"El Grio" non salta più... - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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"El Grio" non salta più...

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

XV EDIZIONE - Arcade, 5 gennaio 2010
Segnalato

"El Grio" non salta più

di Enrico Brambilla - Almenno San Bartolomeo (BG)



In memoria di Cristina Castagna, soprannominata “ El grio” per la sua irrefrenabile vivacità, infermiera in un ospedale di Vicenza, morta il 18 luglio 2009 sul Broad Peak nella catena del Karakorum, noto come K3, terzo 8.000 al mondo.

*****************

“Non andare, Cristina... La montagna è pericolosa, perché rischiare la vita?”…
La cima del Broad Peak spariva tra le nubi. Pareva che la montagna non avesse mai fine, pareva che oltre quelle nubi, pesanti, cariche di nevischio, s’aprisse la porta d’oro del cielo. Lassù, come nel giardino dell’Eden, Cristina era certa che avrebbe udito lo scalpiccio dei passi di Dio e non avrebbe avuto paura come Adamo e non si sarebbe nascosta ma, fattasi avanti con temeraria arroganza. Gli avrebbe chiesto di rispondere ai suoi mille insoluti “perché”. Perché la sofferenza, perché la malattia, perché i passi dell’uomo così solitari quando più abbisogna il sostegno d’una mano amica, perché lo smarrimento della morte, perché il senso tutto della vita, perché...
Cristina nettò la condensa dagli occhialini, respirò tutto il rado ossigeno che i polmoni potevano contenere, riprese la scalata affondando gli scarponi nella neve, nell’animo ancora la voce flebile dell’ammalata che la supplicava di restarle a fianco:
“Non andare... Come farò senza di te? Senza la mia brava infermiera...”
Il colpo della piccozza affondò nella crosta di ghiaccio. Un colpo portato con rabbia come se Cristina avesse voluto, con un taglio netto di bisturi, svellere il male dal fegato dell’ammalata, la povera inferma che, seppur sdraiata nel letto d’ospedale, affrontava a suo modo l’impossibile scalata di quell’8.000 che si chiamava “montagna del dolore”.
Aveva vinto la montagna, infine, e Paola, così si chiamava la donna che un tumore stava divorando, era morta. Morta come il piccolo Andrea, portato via da una leucemia, morto Giovanni stroncato dall’aneurisma, andato anche Stefano inutilmente caparbio contro il morbo che ne aveva fiaccate le resistenze, andati via e Pietro e Serena e Maria e...
Ecco, forse tutti quei morti l’aspettavano ora lassù in compagnia di Dio, oltre quelle nubi che la tormenta addensava sibilando con un rantolo lungo d’ammalato terminale...
La corda pareva tenere bene fermata nel moschettone, vibrava tesa, all’altro capo sparito nella foschia il compagno di cordata che forse, lassù, già si prostrava al cospetto di Dio.
Dio... Dio... Dio...
Quante volte l’aveva cercato Dio al capezzale dei suoi infermi!... Quante volte l’aveva pregato invano, quante volte gli aveva chiesto che confortasse i passi dei suoi ammalati, che li accompagnasse almeno nell’ultimo sforzo di raggiungere l’estrema cima!...
Dio... Dio... Dio...
Quel Dio che mai aveva visto laggiù, chino al capezzale degli infermi...
Ebbene, se quel Dio stava lassù, oltre la cima del Broad Peak, Cristina voleva a tutti i costi presentarsi al Suo cospetto per chiederGli almeno “Perché”, per vederne il volto di quale impassibile trascendenza fosse illuminato, di quale...
Riverberava il lastrone di ghiaccio e sotto il morso dei ramponi scheggiava stridendo acuto. Un chiodo dopo l’altro Cristina guadagnava un metro, due, chiodi confitti con colpi rabbiosi, chiodi d’una croce verticale su cui innalzarsi sospesa tra cielo e terra, chiodi della sua personale via crucis. Chiodi un poco soltanto più grandi di quello con cui, nella stanza di casa, aveva fissato al muro il biglietto con quelle poche parole indirizzate ai genitori e vergate quasi con intenzione d’ultime volontà:
“Se accadrà, lasciatemi dove la montagna mi ha chiamato a sé...”
La voce della montagna era alta, un ululato di lupo, un respiro fondo di neve turbinante che pareva chiamarla, sfidarla a varcare la soglia del frastuono del mondo ed affondare infine nel silenzio assoluto quello che, lassù in cima al K3 nella catena del Karakorum, aveva l’afflato delle anime fuse nell’eternità.
