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Primo classificato - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Primo classificato

Tutte le edizioni > Edizione scuola > 2024-08-06
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE RISERVATO ALLA SCUOLA
PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna e il suo mondo

IV EDIZIONE - Vittorio Veneto 08 Giugno 2024
Primo classificato

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Davide Rossi
4^D – Liceo Artistico
“Bruno Munari”
Vittorio Veneto (TV)


Dedicato al nonno che non ho mai conosciuto, che tanto amò e difese con coraggio la sua amica
montagna.
Una lingua di fiamma trascinata dal sole era corsa a nascondersi dietro i monti e me ne stavo sola al bivacco, davanti allo scoppio del fuoco, ad aspettare qualcosa. Il tempo mi aveva lasciata in preda a una lugubre distesa di nero lungo le vuote stradine del paese affamato di voci.
Troppi gridi da lassù in cima alle montagne, troppi tuoni artificiali inerpicati lungo fianchi scoscesi.
Le vette della Carnia quella sera erano lapidi testimoni di morte, e sovrastavano me.
Il giovane che mi stava davanti, disteso vicino al focolare, conosceva bene ciò che le alte vette occultavano. Un tempo lì vi erano pascoli in fiore e tappeti verdi, ma nei suoi occhi socchiusi intravedevo una piatta superficie lunare macchiata
di pece, cespugli di fuoco e solchi neri. Lo guardavo desiderare il sonno, quando le palpebre si congiungevano per poi strapparsi all’ennesimo boato
stridente.
Era guerra, la Guerra. Nel suo volto le guance erano arrossate, una virgola di capelli morta addosso alla fronte umida, sudore dei volti di un’intera armata, di padri costretti a lasciare le proprie famiglie, vecchi affranti, sognatori impietriti,
fanti e bombardieri orchestrai di una tacita sinfonia di pianti.
«Finirà mai tutto questo?»
Un mormorio aveva colto la mia attenzione. «Hai parlato?» chiesi rivolta algiovane.
Mi scrutò accennando con un gesto di dita. «Sei sola?»
Eravamo soli da più di un giorno, da quando le altre donne della casa erano partite con le gerle sulle spalle lungo le fienagioni e i sentieri che conducevano a monte. Per tutto il giorno non mi ero preoccupata d’altro che di rinvigorire le braci, mescolare la Jota all’interno del calderone, uscire a lavorare l’orto e riposare nel silenzio della casa spoglia di vita, occupandomi di lui e di medicare ble sue ferite di tanto in tanto. «Le altre donne sono partite a consegnare i rifornimenti al fronte.»
Il giovane tentò di destarsi dalla brandina di sacco su cui era adagiato, ma nel primo tentativo emise una smorfia di dolore. «Ah! Fa ancora un po’ male, ma sento che...»
«Riposa» gli dico. «Non c’è bisogno che ti alzi.»
«Un momento.»
Sollevò la mano, avvolta da una benda, e se la portò lungo il fianco.

Lo vidi stringere una penna nera come la pece, quella posta sulla fascia del cappello verde che indossava il giorno in cui lo trovammo accasciato fuori dalla porta di casa, in una pozza di sangue adagiata sulla neve con una delicatezza da non credere. Teneva accostato continuamente quel cappello al fianco
anche mentre dormiva.
«Per cortesia, avreste un goccio d’inchiostro e un piccolo foglio da darmi?»
Conservavamo i boccini di inchiostro e la carta da lettere sopra il banco della cucina. Ce li aveva forniti l’esercito per permetterci di comunicare con loro.
«Ecco a voi» dissi porgendoglieli.
Intinse la punta della penna nell’inchiostro e scrisse due righe di corsivo
sbavato, digrignando i denti mentre cercava di reggere il polso su una
superficie solida, appoggiandosi sul fianco indenne. Lo stetti a guardare, nel frattempo rimembravo le mie preoccupazioni sulla salute delle mie amiche lì fuori, su per le ispide pietre della catena montuosa a distruggersi la schiena. D’altronde era tutto ciò che potevamo fare per contribuire alla salvezza dei
nostri uomini lassù al fronte.
