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Segnalato 3 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 3 31

Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Segnalato
Il sentiero delle malghe
di Amina De Biasio
Alleghe (BL)

 
Mita scese dal pullman con il passo esitante di chi arriva troppo tardi o troppo presto. La corriera si allontanò lasciando dietro di sé un odore di gasolio e il silenzio. Davanti a lei, il paese sembrava dormire: poche case in riva al lago, un campanile e il fumo che usciva obliquo dai camini. Era ottobre inoltrato e le Dolomiti, ancora tiepide di sole, cominciavano a vestirsi di ruggine. Le foglie secche frusciavano a bordo del sentiero e il vento portava con sé l'odore del legno bruciato e del latte appena munto. Aveva con sé solo uno zaino, il suo portatile e la macchina fotografica. Il taccuino, consunto, stava nella tasca interna del cappotto, con già segnato il titolo dell’articolo: Le ultime voci delle malghe. Le avevano detto che lassù, tra le cime, viveva ancora una donna che conosceva tutte le storie, quelle vere e quelle che sanno di leggenda. Una certa Clotilde. Nome antico, le avevano detto, come certi fiori che sbocciano solo in quota. Mita sorrise tra sé e sé. Non sapeva ancora che stava per risalire non solo un sentiero, ma un tempo che non le apparteneva e che tra le pietre di una vecchia malga, tra formaggio fresco e parole non dette, avrebbe trovato qualcosa che credeva dimenticato. O mai avuto.
 
Mita iniziò a salire lungo il sentiero indicato dal cartello di legno consumato: “Malga dei Frassini – 1h 20’”. I passi affondavano nel muschio e tra le radici nodose, e ogni tanto, tra i rami, si apriva uno squarcio sul fondovalle e sul fiume che scintillava come una vena d’argento. Dopo una curva, la vide: una figura chinata accanto a una vasca di pietra intenta a lavare qualcosa. I capelli raccolti in un fazzoletto, le mani immerse nell’acqua gelida, i gesti lenti e precisi. Non alzò subito lo sguardo. «Clotilde?», disse Mita esitante. La donna si voltò, aveva gli occhi chiari e spigolosi come le creste rocciose dietro di lei. Era una bellezza ruvida, senza compiacimento, come intagliata nel larice. Non sembrò sorpresa. «Sei quella della città?», chiese.  «Mita. Dovrei… intervistarti, o almeno ascoltarti.»
Clotilde tornò al suo lavoro, poi disse: «Se sei venuta a cercare storie, qui ce n’è fin troppe. Ma non tutte vogliono essere raccontate». Il silenzio che seguì non era ostile, solo pesante come neve che sta per cadere quando fa troppo caldo. Clotilde si asciugò le mani sul grembiule e indicò la salita con un cenno del mento: «Vieni. Un po’ di latte caldo col miele ti scioglierà la lingua e magari anche il freddo». Mita la seguì con il cuore che batteva piano ma deciso, come se avesse già riconosciuto qualcosa prima ancora di capirlo. La malga era poco più avanti, incastonata tra due massi. Il legno era levigato dal tempo, odorava di fumo e resina. Dentro, il camino acceso disegnava arabeschi di luce sulle pareti scure. Clotilde versò il latte in due tazze sbeccate e ne porse una a Mita senza parlare, poi si sedette accanto alla finestra guardando fuori. «Questa malga è vecchia, più vecchia di mia nonna. C’è chi dice che fu costruita da due donne che si amarono quando non si poteva. Quando amare una donna, per una donna, era come dichiarare guerra al mondo». Mita bevve un sorso. Si sentiva che era latte munto da poco. «Si chiamavano Maddalena e Rosa. Venivano da due valli diverse e si incontravano qui, di nascosto. Si dice che una notte fuggirono durante una nevicata. Nessuno le vide mai più. Alcuni dicono che morirono nel bosco, altri che la montagna le protesse nascondendole. Ogni tanto, quando la notte è alta e luminosa, si vedono due ombre salire insieme questo sentiero. Sempre mano nella mano». Mita rimase in silenzio, scrivendo tutto sul taccuino. Sentì che il cuore le si gonfiava piano, come una cisterna che si riempie lentamente d’acqua. «Tu ci credi?» chiese. Clotilde alzò gli occhi e li posò su di lei. «Io credo che certe storie non muoiano. Cambiano voce, cambiano volto, ma camminano ancora».
 
