tutto da sé, se avesse avuto i mezzi...
E forse il desiderio dei friulani di essere tutti nelle case a Natale avrebbe potuto realizzarsi se il 15 settembre una nuova scossa, di durata assai più breve ma di intensità maggiore di quella del 6 maggio, non avesse aggiunto rovine a rovine, lutti ai lutti, vanificando in gran parte il lavoro fatto durante l’estate.
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