Rosa 31
Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade
PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA
"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Premio speciale "Rosa d'argento Alpino Carlo Tognarelli"
Fiori nella Roccia
di Azzola Michela
Pradalunga (BG)
«Nonna, perché hai le mani così rovinate?»
La voce di Anna rompe il silenzio, mentre siamo sedute al fresco sulla panca della cappella laterale del Santuario della Forcella.
Ha appena finito un ghiacciolo all’amarena, le dita appiccicose e rosse. Guardo le mie mani, come le guardo da una vita, con tenerezza e orgoglio. Vecchie mani di una donna che ha vissuto una vita intera.
«Perché le ho usate tanto, amore mio. Per lavorare, per crescere la tua mamma e tuo zio. Per tenerti in braccio quando eri piccola.»
Lei annuisce piano, come se stesse cercando di capire qualcosa che ancora le sfugge. Poi si stringe a me.
«Sono mani forti» sussurra.
Sorrido. Guardo la parete che ho di fronte, adornata di quadri e le montagne che fanno capolino dalla finestra di questo piccolo tempio.
Non ho mai avuto delle belle mani.
Non ricordo quando è stata l’ultima volta in cui la pelle delle mie mani era morbida e vellutata, forse quando ancora mamma mi intrecciava i capelli e mi accarezzava il viso la sera, davanti all’ultimo tepore della stufa.
Ora sono tozze, piene di cicatrici e rughe, piegate come rami sotto il peso della neve.
Eppure, sono queste mani che mi hanno portata fino a qui. Mi hanno cucito la vita addosso, anche se rattoppata in più punti.
Mi chiamo Teresa, e sono nata a Pradalunga nel 1898, in una piccola casa di pietra, con i muri che sapevano di fumo e polvere.
Mio padre lavorava nella cava del Monte Misma, come suo padre prima di lui. Erano Coderòcc - uomini delle rocce- abitanti del buio delle vene della montagna, dove il sole non arriva mai.
La Pietra Cote era la nostra fortuna, ciò che nutriva le nostre famiglie, ma anche la nostra condanna.
Nelle valli la chiamavano “la pietra che affila il ferro”, ma io ho sempre pensato che affilasse anche le persone. Le rendeva taglienti, essenziali. Nessuno di noi parlava troppo, nessuno si lamentava.
Mia madre invece, oltre a crescerci come meglio poteva, tra latte e polenta, cercava di guadagnare qualche lira in più al mercato, vendendo castagne ed erbe, che raccoglieva nei boschi. Aveva mani scure, callose, che reggevano sempre un cesto di paglia intrecciata che odorava di muschio e terra umida.
Da piccola la seguivo sempre nelle sue lunghe camminate, scavalcando rami secchi ed inciampando tra i ricci. Mi insegnava a non avere paura delle spine: “Le cose buone stanno sempre dentro ciò che punge”, diceva.
Instancabile, quando c’era lavoro si occupava anche di levigare, rifinire ed etichettare le pietre che i Pichècc, gli scalpellini, avevano sagomato con i loro martelli. Le Fitadùre non venivano pagate molto, ma quel poco faceva la differenza per le loro famiglie.
Era una donna bella, avvolta da grazia silenziosa. Capelli corvini raccolti in un’alta crocchia, occhi verdi come le prime foglie primaverili.
Stanca, sempre, ma fiera. La forza che contraddistingueva gli animi delle donne di montagna vibrava nell’aria tra le vecchie case di pietra, dove canti antichi e frasi in dialetto riempivano le giornate.
Avevo appena compiuto sedici anni quando papà morì.
Un blocco di pietra e terra gli crollò addosso all’improvviso nella cava dove stava lavorando. Era una giornata serena, dissero. Il cielo era terso e pulito, la roccia della cava no.
Lo piansi, come ormai ogni giorno era consuetudine fare. Che si trattasse di un giovane o un anziano, la montagna inghiottiva indistintamente senza dare spiegazioni, con freddezza e tirannia.
Lo trovarono dopo tre giorni, insieme a Piero, il suo migliore amico.