«Vuoi un po’ di zuppa?» gli chiesi.
Mi guardò di soppiatto. «Sì, se è possibile.»
«Non sarà il massimo» dissi versandogli una razione dentro a una ciotola.
«I mar e i monti no son mica de polenta e de tocio.»
«Scusa?»
«Da queste parti non cantate questa canzone?»
«No», risposi con un’aria incuriosita. «Di cosa parla?»
«La cantavamo spesso ai filò, quando nelle nostre pianure venete il sole
calava. Dice che se mari e monti fossero fatti di tocio e polenta si farebbero tante di quelle tociade!»
Sorrisi, era da tanto che non mi capitava. «Ah, sarebbe meraviglioso.
Ma io la vedo diversamente.»
«Perché?» chiese il giovane cacciandosi in bocca una cucchiaiata di Jota.
Sospirai. «Vedi, vivo in questo paese da ormai vent’anni.
Per me queste montagne significano vita, sono le mie seconde madri.
Anziane, addormentate nei secoli hanno vegliato al di sopra delle guerre, delle ribellioni, della vita che c’è stata prima di me.
Tra le loro fibre c’è una fibra anche di me, le loro rocce sono opere d’arte che riesco a sentire anche quando cammino scalza a occhi chiusi, correndo tra le gole attraversate dai banchi di nuvole. Nei loro boschi mi sono avventurata sin da piccola quando andavo in cerca di angeli.
Ora è cambiato tutto, gli angeli sono spariti per lasciare spazio ai demoni, e odo i loro passi dietro a ogni pietra.
La montagna è una vita trascorsa e lasciata soffrire, è colei che ho abbandonato da quando mi hanno costretta a rimanere qui.»
Esitai nel silenzio guardandolo mangiare davanti a me, forse disilluso,
più concentrato a riempirsi lo stomaco che ad ascoltare i miei inutili lamenti.
Poi però lo vidi adagiare la ciotola e mettersi a guardarmi dritto negli occhi.
«Di gente ne ho vista, mercanti sui loro carri scendere a valle da qui e
raccontarmi di lei. Eppure sei la prima persona che incontro a parlarmi dei monti in questo modo.»
Sorrisi nuovamente. Il giovane riprese. «Ecco vedi, quando quel giorno mi
diressi alla piazza del mio paese tutti gridavano: “Guerra!”.
Tutti gridavano alla patria, e gridavo anch’io, ma non solo per quella.
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Gridavo per la mia amica lontana che ogni mattina scorgevo tra le prime sagome dell’aurora, la montagna che di lì a poco avrei scorso infiammata di guerra e che mi faceva paura. Ma non mi sono mai tirato indietro, sui miei passi e col mio cappello in testa ho lottato per difenderla. Lei è l’antica roccia bella da cui sono nate tutte le bellezze delle cose che abbiamo costruito, lei è l’amica che difenderò e che al limite della mia abnegazione, umiltà, e dovere libererò dal male che sta calpestando il suo suolo.»
«Sei un giovane coraggioso» dissi accostandomi alla sua branda. «Come hai potuto voltare le spalle ai tuoi cari per inseguire tutto questo?»
Distaccò gli occhi. Per un attimo il suo sguardo si adagiò appena sopra al
davanzale della finestra, dove una cristallizzazione di ghiaccio aveva i
ntrappolato al vetro un santino della Beata Vergine su cui era inciso un graffio d’inchiostro riportante il nome di una donna. Respirò aspramente.
«Si dà la vita per le cose che si amano, e si amano le cose che ti sanno dare la vita.»
