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Segnalato 6 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 6 31

Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Segnalato
Tracce
di Mandziy Wendy
Giavera del Montello (TV)


 
 
La montagna non parla. Sta lì. Ferma. Ti guarda lei, se vuoi. Ti misura. Non perdona. È fatta di pietre e silenzi, di vento che graffia. Chi ci nasce dentro lo sa. Chi ci torna dopo, lo capisce tardi. È fame. È neve che entra nei polmoni. È vento che ti taglia la faccia. È silenzio che pesa.
 
 
Sono rimasta. Sempre. Non ero forte, no. Non avevo sogni. Non sapevo nemmeno immaginarli, i sogni. Gli altri sì: città, vetrine, treni. Io no. Solo le pietre sotto le scarpe. Restare non fu scelta. Fu catena. La montagna non molla chi ha preso. Ti chiude in pugno e basta.
 
Da bambina la neve fino al ginocchio. Sempre. Freddo negli occhi, nel naso, nei polmoni. I piedi viola, la pelle che si screpolava. Si cresceva così: pane secco, minestra annacquata, patate. E le mani di mia madre, dure, veloci che tiravano avanti la casa come un animale ferito. Il paese quattro case, un prete tremante, un campanile storto che suonava a casaccio. Gli uomini giù in pianura. Le donne qui, inchiodate. A reggere il tetto, i bambini, le bestie. A reggere tutto.
 
Poi la guerra. Prima sussurri, poi camion, stivali, urla. Tedeschi. Sempre tedeschi. La valle piena del loro odore: cuoio, fumo, grasso bruciato. I loro occhi chiari come coltelli. Urlavano anche senza ragione. Bastava il silenzio per farli gridare. Poi i ragazzi. I partigiani, così li chiamavano. Non eroi. Non ancora. Magri, sporchi, con fucili che gli ballavano tra le mani. Venivano di notte. Pane, latte, un po’ di lardo. Io tremavo ma davo. Li guardavo masticare come lupi. Non ringraziavano nemmeno. Non c’era tempo. Solo fame.
 
Un giorno gli altri presero mio fratello. Su al pascolo. All’alba. Io dietro il muro. Li vidi, i cani, gli stivali. Lui che gridava. Una volta sola. Poi basta. Lo portarono via. Io ferma, muta, come pietra. Non mossi un dito. Non potevo. Non volevo morire. Lo persi lì. Rimasi io. Sempre io.                                                       
Da allora porto un sasso nello stomaco. Non se ne va. Non voglio che se ne vada. È lui. Mio fratello è quel peso. Mi piega in due. Mi tiene viva.
 
Poi dissero: la guerra è finita. Ma qui la fame uguale, i tetti che cadevano, le bestie che morivano di freddo. La gente se ne andava. Treni, fabbriche, futuro. Dicevano così: futuro. Io no. Io restai. Con le mani spaccate, la schiena rotta, i denti stretti. Solo le pietre sotto le scarpe. Nessuno disse mai: hai fatto bene. Nessuno.
 
Un marito lo ebbi. Come si ha una zappa. Non amore. Necessità. Lui beveva. Urlava. Ogni sera. Poi un giorno smise. Tutto. Smise di bere, di urlare, di respirare. Morto. Io non piansi. Non avevo più lacrime. Solo un silenzio più grande. Un buco in casa. E un po’ di sollievo. Questo sì. Non lo dico a nessuno, ma lo so.
 
Gli anni passarono. Tutti uguali. Le stagioni come un mulino rotto che gira sempre nello stesso punto: neve, disgelo, erba, pioggia, gelo di nuovo. E io. Sempre io. Ogni mattina alzarmi, dire: “Ancora qui.” Non ero coraggiosa. Solo ostinata. Testarda come le pietre che mi tagliavano i piedi.
 
Poi arrivarono i giovani. Diversi. Non affamati. Non disperati. Pieni di sogni, invece. Di parole. Con macchine lucide, scarponi nuovi, libri negli zaini. “Ritorno alla natura”, dicevano. Ridevo dentro. Li vedevo inciampare, sanguinare, mollare. Ma qualcuno restava. Pochi. Pochissimi. Quelli che non avevano paura del silenzio. Quelli che capivano che qui non c’è nulla da capire, solo da reggere.
 
Una bussò alla mia porta. Una ragazza. Piccola. Occhi chiari, capelli corti. “Voglio imparare” disse. A fare burro, formaggio. Io la guardai. Non dissi nulla. Le misi in mano il secchio. “Tienilo fermo.” E lei lo teneva. Anche quando la vacca scalciava. Rideva. Sempre rideva. Io no. Ma dentro sentii qualcosa che si muoveva. Non era figlia mia, no. Ma ci assomigliava.
 
Le insegnai piano. Senza troppe parole. Come si gira il latte senza romperlo. Come si accende il fuoco che dura tutta la notte. Come si ascolta il silenzio senza impazzire. Lei imparava. Le mani delicate che si spaccavano. La schiena che si piegava. Io la guardavo. Pensavo: forse non sono l’ultima. Forse non tutto è perso.
 
La notte parlo ancora con mio fratello. Sempre. Gli dico della ragazza. Che ride. Che resta. Che non scappa. Gli dico che forse il paese non è morto del tutto. Che qualche casa si riaccende, che qualche camino fuma. Lui non risponde. Non risponderà mai. Ma io lo sento. Dietro la porta. Nel vento. Sempre nel vento.
 
E io parlo anche con la montagna. La insulto. Le dico che mi ha rubato la vita. Che mi ha piegata, spezzata. Che mi ha lasciata sola. Eppure non la lascio. Non posso. È lei che tiene insieme le mie ossa. È lei che mi tiene ancora qui, quando tutto crolla.
 
Sono vecchia adesso. I denti pochi, le mani nodose, gli occhi che vedono male. Ma cammino ancora. Ogni giorno fino al pascolo. Sento le ginocchia che gridano, la schiena che urla. Ma cammino. Salgo. Non per le bestie, non per il latte. Per me. Perché se smetto, muoio.
 
La ragazza torna. Porta altri come lei. Giovani. Con le mani morbide. Io li guardo. Penso: non dureranno. Ma forse qualcuno sì. Qualcuno resterà. È sempre così. La montagna sceglie. Tiene chi vuole. Gli altri li caccia. Non serve altro.
 
Il vento scende dal passo. È lo stesso vento di allora. Quello che soffiava quando portarono via mio fratello. Quello che urlava dentro le notti di fame. Quello che oggi mi graffia la faccia quando esco. Sempre lui. Non cambia.
 
Io sì, cambio. Sono curva, sono piena di cicatrici. Ma resto. Resisto. Ogni giorno. E so che alla fine non ci sarà medaglia, non ci sarà gloria. Solo silenzio. E pietre. Ma va bene. È la vita che conosco.
 
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