Vai ai contenuti

Cecconato 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


Salta menù
Salta menù

Cecconato 31

Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Premio speciale "Trofeo Cav. Uff. Cecconato Florindo"

QUERCIA LUCERNA
di Borella Caterina
San Fior (TV)
 
 
C’era un punto, in fondo al suo piccolo appezzamento di terreno, dal quale Gino controllava spesso con preoccupazione la sagoma della chioma del suo grande faggio. Proprio lì di fronte, sulla linea di confine con un altro tratto di bosco, svettava da sempre una possente quercia ed era evidente che le due piante si contendevano la luce. Per anni il faggio aveva avuto la meglio, con grande compiacimento del proprietario, e aveva guadagnato perfino qualche metro in altezza sulla pianta rivale.
 
Ma ora che si era stabilizzato pareva subire la controffensiva tenace e orizzontale dei rami di quercia che gli accerchiavano il fogliame, insidiandone le fronde come tenaglie minacciose. Quel faggio era ormai diventato per Gino l’emblema di suo nonno Egidio, l’ultimo degli scatoleri del Cansiglio. Uno di quegli artigiani straordinari che aveva saputo lavorare i tronchi di faggio dell’Altopiano per ricavarne stampi circolari in cui colare il formaggio o preziosissimi contenitori stagni, in grado di conservare cibi e vivande per intere stagioni.
 
Da un po’ di tempo girava la voce che qualcuno avesse comprato il minuscolo capanno diroccato nel terreno confinante, quello appunto dove sorgeva la quercia. Gino aveva appreso la notizia dapprima con cauta curiosità, per passare presto a uno scetticismo diffidente, non appena sentì che i compaesani avevano ribattezzato il nuovo proprietario come ‘lo slavo’.
 
“Cosa diavolo può capire dei nostri boschi uno straniero? Che ne sa dei segreti dei nostri alberi? E se anche lo incontrassi, in che lingua mai dovrei parlargli?” pensava fra se’ irresoluto quando alla sera spingeva lo sguardo al limitare del suo terreno, seguendo con occhi apprensivi lo stato d’assedio subito eroicamente dal suo faggio di famiglia. Ma come accade per tutti gli incontri che si temono e non avvengono, lo slavo non si faceva mai vedere. Eppure, qualcuno aveva iniziato a prendersi cura di quel terreno per anni abbandonato, Gino ne era certo. Aveva notato che molte ramaglie sparpagliate erano state un po’ alla volta accatastate in cumuli ordinati e le ghiande cadute copiose dalla quercia fino ai piedi del suo faggio erano state raccolte.
 
Come accade per gli incontri a lungo temuti, quando poi avvengono ci colgono perfino alla sprovvista, e così fu per Gino il pomeriggio in cui si imbatté inaspettatamente nel nuovo proprietario. D’istinto lo affrontò con spirito guardingo. Aveva appena completato il suo giro di ricognizione di fine giornata, quando se lo trovò di fronte: un uomo di mezza età, di alta statura e dal fisico robusto. Si accorse subito che parlava italiano, anche se con un accento gutturale che rendeva la voce a tratti cavernosa. “Buongiorno, io sono il vostro nuovo vicino, mi chiamo Damir ” si presentò sorridendo e tendendogli la mano. Gino ricambiò forzatamente il sorriso rispondendo al saluto e per mascherare la sua diffidenza ripeté goffamente: “Damir?”  “Si, è un nome croato…significa colui che dona la pace”. Damir era nato in Italia, ma il padre era di madrelingua croata e aveva abbandonato l’Istria nel dopoguerra, fuggendo dai soldati di Tito. Scambiarono un paio di battute sul paesaggio così affascinante di tutta la zona dell’Alpago e finirono presto per guardare i due alberi che li sovrastavano. “Quando ho visto questa quercia mi sono convinto a comprare il terreno. E’ un esemplare bellissimo, in Istria la chiamiamo quercia lucerna, un albero fortissimo.”
 
“Eh sì, una bella forza, si vede” commentò Gino, sicuro che la propria ironia non sarebbe stata captata. “Ma perché lucerna?” aggiunse incuriosito “so che esistono centinaia di tipi… cerro, farnia, leccio, roverella…”
 
“Questa è la quercia che riveste colline intere lungo le coste, fino giù in Dalmazia. I Veneziani hanno usato enormi quantità di querce istriane per gettare le fondamenta della Serenissima. Un legno speciale, che resiste al sale, non marcisce in acqua e non cede a nessun vento…Anche nell’ inno croato c’è una strofa che canta la sua resistenza …’ finché la bora le tue querce sferzerà ‘, che significa per sempre, perché non esiste una quercia che ceda al vento”. E sgranò di nuovo un sorriso energico, come quello di prima, che gli conferiva un’aria di innegabile simpatia.
 
