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Segnalato 1 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Segnalato 1 31

Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Segnalato

BIANCHE PIUME SOPRA UNA PENNA NERA
di Cantini Aurora
Aviatico (BG)

 
«Mamma, nevica! Nevica!!»
 
Il piccolo Edamo non stava più nella pelle. Nel paesino dell’Appennino Tosco Emiliano dove viveva con la mamma e i nonni, seppur situato tra i torrenti e le cime del Parco Nazionale dell’Alta Lunigiana, sulle Alpi Apuane, la neve di solito arrivava verso dicembre, portata da San Nicolò, patrono del paese. Ma questa volta, a neanche metà ottobre, era un evento straordinario. Vedere quei soffici fiocchi vorticare nel cielo pomeridiano era una vera e propria magia. E Edamo credeva nelle magie!
 
D’altra parte aveva solo sei anni e per lui il mondo era una biglia a colori, simile a quelle con cui giocava in cortile insieme ai suoi soci, piccole palline vorticose con stampate all’interno strisce colorate sempre diverse, che luccicavano e sberluccicavano impazzite come eliche mentre rotolavano in pendenza lungo il grès, l’acciottolato che ricopriva le viuzze del paesino di montagna.
 
Ma i fiocchi di neve erano tutta un’altra cosa! Provenivano dal cielo! Arrivavano da lontano. Dal buio fondo dell’infinito. Dallo spazio silenzioso. Dal firmamento senza confini. Provenivano dall’orizzonte in fondo alle vette. Lassù, dove i monti toccavano le stelle. Edamo osservava spesso quel cielo che si trascolorava lungo i giorni e le notti, che si riempiva di stelle a puntini e poi si macchiava di azzurro carico nei giorni di sole, oppure appariva tumultuoso nelle sue nebbie scure, che si rincorrevano con le nubi creando vortici rabbiosi di tormente terribili.
 
Spesso la notte, dalla finestra dell’abbaino dove aveva la sua stanzetta, Edamo scrutava il cielo fin dove riusciva a spingere lo sguardo. Si soffermava su ogni stella fino a lacrimare gli occhi, per cercare indizi, per scoprire un segno. Analizzava ogni angolo, ogni ombra, ogni chiarore strano. Appoggiava le manine al vetro appannato, tremando del suo corto pigiamino di flanella grigia, a piedi scalzi, appoggiato al minuscolo davanzale. Cercava tracce di lui. Ogni notte.
 
Fino a quando si arrendeva al sonno e allora correva sotto la pesante trapunta confezionata dalla nonna e si raggomitolava a palla, cadendo in un sonno senza sogni. Era il suo rito notturno, che nessuno in casa, né i nonni, né tantomeno la mamma, perché sarebbe crollata dal dolore, avevano mai scoperto fino a quel momento. E mai in futuro, per Edamo era una questione di vita o di morte mantenere quel segreto.
 
Ma oggi nevicava! E lui poteva scrutare liberamente il cielo senza timore di venire sorpreso in quell’atto. Poteva aguzzare lo sguardo a volontà, saziarsi di quelle minuscole farfalle danzanti che vorticando leggere si depositavano a terra come ballerine senza scarpette, felici di ricongiungersi alla terra. Sembravano sorridere, quei fiocchi, e salutarlo con gli occhietti di cristallo. Sembravano sussurrare il suo nome. Lo conoscevano. Dolci come una carezza, soavi come una melodia di tromba. Quasi allegri, spensierati.
 
Non c’era tristezza nei loro movimenti, e nemmeno pianto. Solo gioia. Erano venuti per lui, quei fiocchi birichini. Ne era convinto. Loro sapevano. Loro dovevano sapere dove era lui. Loro lo avevano sicuramente visto. Lo avevano sicuramente incontrato. Gli avevano sicuramente parlato. Ora ne era certo.
 
Elettrizzato e quasi incontenibile, Edamo corse verso l’ingresso.
 
