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Terzo 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Terzo 31

Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA


"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Terzo classificato

LA CULLA VUOTA
di Chenetti Loreta
Belluno
 
 
L’odore mi accoglie appena varco la soglia. Un effluvio di latte inacidito, naftalina e di cenere bagnata che mi si attacca addosso come un velo umido. Un odore di solitudine, vecchiaia e povertà che riempie la casa fredda e buia che pare abbandonata.
 
“Giuseppe? Bepi? Sono la dottoressa Manfredi. Posso entrare?”
 
Un tossire catarroso, che interpreto come un permesso ad avanzare, mi indica la strada. Lascio, alla mia destra, la porta aperta su un piccolo bagnetto che sa di urina stantia. A sinistra una cucina dai muri anneriti. Sul tavolo coperto da una tovaglia a quadretti vedo una ciotola nella quale galleggiano piccole cose grigiastre e gonfie. Un paio di mosche litigano ronzando, nascondendosi dietro la tendina sfilacciata appesa ad una finestrella. Le sento sbattere stolide contro i vetri sporchi.  Una pentola ricoperta di  fuliggine indurita dal tempo è appoggiata in un angolo della cucina a legna che è spenta e incrostata di grumi di polenta secca. Una scopa di saggina appoggiata ad un angolo protegge, nascondendolo, un mucchietto di briciole.
 
I rantoli della tosse mi richiamano.
 
La seconda porta a destra dà su un salotto tetro. Intravedo, rannicchiata sul divano, la sagoma del vecchio. Le mani nodose dalle unghie spezzate stringono i lembi di una coperta di lana che lo avvolge come un bozzolo.
 
“Grazie di essere venuta. Mi scusi… mi scusi... Sarei sceso io, al paese, ma non ce l’ho fatta. È più di una settimana che sto così.”  mi dice ansimando. “Oggi mi sono deciso ma sono riuscito ad arrivare solo fino alla casa di Vittorio e ho chiesto a lui se poteva telefonarvi... se poteva avvisarvi… io… mi sarei fatto trovare qua… ”
 
Le parole si perdono tra un accesso di tosse ed un grumo di catarro che sputa con discrezione in un fazzoletto tolto da sotto il cuscino. “Mi scusi...”
 
Avvicinandomi vedo che tiene gli occhi chiusi, quasi si vergognasse di farsi vedere, di farmi vedere quello che, di lui, tutto intorno mi parla.
 
Lo rassicuro mentre cerco uno spazio dove appoggiare la borsa e la giacca. C’è uno scranno di legno con lo schienale intarsiato. Uso quello.
 
Gli misuro la febbre, conto i battiti, gli ausculto i polmoni. È disidratato e febbricitante. Il torace risuona di scariche come una radio non sintonizzata. Quando gli chiedo di aprire la bocca per farmi vedere la gola volta la testa.
 
“Ho l’alito cattivo…”
 
“Bepi, la devo far ricoverare! Ha la polmonite” gli spiego mentre inietto una dose di antibiotico in una natica secca. “Adesso chiamo l’ambulanza che la porterà giù in paese.”
 
Inizia a lamentarsi con un pigolio di voce. Non vuole spostarsi, non vuole andare in ospedale. Mi dice che deve restare qui, che posso curarlo io, che di me si fida. Me lo aspettavo, lo sapevo che non sarebbe stato facile. La sua vita è tutta qua, in questa casa fredda e isolata lontana dalla società degli uomini. In paese lo considerano un eremita, un asociale disancorato dal mondo che vive di quello che coltiva e di quello che il bosco gli dona.
 
“Mi ascolti, Bepi. Io non posso fare molto per lei. Dovrà andare in ospedale perché c’è bisogno di fare i raggi, di flebo per essere idratato, di medicinali da assumere ad orari regolari, controllare la temperatura. E lei deve mangiare e bere. Da quanto tempo non si prepara un pasto caldo?” lui torce il viso senza rispondere. “In ospedale ci sono medici e infermieri che si prenderanno cura di lei ventiquattr’ore al giorno” continuo implacabile “mentre io, purtroppo, non potrei farlo. Lo farei, se le sue condizioni fossero meno gravi ma così...”
 
“Ma io devo restare qui, ho tante cose da fare!” la voce è flebile, pare che le parole siano agganciate ad un filo leggero di ragnatela. “Devo segare l’erba nel prato e tagliare quel faggio al limite del bosco…”  I suoi occhi mi cercano sgomenti mentre la tosse scuote il suo scarno torace. “Come mi riscalderò nel prossimo inverno?”
 
Non posso spiegargli che se resterà qui a tagliare gli alberi, quest’inverno non avrà la necessità di scaldarsi perché riposerà sotto un paio di metri di terra.
 