Nei giorni successivi, Mita avrebbe potuto andarsene. Aveva già abbastanza appunti per un buon articolo: le parole di Clotilde, le fotografie delle malghe abbandonate e i volti scavati dei pochi pastori rimasti. Eppure ogni mattina si svegliava con una scusa nuova per restare un altro giorno: «Devo ancora salire alla malga più alta…», «Voglio fotografare la nebbia all’alba…», «Vorrei riascoltare quella storia, magari registrarla…».
La verità era un’altra. Una verità che si faceva largo lenta, come il sole che attraversa le nuvole senza fretta. Era nella voce di Clotilde, ruvida e profonda come i solchi nella corteccia. nel modo in cui le porgeva il pane con le dita forti e gentili, nei silenzi condivisi accanto al fuoco, quando fuori la neve cominciava a cadere sulle cime. E poi c’era la montagna. Mita, abituata alla frenesia della città, iniziava a sentire qualcosa mutare in lei come se il respiro si accordasse al ritmo della terra, come se i passi cercassero non più la meta, ma la permanenza.
Una sera, mentre lavavano i piatti insieme nella luce tremula della lampada a olio, Clotilde le disse: «Non mi piacciono le domande, ma tu ne fai poche e ascolti bene. Questo lo rispetto». Mita sorrise: «E tu racconti storie come se le avessi vissute». Clotilde la guardò. «Alcune le ho sognate, ma a volte i sogni sanno più della memoria». Il silenzio che seguì fu lungo e lieve. Non servivano molte parole. Tra le pareti di quella malga, le cose non venivano dette: venivano condivise come il calore del fuoco o il sapore del miele. Fu così che Mita restò: non tanto per finire l’articolo, ma per capire cosa accade quando due voci si riconoscono dopo tanto silenzio.
 
Il giorno che Mita non avrebbe mai dimenticato arrivò con una bufera improvvisa. Il vento aveva cominciato a salire dal fondovalle già nel pomeriggio, spingendo nuvole basse e pungenti come aghi. Clotilde, con la consueta calma, chiuse le imposte e preparò più legna del solito. Quando le prime raffiche fischiarono tra le fessure, Mita era già seduta accanto al camino con il taccuino aperto e la penna ferma. «Ogni volta che il vento fa così,» disse Clotilde portando due coperte, «le vecchie dicevano che le donne di prima camminano sul crinale. Perché non hanno mai avuto pace». «Le donne di prima?», chiese Mita. Clotilde si sedette accanto a lei: «Quelle che tenevano insieme le famiglie, i greggi, le stagioni. Le levatrici, le guaritrici, le contadine. Quelle che portavano il sale a piedi da valle a valle. Le streghe, dicevano alcuni. Le sapienti, diceva mia nonna». Mita la guardava mentre il fuoco disegnava ombre sul viso di Clotilde, rendendola antica e giovane al tempo stesso. «Sai perché Maddalena e Rosa venivano qui?», continuò Clotilde, «Non solo per amarsi, ma perché in questa malga, un tempo, si riunivano le donne del paese, di notte. Per decidere, per raccontarsi, per aiutarsi. Era il loro rifugio, un luogo lontano dal mondo degli uomini». Si alzò e prese da una trave sopra il camino una piccola scatola di legno. Dentro c’erano delle lettere sbiadite, fotografie con angoli rotti e un fazzoletto ricamato. «Questa è la loro storia. Mia nonna me la lasciò dicendomi: ‘Le voci delle donne non si perdono: trovano casa nei silenzi giusti.’». Mita toccò con cautela le carte, come se sfiorasse una reliquia, poi la guardò. «E tu… tu ci sei sempre rimasta, qui, come una custode». Clotilde non sorrise, ma abbassò lo sguardo: «Io ci resto perché qui la voce delle donne non si spegne. E tu, Mita, forse l’hai sentita anche tu, senza saperlo». Fu in quel momento che Mita capì: non era lì per un articolo. Era lì per ascoltare qualcosa che da secoli attendeva un orecchio disposto a sentire e forse anche un altro cuore disposto a restare.
 
