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Secondo 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Secondo 31

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA


"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026

Secondo classificato

Nettare bianco
di Barel Danila
Cappella Maggiore (TV)
 
 
Il vagito esplose nella camera come un tuono, scacciando le paure che avevano accompagnato i concitati momenti che lo precedettero.
 
Il respiro della vita si era palesato con tutta la sua dolce potenza. In quel suono soave c'era tutto: il dolore del parto, la forza della nascita, l'inizio di una storia piena di mille speranze.
 
Ines era impaziente di tenere tra le braccia quella creatura arrivata come un miracolo. Trascorsi pochi minuti, lunghi un'eternità, finalmente la levatrice le porse il vispo fagottino: un bel maschietto, che si sarebbe chiamato Giovanni, come il santo di quell'indimenticabile giorno di giugno.
 
Nel frattempo Sandro, il marito, si era rifugiato all'ombra del castagno accanto alla stalla. Con lo sguardo alzato, incollato alla finestra dietro la quale la natura stava confezionando il suo prezioso regalo, attendeva di essere avvisato del compimento del lieto evento. E quando questo accadde, scattò come una lepre, salì le scale e si precipitò nella stanza. Baciò Ines con rinnovato amore, mentre le mani ruvide accarezzavano il pargolo con commovente delicatezza.
 
La giovane coppia vedeva esaudito il desiderio più grande e questo bastava per guardare al futuro con fiducia e ottimismo, anche se le drammatiche ferite della guerra sanguinavano ancora. La ricostruzione era lenta e le famiglie di contadini non avevano risorse per ripartire. Potevano contare su attività di sussistenza che consentivano di tirare avanti, di riempire il piatto, ma in tasca rimanevano poche lire. Questa situazione obbligò molti bellunesi a cercare lavoro all'estero. Anche Sandro ci stava pensando. Era una questione di orgoglio, di voglia di riscatto, perché il frutto di tanti sacrifici non poteva essere la miseria. Non era più accettabile!
 
Intanto il piccolo Giovanni cresceva sano. Una gioia capace di alleggerire ogni peso, tranne quello che piombò violento e del tutto inaspettato una sera apparentemente normale. La giornata di sfalcio sul monte Talvena era stata molto faticosa e ritrovarsi tutti insieme per la cena rendeva la stanchezza piacevole, persino rilassante.
 
Erminio, il padre di Sandro, che era solito non proferire parola mentre mangiava, dopo un paio di cucchiaiate, a sorpresa, interruppe la liturgia: «C'è una cosa che devo dirvi.» esordì destando una certa preoccupata curiosità. Si doveva sicuramente trattare di una comunicazione della massima importanza, o tanto bella, o tanto brutta. Gli sguardi si incrociavano, si interrogavano.
 
«Ho trovato un lavoro ben pagato.» esclamò.
 
Ma quale lavoro poteva mai essere adatto a lui che soffriva d'asma? Se lo stavano chiedendo tutti.
 
«Il dottor Scomparin», spiegò, «sta cercando una balia per una famiglia di Padova. Dice che tu Ines hai tutti i requisiti. Sei in salute e hai tanto latte.»
 
«Ma come... io?» balbettò incredula la donna. «Io non posso... devo occuparmi di Giovanni!»
 
«Partirai tra due giorni!» fu la risposta secca che non ammetteva repliche.
 
Ines guardò il marito che se ne stava zitto, con gli occhi bassi, senza la benché minima reazione. Del resto in casa Sacchet solo uno era il capofamiglia: Erminio! E nemmeno suo figlio aveva voce in capitolo.
 
La cena proseguì nel più glaciale silenzio. Ines cercò di continuare a mangiare, ma il boccone non andava giù, fermato da quel soffocante nodo in gola che le toglieva il fiato. Proprio non capiva, e quel che era peggio, si sentiva tremendamente sola in mezzo alle persone più care.
 
Fu la suocera, a pasto concluso, a rompere il ghiaccio.
 