Lo lascio parlare. Gli occhi velati dalla cataratta si gonfiano. Una lacrima si stacca perdendosi tra le pieghe del volto, tra i peli ispidi della barba. I rantoli si mescolano ai colpi di tosse e agli spasmi della febbre.
 
Recupero una bacinella, la riempio di acqua tiepida e con un panno gli detergo il sudore dalla fronte, le gocce di saliva dalle labbra riarse. Lo accarezzo piano cercando di sciogliergli le dita contratte che stringono la coperta  stretta contro il petto come uno scudo ed inizio a spogliarlo togliendoli lentamente le maglie, infeltrite e sformate, la canottiera di lana ingiallita e i pantaloni di fustagno. Lascio emergere un corpo emaciato, stremato, così fragile che potrei schiacciarlo tra le dita come se fosse di vetro.
 
Lo lavo.
 
Passo il panno fresco sulla pelle stropicciata come la corteccia dei pini, sulle ossa delle gambe lunghe e secche, sul dorso che scrocchia come carta velina. Lo rivesto come una mamma vestirebbe il suo bimbo. Lui chiude gli occhi, forse si è assopito.
 
Mentre aspetto che l’ambulanza ci raggiunga mi avvicino alla finestra e lascio che lo sguardo si riempia del panorama che mi si offre, ricalcando con gli occhi il profilo delle cime dei monti, i pascoli verdi, le punte degli alberi che accarezzano l’azzurro dove un falchetto volteggia lento a spirale, le ali spiegate. Chiudo gli occhi ed offro il viso ai raggi estivi del sole ancora alto.
 
Mi riscuoto con un sospiro che non sapevo di aver trattenuto.
 
Guardo Bepi che respira piano con la bocca aperta, gli occhi serrati su rughe di pelle scurita dal sole. Pare che la febbre si sia abbassata un po’. Mi guardo intorno. La stanza ha le pareti ricoperte da pannelli di legno così come il soffitto. In un angolo una stube riporta sulle piastrelle di ceramica disegni di piante del bosco, pigne, genziane, nigritelle.  Sulle mensole molti libri sono incastrati tra ninnoli di peltro e statuette di legno. Mi avvicino alle fotografie appese alle pareti. In una, scattata davanti alla porta di ingresso della casa, c’è un giovane Bepi che stringe il braccio ad una bella ragazza dagli occhi dolci come quelli di un cerbiatto. Entrambi sono vestiti a festa, lei ha dei nastri intrecciati nei capelli, lui indossa una giacca scura. Sorridono.
 
In un’altra il giovane Bepi è vestito da soldato, le cime dei monti  sullo sfondo. E poi dagherrotipi che raffigurano i volti di coppie, le vesti  antiche color seppia, le acconciature di un tempo passato. Tra i vetri impolverati sono stati incastrati santini dai bordi arricciati e fiori secchi.
 
In una credenza troneggia un servizio di piatti dal bordo dorato, qualche tazzina sbeccata, un boccale da birra. Sui ripiani un leggero strato di polvere ma solo un velo.
 
In un angolo un oggetto che non mi aspettavo di trovare nella casa di un vecchio orso come Bepi, una culla di legno scalpellata a mano. La osservo con attenzione. Sulla testiera ci sono degli animali intarsiati.
 
“L’avevo costruita io, una vita fa, per il figlio che stava nascendo.” La voce di Bepi mi fa sobbalzare. Mi volto e lo guardo. Il vecchio sta osservando la culla ma sembra che il suo sguardo si spinga più lontano. “Mi sono sposato nel ‘60. Caterina era giovane, aveva appena compiuto vent’anni. Quando mi ha detto che sarei diventato padre sono salito in montagna a cercare il ciocco di legno giusto per tirar fuori una “cuna” per il bambino. Ero così felice che...”
 
Era salito all’alba con il sole che gli nasceva alle spalle. Se si fosse girato, tra rami degli abeti avrebbe potuto forse vedere il Civetta stagliarsi fiero su uno sfondo di luce livida, ma aveva proseguito sull’erta, un passo avanti all’altro, inoltrandosi nel bosco, felice.
 
L’aria fredda di aprile gli faceva gocciolare il naso e lacrimare gli occhi. Senza arrestarsi aveva estratto un largo fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e se lo era passato sul viso, quasi come una carezza. Sulle spalle lo zaino nel quale aveva riposto due fette di pane e formaggio avvolte in un tovagliolo ed una bottiglia di acqua, un cuneo e un pesante martello. La roncola gli ballava accanto agganciata ad una cinghia. In mano la motosega e in tasca il coltellino svizzero, affilato come un rasoio.
 