Lo sforzo s’era fatto più pesante, le gambe indurite dalla fatica e il cuore che batteva forte, tanto forte che a Cristina pareva sentirne il battito uscirle dal petto, rullare sulla neve, picchiare ritmico sul ghiaccio. Se non per una valanga, non si sarebbe meravigliata nel sentirsi mancare la presa per uno smottamento, un cedimento della crosta ghiacciata così vibrata e sollecitata da quel “...tum tum tum...” che aveva la durezza d’una mazza ferrata.
“...Tum tum tum...” come il battito del cuore infartuato di Enrico, il poeta, che gli era morto tra le braccia e, gli occhi rovesci duna chiarità di lago alpino, spegnendosi le aveva sospirato:
“Ciao, acchiappasogni... Ci vediamo lassù...” Acchiappasogni...
Per Enrico gli “Acchiappasogni” erano i poeti come lui, come Cristina stessa che i suoi versi affinava nelle soste tra una scalata e l’altra. Poesie semplici, pulite, poesie che parevano scritte con uno stilo di ghiaccio, un inchiostro di neve. Versi che, Cristina scrutava la cima della montagna di tanto in tanto, avrebbe recitato lassù in cima al cospetto di Dio e a quello di Enrico, il poeta che le aveva fissato quell’ineludibile rendez-vous:
“Ciao, acchiappasogni... Ci vediamo lassù...”
Saliva magata dal silenzio. S’era quietato il vento ed uno sprazzo improvviso d’azzurro faceva intravvedere la cima del Broad Peak, un altare di ghiaccio scintillante e pietra lavorata dall’erosione, un retablo di santo incorniciato dalle cime degli altri monti, la piramide del K2, le cuspidi del Gasherbrum, dello Hidden Peak. Giù in basso e dilato, Cristina talora volgeva lo sguardo a trarre conforto e sprone dalla distanza coperta, barbagliavano come specchi la lente del lago Pang Kong, i vetri tortuosi e rotti dell’Indo, del Gilgit, le grandi lastre d’argento dei ghiacciai Baltoro, Syachen, Chogo.
Una vertigine la prendeva in quel punto, un delirio di poesia, una voglia di staccarsi dalla roccia e librarsi nell’aria come il grande uccello della montagna, cuore e membra tutte pervase dal soffio leggero e dalla luce di quelle “…strade di sole / che un giorno (quando avremo ali) / ci porteran lontani.” * (C. Betocchi)
Le ali di Cristina, mani piccole, il cuore lento, bruciavano nella tensione della corda. “Galdalf”, il compagno di cordata, la richiamava all’alto, a quell’unica stella sopra la cima che, dimenticata dalla notte, sorrideva ammiccando amica in una sfrangiata nuvola.
Doveva arrivare lassù, arrivare dove ancora non si arriva, dove il vento che soffiava era solo pura luce con la sua eco di cielo, arrivare a cogliere la stella, molto più su, forse anche oltre la luna, oltre la vita stessa da cui distaccarsi e, infine con condiscendenza quasi divina, volgersi a guardare solo le orme lasciate impresse nella neve in testimonianza d’una sofferta ascensione solitaria.
Passo dopo passo, Cristina posava il piede sulle orme perdute, le orme di chi, Dainelli, Monzino, Desio, il duca degli Abruzzi, De Filippi, prima di lei aveva calcato l’innocenza di quei monti.
Passo dopo passo e finalmente in cima, l’ultimo slancio affondando gli scarponi nelle orme di Dio stesso se è vero che il Santo passeggia sulle vette incontaminate e si compiace svelare la maestà del volto a chi Gli si prostra deferente a cospetto.
Chiusi gli occhi, carponi, prima di levarsi in piedi Cristina raccolse il fiato cristallizzato al suolo, ne divorò bocconi d’ossigeno, quietò, poi lentamente levò dritta, gli occhi spalancati d’improvviso sulla creazione del mondo.
In principio Dio creò il cielo e la terra e gli astri del firmamento e le montagne e i venti alti e divise l’acque che sgorgavano dai ghiacciai e innalzò i pinnacoli del Transhimalaya e fece scorrere fino al Turkestan orientale le acque dello Shyok e dello Jarkand-Daria e aprì gli alti passi carovanieri tra il verde del Kashmir e gli altipiani desertici e non pose limiti né confini allo sguardo di Cristina che, incantata nell’estasi, vedeva che tutto ciò era infinitamente buono e quanto inafferrabile fosse il mistero del lungo fluire della vita che non teme scalare la montagna della morte.