«Non essere preoccupata.» le disse. «So di altre donne che sono andate a fare la balia. Sono trattate bene e ben pagate. Vedrai, un anno passerà veloce e al piccolo Giovanni ci pensiamo noi. Lo lasci in buone mani.»
 
«Un anno?» obiettò Ines sbigottita. Come poteva un anno lontano dal proprio figlio di appena un mese passare velocemente?
 
Anche Sandro prese coraggio e timidamente si avvicinò alla moglie per rassicurarla, per farle sentire la sua vicinanza, ma era impacciato e intimorito. Le cinse un braccio intorno alla spalla e fu come aprire un rubinetto. Ines si lasciò andare in un pianto convulso che sfogò tutta la tensione che aveva accumulato in corpo.
 
«Ma tu lo sapevi? E cosa ne pensi?» gli chiese singhiozzando.
 
«Me lo ha detto solo ieri.» ammise l'uomo. «Anche per me è stato un fulmine a ciel sereno. Ho tentato di convincerlo che magari sarei potuto andare io a lavorare fuori. Ma c'è bisogno di me qui. Lo sai, mio padre con la sua asma non può fare molto.»
 
«Ma a Giovanni non ci avete pensato? Privarlo della mamma è una bestialità!»
 
«Sì, è vero... ma in fondo questo lo faresti anche per lui. E comunque sono molte le donne della zona che stanno facendo lo stesso. Non saranno mica tutte madri snaturate, ti pare?»
 
Ines accennò un mezzo sorriso. Buon segno! Evidentemente, superato lo stato confusionale, stava considerando la questione da un'altra prospettiva, forse quella giusta. Ma sì, anche se un anno era oggettivamente lungo, poi ci sarebbe stato tutto il tempo per recuperare quello perduto.
 
«Dobbiamo essere fieri.» aggiunse Sandro. «Siamo poveri, eppure abbiamo qualcosa che i signoroni delle città non hanno e che sono disposti a pagare caro. Il dottor Scomparin ha detto che le balie bellunesi sono le più ambite. Donne di montagna, forti e sane, garanzia di un latte di ottima qualità.»
 
Tutto sembrava risolto Ma è risaputo che le ragioni del cuore difficilmente vanno di pari passo con quelle della ragione. E quando due giorni dopo Ines si trovò ad allattare Giovanni per l'ultima volta, ansia e sconforto per l'imminente distacco ebbero il sopravvento. Le lacrime le uscivano abbondanti, forse quanto il latte, inondando il visino del bimbo costretto a interrompere bruscamente la poppata, mentre il suo pianto insistente, quasi inconsolabile, riempiva la stanza.
 
Non era così che Ines si era immaginata l'ultimo abbraccio con il figlio. Partì con il carico schiacciante di un senso di colpa del quale chissà se mai si sarebbe liberata.
 
«Mi raccomando, scrivimi ogni settimana!» supplicò al marito prima di salire sul treno. Il viaggio fu interminabile e penoso. Era una giornata torrida e mancava l'aria. Ma il caldo era solo una delle cause. C'era prepotente l'angoscia dell'incognito, di ritrovarsi catapultata in una città sconosciuta, in casa di estranei, per di più di alto rango. Il mondo contadino nel quale era cresciuta era lontanissimo da tutto questo e si chiedeva se sarebbe stata all'altezza. L'unica certezza era il suo pregiato nettare bianco del quale, come le aveva detto Sandro, doveva essere fiera.
 
Ad attenderla alla stazione c'era il notaio Rossetti in persona. Ines era visibilmente imbarazzata ma l’uomo, con i suoi modi gentili, seppe metterla a proprio agio.
 
«Benvenuta Ines. Oggi c'è un'afa insopportabile. Qui purtroppo l'aria fresca della montagna non arriva.» le disse mentre le prendeva la valigia.
 
«Sono certa che mi abituerò.» rispose prontamente lei, già più rilassata.
 