Nella radura i suoi occhi si erano soffermati su un tappeto erboso ancora giallo e provato dalla stagione fredda, punteggiato da primule e bucaneve. Aveva scostato con la mano i bassi rami di un abete gravido di grappoli di pigne rosa. Il verde dei nuovi aghetti sembravano illuminati da dentro perché era tutto un rivivere, rinascere, ricrescere.
 
A gambe larghe, le mani nei tasconi del giaccone, si era fermato al centro della radura ed osservato gli alberi che, orgogliosi ed imponenti, lo circondavano affondando le radici nel terreno a tratti ancora gelato. Con gli occhi chiusi aveva ascoltato il battito del cuore del bosco. I legni scricchiolavano stiracchiandosi. Un fruscio tra i rami: forse un uccello, forse uno scoiattolo. Qualche avventuroso insetto ronzava tra i fiori. Il profumo della resina, penetrante e salubre, gli aveva riempito le narici. Aveva aspirato avidamente allargando i polmoni che si erano inebriati di odori balsamici e dell’afrore del sottobosco. Odore di acqua, di terra, di erba e muschio. Odore di vita. E, ancora, si era sentito felice.
 
Con occhio critico aveva osservato gli abeti rossi che lo circondavano cercando una pianta che presentasse una fibra diritta, senza torsioni, senza nodi o sacche di resina particolarmente evidenti.
 
Girando lo sguardo tutt’attorno lo aveva individuato. Un abete di  venti o venticinque metri di altezza che si stagliava fiero sul mondo. Avvicinandosi aveva appoggiato la mano al tronco lasciando scorrere le dita sulle asperità della corteccia poi, con un gesto impulsivo e involontario, aveva abbracciato forte la pianta. La pelle del viso contro la scorza  dura dell’abete, le narici dilatate ad aspirarne il fiato balsamico, la resina che si era appiccicata alla barba.
 
Indossando i guanti da lavoro aveva iniziato a segare e i rumori del bosco si erano zittiti, violati dall’urlo della motosega. Nel taglio del tronco aveva inserito il cuneo martellandolo in profondità fino a quando, con un grido che è lo strazio di legno strappato, il fusto si era spezzato. Con un tonfo che aveva rimbombato a lungo nel bosco, l’albero era stato abbattuto. Tolti i rami aveva proseguito scortecciando la pianta, segandola in tronconi che aveva accatastato all’ombra di un faggio per recuperarli in un secondo momento.
 
Il pezzo migliore lo aveva portato a casa dove aveva iniziato a costruire la culla per il suo primogenito. Una volta finito l’aveva carteggiata dolcemente e lucidata con la cera d’api. Poi gli era venuta l’idea di inciderne la testiera.
 
Dai colpi di scalpello erano emersi dapprima un‘aquila con le ali spiegate quindi un cerbiatto dagli occhi dolci e al centro l’immagine di uno scoiattolo, veloce e curioso come sicuramente sarebbe stato il neonato che stava per venire al mondo. E quindi mughetti, api, farfalle, stelle alpine e genziane perché questo era il loro mondo. Un mondo montanaro, talvolta duro e faticoso, ma ricco di meraviglie, di odori, di suoni. Un mondo scandito dal tempo, condizionato dalla natura.
 
“Ma la natura talvolta è crudele, sa? Il bambino se n’è andato senza neanche aprire gli occhi e Caterina se ne è andata con lui. E la culla, questa culla che avrebbe dovuto ospitarlo, è rimasta vuota.”
 
Per qualche minuto restiamo in silenzio poi con voce roca, Bepi riprende a parlare.
 
“Come si fa poi a continuare a vivere quando tutto finisce? Me lo può dire, lei che ha studiato? Da allora ho continuato a lavorare la terra, a segare gli alberi, a rigovernare la casa come Caterina mi aveva insegnato ma è come se da quel giorno fossi morto anch’io. Sono sessant’anni che mi porto dentro un vuoto immenso che neanche tutte le montagne sono riuscite a riempire.” la voce di Bepi si spegne sovrastato dal rumore di un motore che si avvicina alla casa. L’ambulanza è arrivata.
 
Con un nodo in gola mi guardo intorno ancora una volta e mi rendo conto che il vuoto di quella culla si è ampliato nel tempo raggiungendo ogni angolo di quella povera casa, avvolgendo la vita di Bepi di un sordo dolore che non l’ha mai lasciato. Quanto tempo buttato via, quanta tristezza.
 
Gli infermieri portano fuori il vecchio, sollevando la lettiga con gentilezza. Bepi chiude gli occhi per non vedere il suo mondo svanire. Sulle ciglia gocce di pianto. Le mani contratte sul petto.
 
Chiudo piano la porta come a voler lasciar dentro l’odore di solitudine, vecchiaia e povertà.
 
E il peso dell’ombra di una culla vuota.


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