I nostri sguardi tornarono a congiungersi in un’aria sottile di caldo tepore,
temprata dagli scoppiettii del focolare. «Amo la mia famiglia, amo i miei cari, ma non amo venir meno al mio dovere. Un dovere come il mio ti spinge a compiere delle buone azioni, e la cosa più importante in questo momento è compiere qualcosa di buono per questo piccolo mondo.»
«Qualcosa di buono per questa terra... se solo l’uomo capisse dove è possibile fare qualcosa di buono.»
«È nel rispetto reciproco che troviamo la risposta. La montagna ha sempre rispettato ogni nostra azione, persino la più malvagia. Perché non dovremo rispettare anche lei?»
Si rigirò sulla branda avvolgendosi con la coperta. «Sento di dover riposare, il dolore se ne sta andando a poco a poco.»
«Sì», risposi. Mi sollevai da terra e sedetti sulla panca, tornando a carminare le fila dei gomitoli e a setacciare le pagine ingiallite di qualche libro reduce dei tempi dove tutto ancora andava bene. «Amico.»
«Sì?»
«Scrivi poesie nel tempo libero. Non è così?»
Mi guardò con un’aria orgogliosa. «Spulcio qualche libro e cerco di imitarlo.»
Si vedeva, lo riuscivo a percepire dal modo in cui parlava. «Grazie per il
rispetto reciproco che ci portiamo.»
La notte infierì sulle fessure dei balconi, avvolgendo nel buio la nostra
esistenza per molte ore. Nel buio, alla scarsa luce delle carbonelle nascoste sotto la cenere caddi in un sonno profondo fatto di immagini di freschi prati e rigogliose pinete di fiori. Danze di stormi, mosche e cerbiatti di un selvaggio paradiso dimenticato nei mesi. Le foreste, i torrenti, gli arbusti selvatici,
i cammini dirupati, ardui da salire e da discendere, precipizi e torri incidentate col cielo leccate dalle nuvole che come lingue di vapore sovvenivano tra le punte dentate del suolo. E dolci voci di pascoli e fruscii di steli verdi, scricchiolii di fronde oscure, passi solenni su teli morbidi. Passi aspidi e forti come pietre che ruzzolano da un ghiaione.
Mi svegliai improvvisamente: passi bruschi e gravosi risuonavano fuori dalla casa.
«Ehi», mi bisbigliava il giovane. «Sono qui le tue amiche?»
Mi destai bruscamente dalla panca su cui mi ero addormentata.
Non appena poggiai i piedi per terra udii delle voci maschili che parlavano
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tedesco.
Inorridii. «Sono loro...»
Il giovane si tolse la coperta di dosso. «Austriaci, i diavoli.»
Mi ritrovai cinta dal panico, col un solo pensiero: «Dobbiamo nasconderci.»
«Ist hier jemand?»
«Chiedono se c’è qualcuno», mi bisbigliò il giovane. Li sentivamo battere alle porte di ogni casa. Mi affacciai a una fessura: il candido suolo di ghiaia e due sagome brune. Era ormai giunta l’alba.
«Presto, dobbiamo fuggire. Se rimaniamo qui entrano in casa e ci ammazzano. Usciamo dalla porta dell’orto, intrufoliamoci nella viuzza qui dietro e scappiamo nel bosco.»
Aiutai il giovane a sollevarsi. Mi chiese il cappello e la penna. Riusciva a reggersi in piedi a stenti. «Coraggio.»
Gettandomi addosso lo scialle nero uscii fuori nell’orticello. Oltre il muretto incombeva il passo dei due soldati.
«Usciamo, vieni!»
Il giovane mi si parò davanti ed io lo seguivo tenendomi aggrappata alle sue spalle larghe. Ci inserimmo lungo a una fessura tra due barriere di pietre che terminava addosso ad un muro d’alberi, l’accesso al bosco.
Si levò un grido minaccioso: «Hier sind sie!»