A sua volta, con pizzico di spirito revanscista, Gino si affrettò a magnificare il valore storico straordinario dei faggi del Cansiglio. Quella foresta per secoli aveva rifornito l’arsenale veneziano permettendo la costruzione dei migliori remi al mondo per una flotta che dominava l’Adriatico. Parlò di suo nonno, del mestiere ormai scomparso degli scatoleri, fino a rivelargli quale valore affettivo, addirittura sacrale, avesse per lui il faggio di confine. Peccato che negli ultimi tempi mostrasse di soffrire l’esuberanza della quercia…
 
“Niente paura!” lo rassicurò Damir, come se avesse intuito con chiaroveggenza i timori più reconditi di Gino. “La quercia è forte e proteggerà il faggio dal vento. Le loro chiome si uniranno. Le loro foglie si intrecceranno e i rami si daranno sostegno a vicenda…vedrai, ci sarà luce e vita per tutti e due.”
 
Ormai stava calando il sole e Gino si accomiatò invitandolo la sera successiva dentro al suo piccolo casale. Voleva presentargli la moglie e i due figli adolescenti, si sarebbero conosciuti meglio davanti a un fuoco e gli avrebbe regalato una scatola di faggio.
 
E così fu. L’indomani verso l’ora del tramonto, che quelle sere autunnali scorciavano sempre prima, Damir si presentò al piccolo casale di Gino.
 
Le presentazioni furono rapidissime e in pochi attimi si trovarono tutti seduti sulla panca a semicerchio attorno al focolare che già crepitava scaldando l’atmosfera.
 
Damir era molto estroverso e socievole. Con il suo fisico robusto e la voce gutturale sembrava un gigante buono piombato nell’angusto spazio domestico di Gino e dava l’impressione di trovarsi a suo agio. Tirò fuori dalla tasca del suo pastrano un sacchetto di iuta dal quale estrasse alcune manciate di ghiande. Le gettò con un lancio calibratissimo alla base delle fiamme, vicino alle braci. “Ecco, vedete? spiegò sotto gli sguardi incuriositi di tutti, specialmente dei giovani figli di Gino che ascoltavano tutt’orecchi quella parlata così primordiale e autorevole al tempo stesso, “le ghiande della quercia lucerna, soprattutto quelle vuote e stagionate da almeno mezzo anno, servono ad animare il fuoco . E in effetti il baluginino che creavano era immediato, brillavano incandescenti per alcuni secondi assomigliando a delle minuscole lanterne, suscitando divertimento nei ragazzi. Scoprirono che Damir era stato anche insegnante per alcuni anni nella scuola slovena di Trieste e forse questo spiegava la sua propensione naturale a raccontare e intrattenere. Conosceva molto bene la storia di Venezia, di cui enfatizzava i legami con la terra d’origine di suo padre, ossia l’Istria. Oltre centomila querce istriane erano servite per le fondamenta del solo ponte di Rialto, quando nel Cinquecento i Veneziani decisero di riedificarlo in pietra. Fu bandito un concorso per raccogliere il progetto migliore e fra i tanti illustri partecipanti, inclusi Michelangelo e Palladio, alla fine vinse Lorenzo Da Ponte con la sua geniale idea di un unico arco che permettesse di attraversare la città ai pedoni e alle imbarcazioni contemporaneamente. Così sopra questa gigantesca foresta subacquea di querce anche la spettacolare struttura in pietra rivelava il debito verso la sua terra, perché si trattava della celebre pietra d’Istria. Quella pietra diafana, che ancora più del marmo riflette scintillando non solo la luce del sole ma perfino quella della luna, era il nucleo calcareo di scogli e rocce che biancheggiano fra Parenzo e Pola, o nelle cave di Orsera e Rovigno.
 
Damir gettò un’altra manciata di ghiande secche che si incendiarono schioccando come lapilli sul fuoco e continuò:
 
“Sono state le schiene di tanti antenati sia miei che vostri a trasportare gran parte di questi pesi, a caricarli e scaricarli dalle galee veneziane” aggiunse mentre Gino confermava con profondi cenni del capo. “Ma questa che vi ho raccontato” aggiunse “ è solo una parte della storia del mondo, la storia che si legge nei libri… ci sono pagine e pagine di memorie legate agli alberi che nessuno riuscirà mai a scrivere, al massimo si potranno raccontare, facendole scivolare di padre in figlio. Nella mia storia la quercia dell’Istria, conta perfino di più di ciò che ha rappresentato per la civiltà veneziana, perché mio padre era un boscaiolo. Fin da giovanissimo spendeva le sue giornate nel bosco, lavorando in mezzo alle querce. Aveva imparato negli anni a conoscere tutto di loro: come ricavarne la legna, come sramarle, come ottenere la farina dalle ghiande per cucinare una sorta di focaccia e medicamenti dalle foglie, fino a intuire dove si celavano i tartufi in profondità, decifrando gli intrecci delle loro radici.
 
Alla fine della seconda guerra mondiale, insieme a molti istriani capì che la sola strada per evitare la deportazione o la cattura era quella di abbandonare la sua terra. Aveva ventitré anni e si unì a un gruppo di famiglie in fuga che cercavano di guadagnare il confine raggiungendo Trieste. Attraversando le foreste alle spalle di Dignano, poiché le strade erano presidiate dall’esercito, avrebbero dovuto salire clandestinamente su un certo vagone del treno merci diretto a Trieste, che passava un giorno a settimana. Ma qualcuno li tradì, probabilmente per una misera mancia. Una mattina all’alba, dopo aver passato la notte nascosti in un querceto, impauriti dai motori delle camionette riconobbero i soldati di Tito avvicinarsi. Li si riconosceva con terrore, vestiti ognuno in maniera diversa, con divise logore e stracce, mentre urlavano sguaiatamente con furia animalesca.
 
