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Segnalato 7 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 7 31

Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Segnalato
UN EQUILIBRIO FRAGILE
di Borsoni Paolo
Ancona

 
 
Il vento soffiava da nord a folate irregolari. Dentro il rifugio, il legno scricchiolava con un ritmo che Marco Santon conosceva bene: era il respiro della sua casa. Perché quel rifugio non era più solo un luogo di lavoro: era diventato la sua casa.
Lo aveva udito gemere d’inverno sotto la morsa di bufere e gelate.
Quella notte però non faceva freddo. Era settembre. E il segnale che coglieva non veniva dal gelo.
Il ‘Giogo d’Alta Quota’, a 2098 metri, sorgeva su una terrazza naturale sospesa tra roccia e cielo.
Attorno, le montagne si levavano verticali, bastioni di pietra che al tramonto si incendiavano di sfumature carminie.
Davanti, la valle precipitava in un mare di boschi e torrenti, fino al paese di Castel, un grappolo di case, giù in fondo.
Al margine dell’ampia conca morenica, il rifugio di pietra e legno si ergeva isolato tra le vette, con il tetto di scandole di larice e le finestre incorniciate di scuro.
All’interno, la sala comune aveva un calore accogliente: tavoli lunghi, panche solide e una grande stufa di ghisa che diffondeva profumo di resina.
L’atmosfera era quella di un ricovero al centro di una natura magnifica, ma temibile.
Alle pareti erano appese fotografie di gruppi di escursionisti; alpinisti dal volto bruciato dal sole sorridevano dopo aver raggiunto la vetta.
Molte immagini celebravano il Lago Siblino sull’altopiano glaciale sopra il rifugio, una distesa d’acqua azzurra, limpida.
Altre mostravano il ghiacciaio, ancora più in alto, con le sue pareti candide come specchi di cristallo.
In estate i prati attorno al rifugio si ricoprivano di stelle alpine, genziane e rododendri; mentre i ghiri correvano agili sui muretti di pietra.
In autunno il vento portava il silenzio, rotto solo dal richiamo delle cornacchie.
Quella capanna alpina appariva come un eremo.
Ospitava chi all’alba ripartiva verso le pareti delle montagne per scalare le cime o chi desiderava trascorrere giorni di solitudine immerso nella natura.
Più volte era stato il porto sicuro di escursionisti in difficoltà, sorpresi da temporali violenti o incidenti imprevisti. Solo tra quelle mura, dopo aver sentito la propria vita appesa a un filo che si stava spezzando, avevano trovato salvezza.
Dal pianoro lo sguardo saliva su, lungo il costone fino a una cresta circolare che racchiudeva l’altopiano glaciale.
Lassù riposava il Lago Siblino: una distesa d’acqua che sembrava respirare all’unisono con il ghiacciaio che la alimentava.
Anno dopo anno quel lago ricopriva tratti di riva sempre più estesi; cresceva lentamente, spinto dal ritiro del ghiacciaio.
E in giornate grigie a volte non appariva più quel gioiello azzurro, limpido, che aveva rapito lo sguardo di generazioni di escursionisti: l’acqua, torbida, inquietava chi la osservava.
Il ghiacciaio sovrastante, che per secoli aveva custodito nelle sue pieghe l’acqua cristallina, gelata, si scioglieva a un ritmo impercettibile.
Ogni inizio di estate la neve resisteva meno sulle cime.
Le distese di ghiaccio arretravano già dall’inizio della primavera.
L’acqua scivolava in rivoli lungo i nevai fino a riversarsi sul lago.
La montagna cambiava volto; estati troppo calde, inverni troppo brevi, un clima, che non seguiva più i ritmi antichi, ne avevano sconvolto l’equilibrio.
Quell’equilibrio si stava incrinando.
Il lago sembrava accumulare una forza oscura, un’energia che cresceva in silenzio.
Marco Santon, proprietario del rifugio, aveva quarantadue anni. Era un uomo tranquillo, deciso. Guida alpina, scalatore, oltre che maestro di sci, conosceva ogni parete e ogni cima attorno al rifugio: le aveva scalate tutte, spesso in solitaria.