Uno sparo acuto ruppe l’aria sopra di noi, una calda ventata di sgomento ci indusse a correre. Erano dietro. Entrammo nel sottobosco quando un secondo sparo sollevò un guizzo di polvere. Caddi a terra spaventata, pelle a pelle con il suolo. Due grosse mani mi afferrarono da dietro, mi strinsero i lombi e mi
caricarono su un corpo ruvido e vigoroso. Il giovane mi stava portando sulle spalle, correndo il più possibile in mezzo alla fitta boscaglia, fino ad una cinta muraria in mezzo a dei pruni, rovina di un’antica costruzione. Sentivamo
altrettanti passi incombere tutt’attorno a noi dietro a ogni tronco.
«Amica», disse il giovane riadagiandomi a terra, «Se esco allo scoperto
crederanno che il fuggitivo è uno solo.»
«No!» disperai gettandogli le mani addosso. «Non ti permettere, rimaniamo nascosti qui sotto a questi rovi, ci salveremo te lo prometto!»
Vidi le sue pupille riluccicare nella folta coltre d’aria che ci separava.
«Questo lo dovrai fare tu.»
Corse avanti oltre il muretto, nel mezzo dello spiazzo vuoto. Un nulla,
dall’istantanea apparenza di quiete, greve e un silenzio pungente come il
freddo. Si voltò a guardarmi. Non c’era più nulla, se non la morte nascosta dietro l’angolo e riflessa nei suoi occhi. Volli gridare, ma appena la vidi fuggii.
Uno sparo assordante mi spinse da dietro le spalle, e cercai di fuggire veloce, sempre più veloce, battendo il passo sulle pietre davanti a me, fino a dietro a un tronco. Nascosta dallo sguardo del nemico mi accucciai in una tana
sottostante a una vecchia corteccia caduta. Tutto era tornato nel silenzio.
Avrei desiderato porgere gli occhi altrove, o semplicemente vedere che cosa era successo al giovane. Ma nulla, solo lacrime e silenzio, e tanto silenzio nelle mie lacrime. Perché avrei voluto urlare, gridare al mondo che una vita quella notte era stata tolta per me, ma non potevo, o quel sacrificio sarebbe stato più vano della guerra. Udii il passo del nemico allontanarsi, trascinandosi dietro un fruscio di foglie secche. Esitai non pochi istanti, quando tutto sembrò
terminare uscii dal mio nascondiglio, in preda alla disperazione camminai
quatta in mezzo agli alberi ripercorrendo il sentiero da cui poco prima ero
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scappata, col fiato sospeso e il cuore in gola.
Cercavo lui, il mio salvatore, disteso a terra, un’altra volta, morente.
Forse non più con un volto, trasfigurato da un colpo di proiettile, o forse ancora vivo e bisognoso di me. Giunsi allo spiazzo dove poco prima l’avevo visto per l’ultima volta. Non c’era il suo corpo, non c’era più niente, nemmeno la minima parvenza che quello fosse un posto di guerra. Era tutto così come l’avevo
sempre conosciuto, un anfiteatro di abeti e arbusti crespi, di rocce antiche
vestite da rune di muschio, cinguettii di uccelli, profumo di fango e di fiori.
Al centro della radura scorsi un dettaglio in mezzo al verde, illuminato da una lama di luce albina che trafiggeva il sottobosco come una freccia. Mi avvicinai, e vidi adagiata a terra la sua penna nera, alla cui punta era stato arrotolato il foglio su cui aveva scritto quelle due righe sbavate di inchiostro. Lo tolsi con delicatezza anche se le mani mi tremavano forte e lo srotolai con le dita. Con gli occhi ancora umidi di lacrime lessi ciò che aveva scritto di suo pugno poche ore prima.
“In mezzo a queste cime mi sono fatto coraggio, e grazie a te, amica mia, si è avverato il mio più grande sogno. Alla mia adorata patria”
Caddi assieme al suo cuore, vedendolo disteso nella luce radente, tra le punte di erba verde gocciolanti di rugiada, come se avessero appena pianto.
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