Quella notte, la bufera cantò a lungo sulle tegole della malga, ma dentro il silenzio era caldo come una coperta antica. Mita non riusciva a dormire. Guardava le ombre muoversi sul soffitto, disegnate dal fuoco ormai basso. Clotilde le era stesa accanto con il respiro lento, ma con gli occhi aperti. «Posso chiederti una cosa?» sussurrò Mita. «Se non è una domanda di giornalista», rispose Clotilde, senza voltarsi. «Cosa hai pensato quando mi hai vista, il primo giorno?» Una pausa. Poi: «Che portavi addosso troppo rumore per stare qui, ma anche che… eri stanca di quel rumore». Mita si girò verso di lei. Le loro dita si sfiorarono senza fretta, come acqua che trova il suo corso tra i sassi. «E adesso?» chiese. «Adesso non so se resterai, ma so che, per la prima volta da molto tempo, non ho più paura di sperare». Si guardarono. Non ci fu bisogno di baciarsi, solo di tenersi la mano a lungo, come se il mondo potesse svanire e la notte durare abbastanza da bastare. Il mattino seguente il cielo era pulito e terso come dopo una confessione. Mita scrisse l’articolo sul suo portatile. Lo fece seduta accanto alla finestra, mentre Clotilde mungeva le capre. Le parole vennero con dolcezza, senza forzature. Raccontò delle malghe, dei gesti antichi, delle mani femminili che avevano nutrito, cucito, tramandato. Accennò alla leggenda, ma senza nomi e tenendo per sé i dettagli. Protesse la malga lasciandola anonima. Scrisse con rispetto, come si scrive una lettera a qualcuno che si ama. Poi, salutò.
Clotilde non trattenne né chiese nulla: la accompagnò fino al cartello sbiadito, con un thermos di latte e miele come ultimo gesto. «Quando la città ti stringerà troppo…» disse soltanto. Mita annuì, ma non riuscì a rispondere.
 
In redazione l’articolo piacque. Venne pubblicato con il titolo: “Il tempo sospeso delle donne di montagna”. Ricevette complimenti, richieste di interviste, perfino una proposta per un libro. Eppure ogni sera, nel rumore del traffico o nel silenzio del suo appartamento, Mita tornava a sentire il vento tra le fronde, la voce di Clotilde, l’odore di fumo e miele. Una mattina si alzò prima dell’alba, guardò la pila di giornali e le luci della città ancora spente. Prese lo zaino senza fare rumore, senza annunci. La montagna l’attendeva, come chi conosce il ritorno e non chiede spiegazioni.
La neve era caduta nella notte, lieve e silenziosa. Mita risalì il sentiero con passo lento come chi non vuole svegliare ciò che dorme. Ogni ramo portava il peso leggero del bianco e tra gli alberi si udiva solo il rumore del suo respiro pesante per la fatica. Quando arrivò alla malga, il fumo usciva lento dal camino. Clotilde era sulla soglia. Non sorrise, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che sorrideva più profondamente come la terra quando riconosce la pianta che torna a germogliare. «Hai portato il freddo?» chiese. «Ho portato il silenzio, quello buono.», rispose Mita. Clotilde fece un passo indietro. La porta si aprì e il calore accolse Mita come un abbraccio rimasto a mezz’aria.
Quella sera, accanto al fuoco, riaprirono la scatola di legno. Le lettere, i fazzoletti, i ritratti: ogni cosa aveva un odore di resina e attesa. Mita aggiunse una pagina nuova, scritta con inchiostro scuro. Non firmata, non datata, ma vera.
Poi Clotilde accese una candela e la posò accanto alla finestra. Fuori, nel bianco, sembrò che per un istante due figure passassero tra gli alberi. Una più alta, l’altra con una treccia lunga. Mano nella mano, come loro davanti al fuoco.
E la montagna tacque, ma nel suo silenzio si udì, chiara, la voce di tutte le donne che avevano camminato, amato, resistito. Quelle di ieri e quelle che, ancora, verranno
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