Erano cresciuti insieme, nella stessa contrada, divertendosi prima a far rimbalzare sassi nel fiume Serio e poi a fischiare alle belle ragazze che lavavano il bucato lungo il torrente.
Una vita insieme, fino alla fine.
Anche io avevo un amico d’infanzia: Antonio.
Alto, forte, con una voce che sembrava fatta per raccontare storie.
Lui mi guardava come se valessi più di tutto l’oro della terra. E così, quando rimanemmo entrambi soli dopo la morte di papà, ci stringemmo.
Le mani dei vivi cercano quelle dei vivi, per non cadere. Ci sposammo. Facemmo due figli, Bianca e Aldo.
Furono anni felici, non avevamo grandi cose, ma ciò ci bastava.
Poi venne la guerra ed Antonio partì. Ogni tanto arrivavano lettere, con poche righe di rassicurazioni scritte con la sua traballante grafia. Non raccontavano mai quello che stava vivendo.
Poi un giorno tornò, come ben pochi della valle ebbero il privilegio di fare. Arrivò piano, una sera d’autunno. I bambini erano già a letto e io me ne stavo a rammentare calzini vicino alla stufa ormai dormiente. Quando entrò in casa, notai subito che portava il suo cappello con la lunga piuma nera. Chissà se era quella di un corvo: non ebbi mai l’occasione di domandarglielo. I suoi occhi erano segnati da un’aurea violacea e le mani scosse da un fremito intermittente. Quella notte lo sentii piangere, ma non seppi per cosa o per chi.
Non rideva più e a malapena parlava di ciò che era successo, di ciò che aveva visto.
Si buttò dalla sommità della cava una mattina di fine novembre, lasciandomi sola con i nostri due bambini. Nessun biglietto, nessun messaggio, solo un pesante silenzio.
Il giorno del funerale, andai a cercare il suo cappello dalla lunga penna. Volevo che accompagnasse il corpo di Antonio per l’eternità.
Lo trovai in un armadio e quando lo presi in mano, notai che all’interno era presente una piccola fodera. Nascosta internamente una foto ripiegata. Era una delle poche che avevamo insieme, ci ritraeva il giorno del nostro matrimonio, giovani, felici e sorridenti.
Le mie lacrime iniziarono a bagnare il feltro verde del cappello. Antonio mi aveva portata sempre con sé, nonostante il suo dolore.
Il paese si strinse a me, c’era chi mi lasciava mele sulla soglia, chi mi aiutava a sistemare il tetto dopo un temporale. Continuavo a lavorare con le Fitadùre, ma eravamo in tante e il lavoro non bastava per tutte.
I bambini crescevano e la fame non era mai sazia.
Un giorno andai dal capocava. Gli chiesi se potessi lavorare per lui.
Spaccare, ripulire, portare acqua. Qualsiasi cosa. Il lavoro in cava era quello meglio pagato, anche se il più rischioso.
Mi guardò, come si guarda un animale ferito e disse «Se non ti fai male, puoi provare». Lavorare la pietra è diverso da ogni altro mestiere. La pietra va capita, ascoltata, accolta. Le mie mani impararono a farlo. Diventarono dure, forti e rugose.
Mi svegliavo alle cinque, preparavo i bambini, li lasciavo a mia mamma, ormai anziana e salivo per il bosco, che ancora era mezzo addormentato.
Nella cava si parlava poco. Ero l’unica donna. I più giovani ridevano di me, ma nessuno lo faceva due volte. Avevo capito che per essere rispettata, dovevo farmi rispettare. Come la roccia, anche i miei modi, addirittura la mia voce, si stavano rafforzando.
Ricordo bene il giorno in cui arrivò Carlo. Aveva poco più di quindi anni, occhi chiari e pelle troppo delicata per un lavoro come quello in miniera. Sembrava spaesato, come se la montagna lo spaventasse. Era il figlio dell’insegnante del paese, la signora Adele, rimasta anche lei vedova dopo la guerra.