I coniugi Rossetti vivevano in pieno centro, in una villetta liberty. Luca era il loro primo figlio, nato con un parto particolarmente complicato. La signora, sofferente di cuore, aveva rischiato la vita nel darlo alla luce e ancora ne portava i segni. Gracile, con il volto scavato e marcato da un grigio pallore, dimostrava parecchi più anni di quelli che aveva. Tutto di lei era debole, anche il carattere.
 
Ines fu accolta come una di famiglia alla quale non si fa mancare nulla. Disponeva di un’ampia camera e di un bagno personale. I pasti variavano ogni giorno e bastava un banale starnuto per far arrivare il dottore. Certo il lavoro era impegnativo. Mai una giornata libera perché il pupo mangiava sette giorni su sette, e anche quando non mangiava richiedeva mille attenzioni. Ma i Rossetti sapevano essere riconoscenti. Ogni occasione era buona per un regalo: un vestito, una cuffia ricamata, una collana di corallo portafortuna.
 
Nonostante l’ottimo trattamento, se con Luca fu subito amore a prima vista, con la signora Rossetti la situazione era molto delicata, e non perché la donna mostrasse un atteggiamento ostile, ma perché sembrava del tutto disinteressata al figlio, tenuto a debita distanza. Una forma di allergia psicologica motivata da un forte senso di inadeguatezza. Si considerava una madre inutile, e se ne vergognava. Così Ines, mentre allattava, se da un lato si abbandonava all’estasiante illusione di tenere tra le braccia il suo Giovanni, dall’altro si colpevolizzava di rubare l’affetto del bambino che, naturalmente, si legava sempre di più a lei invece che alla  vera madre, tristemente assente.
 
Giorno dopo giorno, tra luci e ombre, il fatidico anno passò e Ines poteva finalmente tornare a casa, contenta, ma solo a metà. Salì sul treno accompagnata dallo stesso magone del distacco provato quando era partita. Di nuovo lasciava un figlio, di latte, ma pur sempre un figlio, al quale voleva sinceramente bene.
 
Quando arrivò a Belluno, Sandro era lì ad aspettarla. Si abbracciarono e si baciarono, emozionati come fosse la prima volta.
 
«Sei bellissima. Un po' pallida, ma bellissima!»
 
«Ma dai, non sono pallida. Ho solo la pelle chiara come le vere signore che stanno al riparo dal sole.»
 
La lontananza non aveva oscurato la loro voglia di scherzare, di tornare alla vita di sempre dopo la dura prova alla quale erano stati sottoposti.
 
Durante il tragitto verso casa Ines, euforica, incalzava Sandro con una domanda dopo l'altra, su tutto e su tutti. Si ammutolì di colpo quando il marito, senza dare spiegazioni, cambiò direzione per imboccare la strada che conduceva al cimitero, e che lì moriva. Ines rifletté per qualche istante e alla fine si fece un'idea.
 
«Non mi dire che è mancata zia Angela! Le ho fatto visita prima di partire e non stava per niente bene.»
 
Sandro non confermò. Preferì che a parlare fosse la croce davanti alla quale si fermò poco più avanti: “Sacchet Giovanni", così recitava la scritta. Era sicuramente un caso di omonimia. Questo pensò Ines di primo acchito, prima di aver letto la data di nascita subito sotto: “24 giugno 1948”!
 
L’atroce verità irruppe come una belva feroce e la povera donna ne fu dilaniata. Crollò inginocchiata davanti alla croce. Curva fino a toccare terra con il volto, affondava ansimante le mani nel terreno, alla spasmodica ricerca di un contatto con chi aveva perduto per sempre.
 
Sandro la lasciò sfogare, impotente. Quando la vide in procinto di rialzarsi si avvicinò per aiutarla, ma Ines lo scansò brutalmente mentre lo folgorava di rabbia. Per la prima volta provava disprezzo per quell’uomo che tanto amava ma che l'aveva tradita e profondamente delusa.
 
«Come hai potuto nascondermi una cosa tanto grave?» lo accusò. «Giovanni è morto da sei mesi ormai, ma nelle tue lettere stava bene, cresceva… tutte bugie! Ti rendi conto?»
 