Dalla sicurezza dei loro movimenti si capì che sapevano benissimo quali prede acchiappare e dove scovarle. Mio padre e i compagni non ebbero tempo nemmeno di consultarsi: iniziarono a correre alla disperata, ognuno in una direzione diversa, come dei conigli in fuga da un branco di mastini.
 
A un tratto mio padre sprofondò fin quasi al ginocchio e si accorse di un avvallamento completamente mascherato dai cumuli di foglie morte del querceto.
 
In un lampo realizzò che quella buca poteva essere la sua bara, oppure la sua salvezza. E in ogni caso, si disse, meglio morire al riparo di una grande quercia, una quercia lucerna come quella maestosa che aveva grondato tutto attorno quell’immenso fogliame. Si acquattò rapido a terra rovesciandosi addosso la coltre di foglie secche, fino a sommergersi tutto e si immobilizzò, piantando l’orecchio al suolo. Insieme ai battiti impazziti del cuore che gli rimbombavano in testa, il terreno amplificava i tonfi sempre più vicini dei passi furiosi dei cecchini. Come un tamburo di guerra il fondale del bosco trasmetteva senza filtri i colpi secchi della morte. Sentì le fucilate, le urla feroci degli inseguitori, quelle disperate e mozzate dei compagni colpiti che cadevano annientati l’uno dopo l’altro. Riconobbe imprecazioni e bestemmie in lingua slava a pochi metri dalla sua nicchia, e capì che per sfregio sferravano calci ai caduti. Infine calò un silenzio spettrale. Odiò in quel momento così tanto l’odio umano da giurarsi che, se mai gli fosse riuscito di avere un figlio, gli avrebbe dato il nome della pace. Mio padre fu l’unico del gruppo a salvarsi e riuscì poco dopo a nascondersi fra le gabbie dei maiali nel treno per Trieste.”
 
A Damir tremava la voce mentre sembrava rivivere scene che non aveva mai vissuto, se non assorbendole dai racconti che il padre doveva avergli fatto decine e decine di volte. Quella memoria era diventata parte della sua persona, anzi, era radice del suo stesso essere e la quercia che aveva sottratto il padre alla morte aveva in fondo regalato la vita anche a lui.
 
I figli di Gino ascoltavano il racconto come stregati, mentre le lingue di fuoco crepitavano e spandevano bagliori intermittenti nella piccola stanza.
 
Damir affondò nuovamente la sua ampia mano nella tasca e questa volta cavò fuori due piccole monete in ottone dorato. “Sono per voi” disse, porgendole ai due ragazzi. “In Istria regalare una moneta porta fortuna. Queste sono delle vecchie 5 Lipe, circolavano insieme alle Kune. In realtà hanno un valore molto basso…ma sono fra le pochissime monete al mondo ad avere l’effigie di un albero. E qui vedete raffigurata la quercia.”
 
E i ragazzi sorpresi ringraziarono, osservando il disegno al centro della moneta,
 
un ramo dalle caratteristiche foglie lobate con le ghiande affusolate alla base. Tutto intorno era stampigliata una scritta a caratteri maiuscoli: HRAST LUŽNJAC. “Significa quercia lucerna” tradusse Damir, dopo averla letta in originale con una pronuncia inimitabile, tanto da rendere quasi mistici quei suoni aspirati. “E’ l’albero che ha salvato la vita a mio padre e che io ho riscoperto in questo angolo del Cansiglio”.
 
Ascoltando il suo racconto, Gino aveva realizzato come il padre di Damir fosse stato un profeta del bosco, allo stesso modo di suo nonno Egidio. Non si erano mai incontrati, avevano vissuto in epoche e luoghi diversi, eppure le loro vite erano come affratellate dallo stesso amore per la foresta e i suoi alberi. E questo faceva sì che anche lui e Damir risultassero in qualche modo fratelli.
 
Si giudicò un inetto, per tutte le volte in cui aveva guardato infastidito la resistenza della quercia al suo faggio. Faggio e quercia erano fratelli pure loro, come aveva fatto a non intuirlo?
 
Probabilmente aveva ragione Damir e negli anni le due chiome si sarebbero unite, sublimando in una salda alleanza l’antagonismo originario.
 
Continuarono a raccontarsi storie di foreste e alberi, leggende e tradizioni di montagna e a Gino sembrò che il fuoco di quella sera fosse più vivo e vivace che mai. Un fuoco senza parole attorno non è un vero fuoco, pensò.
 
Sorridendo prese a sua volta dal sacchetto di iuta di Damir un altro paio di ghiande secche e le lanciò sulle fiamme, mentre le parole intorno a lui sembravano non voler terminare più.
Torna ai contenuti