Anna, sua moglie, aveva condiviso con lui alcune ascensioni, ma preferiva le lunghe escursioni di più giorni. Tuttavia, con il lavoro al rifugio, i periodi liberi per le lunghe camminate si erano fatti rari. Aveva trentanove anni, il volto incorniciato da capelli castani lisci e occhi azzurri: una bellezza armoniosa nel portamento e nel corpo.
Gestiva contabilità, situazione della dispensa, ospiti, riparazioni.
Se il rifugio era una casa, Anna ne era il cuore pulsante.
La figlia Elisa, diciotto anni, collaborava alla piccola impresa di famiglia.
Fin da bambina il padre le aveva insegnato l’arte delle arrampicate. Ma la sua passione erano le corse di montagna.
Con i capelli biondi, lunghi, raccolti in una coda di cavallo, i calzoncini corti sulle gambe snelle e il cappellino con la visiera si slanciava su per i boschi e lungo le creste con scioltezza e sicurezza. Vederla correre con il viso impegnato, la coda di cavallo che le saltellava dietro le spalle, le braccia che oscillavano ritmiche era uno spettacolo nello spettacolo.
Da due anni con loro viveva Sandro: cinquantacinque anni, robusto, mani forti, non tanto alto. Era arrivato al rifugio in cerca di lavoro. All’inizio lo avevano ripagato con vitto, alloggio, qualche banconota. Adesso riceveva un salario regolare.
Lui aveva perduto quasi tutto nella vita: il lavoro in valle, la donna che gli era stata accanto per trent’anni, e il denaro scivolato via dalle tasche nella voragine del vizio del gioco.
Lassù si occupava di tutto: tagliava legna, sistemava il rifugio, aiutava in cucina, puliva. Non si lamentava mai.
Accanto a lui si muoveva Nembo, un Border Collie dal pelo nero e bianco e dal muso intelligente, che lo seguiva fedele come un’ombra.
A metà ottobre le giornate si accorciarono rapidamente.
L’aria si fece pungente, annunciando l’inverno.
Le prime nevicate avevano già imbiancato le cime.
Come ogni anno, i Santon si apprestavano a lasciare il rifugio per scendere a Castel.
Coperte e stoviglie usate nei mesi estivi erano state lavate e riposte negli armadi.
La sala comune, alla vigilia della partenza per il paese, profumava di legna e di aria frizzante di montagna.
Lungo le pareti erano pronti zaini e borse da portare in valle.
Solo Sandro non aveva preparato nulla: lui sarebbe rimasto ancora un mese.
Il suo compito era rimettere in ordine il rifugio, fare riparazioni, ripulire perfettamente le parti in legno e in muratura così da rendere quell’edificio pronto a riaccogliere gli ospiti in primavera.
Con lui sarebbe rimasto Nembo.
La sera della vigilia, Marco, seduto nella sala, osservava la mappa del territorio, dispiegata sul tavolo. Vi erano evidenziati, con una matita rossa, i punti attorno al lago glaciale sull’altopiano, in cui, anno dopo anno, con i suoi aiutanti, aveva eretto argini, scavato canali, posato sacchi di sabbia.
«Con la massa d’acqua che c’è quest’anno, una piena violenta potrebbe provocare un disastro» mormorò.
Da tre giorni pioveva senza tregua.
Anna, intenta a apparecchiare, si voltò. «Ce l’abbiamo fatta sempre – disse. – Ce la faremo anche questa volta».
Elisa entrò con i capelli umidi e la giacca bagnata. «Sono salita al belvedere. Il lago è cresciuto di mezzo metro da ieri».
«Non scherzare!» replicò Marco.
«È così. E se il ghiacciaio cede, cosa succede?» ribatté la ragazza.
«Non cederà» rispose subito Anna.
«Lo sai anche tu, mamma, che potrebbe succedere» insistette Elisa.
Entrò Sandro. «Piove così forte che lo scroscio del torrente sembra il ruggito d’un toro!» esclamò ridendo.
Cenarono.
Elisa di tanto in tanto sollevava lo sguardo verso la porta, quasi temesse che da un momento all’altro si spalancasse per un’ondata violenta d’acqua.