Si muoveva male, con insicurezza e goffaggine. Ogni tanto imprecava, ma pure le parolacce e gli insulti venivano proferiti con poca credibilità. Mi fece subito tenerezza, vedevo in lui un ragazzo che non aveva avuto altra scelta, come lo fui io anni fa.
Gli insegnai allora a riconoscere il suono della pietra, a leggerne il colore e la forma. Con me imparò ad usare le sue delicate mani con destrezza, senza farsi male.
Nei pochi momenti di pausa, lo intravedevo sempre intento a scarabocchiare qualcosa su un piccolo taccuino che teneva sempre appresso. Era così concentrato, che in quel frangente le sue orecchie sembravano immuni perfino al frastuono della dinamite.
Un pomeriggio di settembre, mentre il sole si abbassava dietro al castagneto, sentii un boato. Una porzione di parete era franata proprio dove Carlo, fino ad un attimo prima, se ne stava seduto.
Urlai.
Corsi e incominciai a scavare con le mani nude. Le unghie si rompevano e l’odore di sangue e polvere mi riempiva il cervello.
Ripetevo il suo nome, esausta, come fosse un rosario e intanto scavavo nei detriti. Mi raggiunsero tre uomini che avevano sentito le mie urla. Nessuno di loro chiese nulla, sapevano benissimo cosa fosse successo. Scavarono anche loro, con foga e ferocia.
Poi, si udì un colpo di tosse. Lo tirammo fuori. Ferito, con il viso insanguinato ed una gamba rotta, ma vivo.
Gli anni passarono. Carlo non tornò più alla cava, come i miei figli, anche lui partì per la città. Le miniere si svuotarono, le mani si fermarono.
Rimasi in paese, tra i ricordi delle persone che non c’erano più e i pochi rimasti. Continuai a salire al Santuario della Forcella ogni domenica, anche quando le gambe mi facevano male, per ringraziare la Madonna di avermi sempre protetta ed aiutata.
Un giorno, qualcuno disse che c’era un nuovo quadro votivo nella cappella laterale. “Dicono che l’abbia donato un’artista famoso, raffigura la Madonna del Misma” Andai a vederlo.
Mi sedetti di fronte e piansi.
Il quadro raffigurava una donna. Le mani rovinate, sporche, le unghie rotte e i polsi fasciati. Il volto segnato, ma dolce. Lo sfondo raffigurava una cava, circondata da alberi di castagno e una grossa frana. Riconobbi quella figura, quelle mani.
Sul bordo inferiore, una scritta:
“A tutte le mani di donna che hanno retto il mondo in silenzio”. In un angolo in basso a destra del quadro, una firma, Carlo N.
Non era una madonna quella raffigurata nel quadro. Ero io.
Quel ragazzo impaurito, sporco di polvere e sangue, era diventato un pittore. Non si fece mai più vedere a Pradalunga, lasciò lì il quadro, in silenzio.
Da allora, le donne del paese iniziarono a portare fiori sotto a quell’immagine. Dicevano che era miracolosa, che proteggeva.
Io non dissi mai nulla. Mi limitavo a sedermi, ogni domenica, su quella panca. Osservavo il quadro. Guardavo le mie mani.
«Nonna… ma sei tu?», chiede Anna, ancora con la lingua rossa per il ghiacciolo. Mi guarda con quegli occhi grandi che sembrano aver capito tutto.
Sorrido. Le passo una mano tra i capelli.
Le mie dita sono ruvide, ma lei non se ne accorge.
«Le donne sono forti», sussurra, tornando a guardare il quadro.
Annuisco e le prendo la sua piccola mano nelle mie. Poi alzo lo sguardo e torno a guardare “La Madonna del Misma”.
Penso alla sua storia, appena narrata, ripenso a Carlo, ad Antonio, a mio padre e a tutti coloro che ci furono un tempo. Guardo quelle mani così realisticamente dipinte.
Mani che non hanno mai conosciuto riposo. Mani che si sono indurite, come la pietra.
Mani che hanno scavato, levigato, salvato.
Mani di donna, che sono state capaci di rifiorire sempre, nonostante tutto.