Certo, era solo vento alto quello lassù!...
Vento che le rubava le parole stupite di bocca e, come coriandoli, le turbinava nelle folate improvvise di neve, le mischiava ai sussurri che le pareva udire, le voci lontane nel tempo dei suoi malati, le voci di Paola, Andrea, Giovanni, Stefano e Pietro e Serena e Maria e il poeta Enrico che, nel rabbuffo improvviso della tormenta sottolineato da un lieve ronco, pareva con ugual tono sospirarle quei pochi versi d’amore stilati un tempo su un tovagliolo di carta deposto sul comodino di ferro dell’ospedale:
“Benvenuta, finalmente... Ti abbiamo aspettata così a lungo... Fermati qui nel tempo che distanzia il tempo, fermati con noi, cara...”
Un invito di sosta nell’eterno che Cristina, nonostante la carezza delle voci amate, sapeva avrebbe disatteso, sapeva avrebbe rimandato finché non avesse con certezza svelato del tutto il volto di Dio ora che, sulla cima del Broad Peak, ne aveva tenuemente avvertito il passo e intravvista la potenza.
“Galdalf” riordinava il materiale, raggomitolava la corda con gesti lenti, scrutava la via di discesa dove più pareva sicura la tenuta del ghiaccio, la compattezza della roccia. Un ultimo sguardo al giro dell’orizzonte maestoso poi, soltanto un gesto, l’invito a scendere che Cristina colse quasi con un annuire rassegnato.
Le dispiaceva uscire da quell’esaltazione d’essere levata sulla cima del mondo, discendere dalla santità dell’altare di pietra per calarsi di nuovo nella vita di ogni giorno. Lamentava le voci antiche che, laggiù in basso, si sarebbero affievolite perdendo la loro eterea consistenza. E quasi un rimorso in petto, certamente un rimpianto di bambina disillusa dalla infranta possibilità d’afferrare infine il dono più ambito, Cristina immalinconiva a quel senso di solitudine che la riprendeva, anche Dio abbandonato forse per sempre lassù, solitari i passi sulla cima del Broad Peak.
Dio, il solitario assoluto...
Era difficile scendere, forse più della salita. Cristina si smarriva nella pezzatura colorata del mondo che stendeva laggiù e la mente vagava distratta, non più concentrata nell’uniforme azzurro ch’era levato sul suo capo. Difficile e smarrente vedere che la neve, mentre durante la salita v’era il sicuro riferimento delle orme del compagno di cordata, ora recava impressi soltanto i suoi passi, unica traccia della sua solitaria esistenza d’apripista nel gelido candore ricompattato.
Scendeva con amaritudine, senza pensiero ché il vento pareva sradicarglielo dalla mente, sentendosi viva soltanto per quell’ebbrezza dell’ossigeno rarefatto che pareva muoverla come in un sogno, membra d’aria, silenzio che bruciava dentro. E già calata sul ciglio d’un burrone, la malia dell’orrido fondo accorciava distanze col miraggio della voce della madre, del padre che l’invitava alla prudenza, Cristina avvertiva la levità del corpo, la debolezza delle membra, l’inutilità del gioco stesso della vita tutta inventato per vivere in qual modo.
Si volse lentamente, ripercorse con lo sguardo la fila delle sue impronte, cercò lassù il conforto di “Galdalf”, cercò inutilmente tra le nubi il brillio d’una veste d’oro, un bagliore di barba bianca, il fulgore d’un’aureola posata sul capo del Santissimo.
“Che io mi fermi qui...- si disse Cristina riprendendo il passo -… che lo spirito rimanga e s’illuda d’aver visto ciò che non ho visto, ciò che invece rivedrò laggiù nello sguardo dei miei ammalati...”
Il cornicione della faglia aveva ceduto di colpo. Barcollò, inutilmente s’aggrappò all’appiglio friabile della neve, Cristina senza un grido precipitò nel burrone, negli occhi spalancati la solitudine distesa sulle orme dei suoi passi che rimpicciolivano.
Cadeva e le pareva di volare, cadeva e le pareva di sentire nel fischio del vento una voce Altissima sussurrare: “Figlia mia, io ti amo e non ti abbandono... Vedi, quelle che tu ritieni tue orme solitarie impresse nella neve, sono invece le mie, le orme di Colui il quale ti sta portando in braccio...”
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