Finita la cena, Marco prese la torcia e senza dire una parola uscì.
Anna e Sandro lo seguirono con lo sguardo.
Elisa era incerta se raggiungerlo. Ma poi rimase seduta.
Solo due estati prima nessuno avrebbe immaginato una situazione simile.
Il Lago Siblino era un incanto, uno specchio d’acqua limpido. Ma nell’autunno di quell’anno aveva cominciato a salire di livello. All’inizio pareva un capriccio passeggero, un effetto di qualche fenomeno momentaneo della montagna.
Da allora Marco aveva iniziato a salire regolarmente al lago per misurarne il livello con un bastone segnato a tacche; annotava ogni dato su un quaderno.
Con l’aiuto di Sandro, Anna ed Elisa, aveva trasportato decine di sacchi di sabbia fin lassù. Avevano sistemato quei sacchi sull’argine naturale del lago.
Ma una sola settimana di piogge li spazzò via.
L’anno seguente furono scavati canali di scolo e di deviazione dei flussi d’acqua. Marco lavorava con la pala. Sandro e le due donne spostavano sassi, costruivano piccole dighe con pietre e tronchi raccolti nei boschi.
Per un po’ funzionò. Finché una piena travolse tutto, aprendo una nuova via d’acqua verso valle.
Allora tentarono con reti metalliche. Marco e Sandro le fissarono con pali di ferro: un lavoro duro, faticoso, durato giorni e costato più del previsto.
Quelle reti, puntellate da decine di sacchi di sabbia, resistettero per mesi.
Ma le piene eccezionali del disgelo primaverile le divelsero.
Il fallimento dell’ultima barriera incrinò la fiducia di Marco.
Per lui quel rifugio non era solo pietra e legno: custodiva le sue speranze, i giorni luminosi passati con Anna, le risa di Elisa bambina, e ora l'amicizia con Sandro.
Quella sera il tamburellare dell’acquazzone e il frastuono del torrente riempivano la sala.
Rientrando al rifugio, Marco si scrollò la pioggia dalla giacca: «Il torrente sotto il rifugio ha superato in più punti i ciglioni. C’è acqua da tutte le parti». Poi, rivolto a Sandro, aggiunse: «Non mi piace per niente lasciarti qui da solo. Quest’anno il lago è salito più di tutti gli altri anni».
«La montagna non mi ha mai fatto paura – rispose Sandro tranquillo. – Quando ero giovane venivo su da solo per una settimana al lago Siblino; dormivo all’aperto in una tendina. Non mi succederà niente».
Elisa gli strinse il braccio: «Promettimi che scenderai subito in paese, che non resterai qui a correre rischi se vedi peggiorare il lago!».
«Promesso – rispose Sandro, sorridendo per il gesto deciso ma affettuoso della ragazza. – Ogni mattina salgo al lago. Se vedo qualcosa che non va, scendo in paese».
Marco aggiunse: «Giurami che se la montagna ti manda un segnale, tu non aspetti un’ora a prendere la via verso valle!».
«Te lo giuro» replicò Sandro stringendo il pugno, trattenendo il sorriso ironico sulle labbra per quel fervore premuroso del principale di solito tanto duro e temerario.
Il mattino della partenza il cielo era basso, gravido di nubi grigie.
Partirono in fila indiana: Marco davanti, Anna dietro, Elisa al centro.
Sandro li seguiva con lo sguardo dalla porta del rifugio.
Al primo tornante si fermarono.
«Addio, Sandro!» gridò Marco.
«Ciao, Sandro!» ripeterono Anna ed Elisa.
«Buona camminata. Ci vediamo a novembre» rispose lui.
«Tieni duro!» disse Marco.
Sandro annuì: «Sta’ tranquillo».
I tre si riavviarono. Sparirono dietro il tornante.
Nembo guaì piano.
Rimasto solo, Sandro fece il giro del rifugio, quasi come un rito.
Rientrato nella sala mise legna nella stufa, e si sedette davanti al fuoco.
Nembo gli poggiò il muso sulle ginocchia.
I giorni successivi trascorsero lenti, scanditi dai lavori e dalle sortite al lago.