«Mamma! Voglio uscire a vedere i fiocchi!» urlò verso la cucina, da dove proveniva un rumore di scodelle riposte, e senza attendere oltre arraffò il minuscolo pastrano nero che già cominciava a stargli stretto, si attorcigliò al collo la sciarpa di lana sferruzzata a mano, calzò gli stivalini di gomma e fu fuori.
 
E i fiocchi furono intorno a lui. Ridendo canterini lo circondarono di chiacchiere e sussurri. Lo accarezzavano posandosi sui suoi capelli neri, sulle lunghe ciglia scure, sulle guance rotonde e rosse come ciliegie, sulla boccuccia aperta ad assaggiare il freddo, sulla lingua rosa di bambino, sulle manine tese al vento, sulla mantella che diventava bianca. Edamo chiuse gli  occhi e si lasciò trascinare, ancora e ancora, piroettando come una trottola, ridendo a crepapelle, lui e la neve nel bianco delle casupole addossate le une alle altre.
 
In giro non c’era nessuno. Nemmeno uno dei suoi vicini di casa, né alcuno dei ragazzetti più grandi in vena di scherzi, né tantomeno i piccoli compagni di scuola, che sicuramente stavano ancora riempiendo a matita le pagine del quaderno nero nuovo di zecca con file di aste belle dritte e distanziate. Avevano iniziato la classe prima solo da qualche settimana e c’era in tutti i bambini della numerosa scolaresca (tranne i ripetenti) la voglia di fare bene, di mostrare agli altri il loro quaderno senza macchie, cancellature o orecchie ai margini. Perciò tutti erano diligenti nei loro primi compiti assegnati, rinunciando per ora ad uscire sotto la nevicata.
 
Ma Edamo aveva già svolto le sue incombenze da un bel po’, subito dopo il pranzo a base di polenta e latte. E ora si poteva gustare quel momento straordinario senza spettatori o curiosi. Poteva parlare liberamente senza orecchie indiscrete. Non stava più nella pelle. Aveva mille domande da porre, talmente tante che rischiava di strozzarsi anche solo a respirare. Il cuore batteva forte, l’ansia lo attanagliava. Sbatteva le palpebre agitato, fibrillante, come scoppiettando. Poi si accovacciò su un basso muretto che aveva una piccola zona non ancora ricoperta di neve. E parlò.
 
«Sono Edamo. Voi sapete dove è lui, il mio papà, vero?»
 
«Lo avete visto? Si ricorda di me?»
 
«Quando torna?»
 
Attese. A lungo. Attese piangendo. Attese. I fiocchi di neve lo cullavano sussurrandogli mille racconti. E non cessavano di danzare, leggeri come ali di angelo. Leggeri come piume di colomba.
 
Raccontavano di una penna nera che svettava sul cappello del suo papà, il grande alpino. Lo si riconosceva da lontano, dicevano. Perché luccicava come una stella grazie alla sua tromba, che portava sempre allacciata alla divisa tramite una poderosa cintura che dalla spalla scendeva sul fianco. E quella tromba suonava la carica, radunava i dispersi, addormentava i soldati stanchi, accompagnava i minuscoli funeralini lì sulla dura terra, scavata giusto quel tanto che permettesse di depositare i corpi di chi era caduto in battaglia, faceva salire il suono del silenzio nelle lunghe notti artiche, ma faceva anche danzare i giovani commilitoni nei momenti di tregua. Lui era il trombettiere della Compagnia, il vessillo più forte e tenace.
 
I fiocchi di neve lo avevano visto, nelle bianche steppe del Don, mentre vorticavano incessanti di bufere sulle desolate e gelide pianure di Russia a ricoprire cannoni e soldati. Tra i respiri rarefatti avevano ricoperto di piume bianche la sua lunga penna nera. Ma il papà non temeva il freddo. Cantava. Sorrideva. Suonava la sua tromba pensando al suo bambino al calduccio nel suo lettino sotto l’abbaino. Chissà come stava crescendo forte.
 