«Non c’era comunque niente che avresti potuto fare.» si giustificò Sandro. «Dal dispiacere avresti potuto perdere il latte, compromettendo il tuo lavoro. Lo sai quanto era importante.»
 
Ines era troppo stanca per continuare a discutere e per ascoltare altri discorsi patetici. Arrivati a casa, però, la conversazione riprese inevitabilmente. La madre di Sandro, cercò di rincuorare la nuora spiegandole che era stato fatto tutto il possibile, che le cure non erano mancate. Quella era una magra consolazione, buona solo a zittire la coscienza e addossare la colpa al solito spietato destino. Invece era martellante il dubbio che se l’avesse allattato lei, anziché affidarsi al latte di capra, forse indigesto, forse anche infetto, quella maledetta gastroenterite non si sarebbe manifestata.
 
«Vedrai, avrai altri figli e dimenticherai questa brutta storia.» fu l’incoraggiamento della suocera che fece sbroccare Ines, rimasta composta fino a quel momento.
 
«Altri figli? Ma io non voglio altri figli per poi doverli abbandonare di nuovo. Il mio Giovanni non potrà mai essere sostituito. Mettetevelo in testa… tutti!»
 
E da quel giorno iniziò il suo sciopero, su tutti i fronti. Chiusa nella sua disperazione espiava la sua colpa isolandosi, convinta che nessuno fosse in grado di capire davvero il suo strazio. Solo dopo qualche settimana si rese conto che qualcun altro stava altrettanto male. Aveva notato che Sandro, stranamente, rientrava a casa sempre per ultimo, tanto che una sera gli chiese spiegazioni.
 
«Mi sono fermato al cimitero.» rispose.
 
«Da quando è successa la disgrazia non ha mai saltato un giorno!» precisò la madre.
 
Ines capì di non essere l’unica incompresa e soprattutto riconobbe in quell’uomo ruvido e aspro, apparentemente imperturbabile, tutta la fragilità e la sensibilità di una persona buona che non meritava di essere condannata senza appello.
 
Si era fatta accecare dal dolore e dal senso di colpa, ma ora il suo cuore era pronto a risvegliarsi. I due cominciarono pian piano a riavvicinarsi, a parlare, a condividere, ad aiutarsi a scacciare i fantasmi del passato.
 
Una vita serena era ancora possibile. Una bella famiglia era ancora possibile.
 
Un giorno di fine settembre si presentò a casa Sacchet una donna elegante insieme a un bambino. Cercava Ines. E Ines non credeva ai propri occhi. La signora Rossetti era l’ultima persona che avrebbe mai ipotizzato di vedere. Nonostante durante l’anno trascorso sotto lo stesso tetto si fosse creata tra loro solo una tiepida confidenza, avevano capito molto l’una dell’altra, entrambe impegnate a fare i conti con i sentimenti controversi di una maternità fuori dal comune.
 
Quando il piccolo Luca le tese le braccia chiamandola “mamma”, Ines, tremante dalla commozione, se lo strinse e se lo coccolò amorevolmente, mentre Anna, così si chiamava la signora Rossetti, le confessava sottovoce: «Pensa che ancora non mi ha mai chiamata mamma.»
 
Gioia e dolore continuavano a intrecciarsi, ad avvolgere e sconvolgere le due donne.
 
«Avrei voluto venire prima, appena ho saputo.»
 
«Ma saputo da chi?»
 
«Da tuo marito. Mi ha telefonato seriamente preoccupato per te… per voi. Io non posso più avere figli, ma tu non devi negarti il dono di averne. Ci ho riflettuto molto. Io verrei a trascorrere l’estate qui in montagna. Farà bene alla mia salute e anche a Luca, che avrà dei fratelli con cui giocare. Credimi, ricomincerai a vivere e avrai un'amica su cui potrai sempre contare, e viceversa.»
 
L'anno successivo, quando la famiglia Rossetti si trasferì a Belluno, la culla di Giovanni non era più vuota. I cuori non erano più vuoti, e nemmeno soli.
 
Uniti dal legame di latte di una bella famiglia allargata .
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