Ogni volta che saliva lassù, Sandro restava a osservare l’acqua: era gonfia, con un colore che non prometteva nulla di buono.
Annotava misure su un quaderno che Marco gli aveva lasciato.
Ma più dei numeri era una sensazione a pesargli: quel lago non appariva più il compagno calmo della montagna, ma una cupa presenza torbida.
Il bacino, alimentato dai tanti rigagnoli del ghiacciaio, si estendeva su zone mai raggiunte in precedenza.
Al ritorno da ogni perlustrazione, Sandro aggiustava imposte che cigolavano, puliva attrezzi, tagliava legna, la sistemava nel ripostiglio.
La sera si sedeva vicino al caminetto.
Nembo si stendeva ai suoi piedi, e lui lo carezzava. Il cane si beava di quell’affetto.
La pioggia cadde quasi senza interruzione per due settimane.
Le nuvole correvano basse, velando le creste.
La neve imbiancava le cime.
Di notte il vento scuoteva le persiane e scagliava l’acqua contro i vetri del rifugio.
Ruscelli erano diventati torrenti, i torrenti fiumi impetuosi, mentre l’umidità filtrava nelle pareti.
Una mattina di pioggia violenta, Sandro salì al lago. Nembo lo precedeva. Entrambi erano zuppi d’acqua.
Quando raggiunsero il belvedere, allo sguardo si presentò una situazione mai vista: il livello del lago lambiva la cresta marginale.
Tonfi profondi risuonavano dal ventre della montagna.
Onde lunghe, spinte dal vento, correvano rapide, disegnando rughe in diagonale sulla superficie del lago.
Con la pioggia che gli bagnava il viso, Sandro mormorò: «Non sei più il lago che conoscevo. Ora sento la forza che ti agita nel profondo, il fremito che ti sconvolge».
Ritornò al rifugio.
«È ora di andarcene, vecchio mio» disse a Nembo.
Mise in ordine le sue cose.
Spense la stufa.
Chiuse imposte e finestre.
Raccolse lo zaino.
Disattivò le luci.
Uscì.
La pioggia era diventata un diluvio.
Serrò la serratura.
«Ti porto con me – disse piano al rifugio. – Sentirò la tua nostalgia. Ma aspettami: ritornerò».
Prese il sentiero verso valle con Nembo che lo precedeva nella nebbia.
Quel pomeriggio, mentre Sandro era ancora nei boschi, dal canalone alto si levò un boato.
L’argine del lago aveva ceduto. Una massa immensa d’acqua tracimò, abbattendo la diga naturale di roccia e terra. L’onda gigantesca travolse il bosco, sradicò alberi, inghiottì massi.
Il rifugio tremò sotto l’urto della prima ondata. Le travi scricchiolarono.
Poi le finestre esplosero in un lampo di schegge.
La cascata d’acqua si riversò sul costone trascinando frane, tronchi, massi, fango, seminando rovina in casolari sparsi nella montagna.
In paese, Marco Santon si rese subito conto di quanto era accaduto.
Corse alla casa di Sandro, sperando che fosse sceso in valle senza avvertirlo.
Ma la porta era sprangata.
Alzò lo sguardo verso la montagna: il vallone era una distesa di fango e detriti che sommergeva il bosco.
Tornò la mattina successiva.
Ma Sandro non c’era.
La mattina seguente Marco risalì fino al punto in cui esisteva ancora il sentiero.
Su un ramo dell’unico larice rimasto in piedi sul’orlo della frana, vide impigliata una corda: era quella di Sandro, la portava sempre nello zaino.
Alla base del larice notò una quaderno fradicio, accartocciato.
Lo raccolse.
Era il quaderno delle misure del lago.
Separò un foglio dall’altro.
Sandro aveva annotato ogni giorno i livelli dell’acqua.
Sull’ultima pagina, appena leggibile, lesse le parole: «Domani scendiamo».
Domani: Un giorno? una speranza? un’illusione?
Il bosco era cosparso di tronchi schiantati, di massi rovesciati.
La piena aveva mutato il volto della valle.
Il torrente, una volta limpido, scorreva torbido tra macerie e silenzi.

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