L’aveva visto un’unica e sola volta, quando il suo piccino aveva solo undici mesi e la giovane moglie, seppur con immani sacrifici economici, l’aveva portato alla stazione di Cuneo, dove lui stava salendo sulla tradotta che l’avrebbe portato in Russia. Un visetto d’angelo che sorrideva con i suoi primi dentini, i capelli e gli occhi scuri come i suoi, il visetto tondo come una ciliegia. Anche il papà parlava ai fiocchi di neve.
 
«Mi raccomando, voi che attraversate il cielo come angeli, portate il mio abbraccio al mio bambino, là, in attesa sui monti dell’Appennino. Ditegli di fare il bravo, di ubbidire sempre alla mamma e ai nonni. Di aiutare in casa e nella campagna. Di essere educato e rispettoso verso tutti. Ditegli che il papà veglia su di lui e che tornerà presto.»
 
E quando suonava, il suo cuore attraversava le montagne più alte, il suono della sua tromba raggiungeva il cielo e le stelle, illuminandole una a una, così che il suo bambino non potesse mai avere paura del buio o dei temporali, né perdersi lungo i sentieri del bosco quando andava a fare legna. Lui era oltre le punte delle cime, proprio al di là dell’orizzonte. Era là. E sarebbe tornato.
 
Per Edamo bastava. Cominciò a danzare gridando a squarciagola la sua felicità. Sollevava i mucchietti di neve e se li lanciava addosso. Era inarrestabile.
 
Finalmente, a chi gli chiedeva che mestiere facesse il suo papà, avrebbe potuto raccontare che era un grande alpino trombettiere e che stava tornando dalla guerra, ci voleva tempo, a piedi, ma la strada lui la sapeva. Meglio non dire che glielo avevano detto i fiocchi di neve, questo era un dettaglio personale, un conversazione privata tra lui e la neve.
 
E quando sarebbe arrivato Natale e avrebbe imparato a scrivere, avrebbe preparato un bel tema, come quelli dei suoi cugini in terza, dove avrebbe descritto il suo papà, che incoraggiava i suoi commilitoni con il suono della sua tromba e non abbandonava mai nessuno, nessuno si perdeva con lui accanto, nessuno veniva lasciato indietro. Il suo papà forte e coraggioso. Di mestiere Alpino. Lui il papà ce l’aveva ed era un papà eroe.
 
Rideva forte, Edamo. Rideva fortissimo. Era felice, felicissimo. Quasi impazzito di felicità.
 
A poco a poco le minuscole porticine delle antiche case in pietra si aprirono e sbucarono tante testoline incuriosite. In un istante erano tutti fuori. Bambini e bambine, ragazzi  e ragazze, a piedi nudi o con gli zoccoli, con gli scialli sulla testa o a capo scoperto, a lanciarsi in tuffi tra le neve che ormai era scesa abbondante ad avvolgere il borgo secolare. Tutti cianciavano e si davano la voce, facendo accorrere altra gente, i vecchi dalle stalle dove ruminavano le placide mucche, le massaie dalle cucine fumose, gli uomini dai fienili. Tutti animati da una gioia senza significato, ma allegra. Una gioia viva.
 
Era il 1947. La vita stava riprendendo a poco a poco. L’orrore della Seconda Guerra Mondiale con il suo tributo di giovani vite spezzate stava scemando come il fumo dai comignoli. Dopo lunghi anni di prigionia, sarebbero rientrati i reduci, portando notizie, fatti, ricordi, foto e testimonianze. A piedi, devastati, consumati, ma vivi.
 
«Io l’ho visto. Io c’ero. Guidava un mulo che trainava la slitta con sopra un tenente e un alpino gravemente feriti. Gli ho detto di venire con noi, che ormai eravamo salvi, ma lui mi ha risposto che non voleva abbandonare il suo tenente e il suo commilitone feriti. E così l’ho salutato.»
 
 
(In memoria dell’alpino trombettiere papà di Edamo Barbieri, Gruppo Bagnone, Sezione Massa Carrara – Alpi Apuane. La comunicazione ufficiale alla moglie: “Nella ritirata di Nikolajewka suo marito risulta disperso il 31 gennaio 1943”)
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