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Bettiol 31 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Bettiol 31

Tutte le edizioni > Edizione31
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA


"La Montagna:le sue genti , dalla storia all’ attualità"

XXXI EDIZIONE Arcade, 4 gennaio 2026
Premio speciale "Trofeo Cav. Ugo Bettiol"

CHE HAI FATTO DI ME?
di LoraCristina
Valdagno (VI)

 
***
 
Il racconto, tratto da un fatto realmente accaduto, è la narrazione rielaborata dalla fantasia dell'autrice.
 
***
 
Luca stringe la notte tra le mani, nella sua casa, nel suo letto, accanto a sua moglie che dorme serena, perché è tornato a casa; ma Luca non riesce a prendere sonno, nonostante le tante ore estenuanti che lo hanno trattenuto dentro il fiume per via di quel lavoro che ama intensamente, che ha sempre svolto senza risparmiarsi, dimenticando a che ora ha iniziato il turno e continuando a testa bassa fino a quando l’intervento di recupero non è finito. Svolge quel lavoro ormai da molti anni, da così tanti che quasi ha perso il conto. Ma, stavolta, quel lavoro che tanto ama e che gli permette di salvare vite, gli ha tolto il cuore.
 
Stanco e snervato dall’insonnia, si alza, scivolando fuori dalle lenzuola lentamente, per non fare rumore, non vuole svegliare la sua compagna di vita, la donna, la madre dei suoi figli, che lo aspetta ogni volta sveglia, puntando lo sguardo sul vialetto che conduce alla loro casa circondata dal verde dei boschi che si arrampicano sulla collina, cercando di scorgere i fari dell’auto avanzare per tirare un sospiro di sollievo, perché il suo Luca è tornato a casa, sano e salvo. Luca non gliel’ha mai chiesto, ma sa che lei rimane affacciata alla finestra fino al suo rientro; il loro sostegno è tacito, intenso e fa bene.
 
«No. Il callo non lo farò mai» ripete Luca con la voce spezzata dal groppo alla gola che lo ha preso insistentemente dal momento in cui ha smontato il turno. Cerca di confortarsi con la tazza di latte caldo che trova sempre pronta al suo rientro, ma nulla, in questa notte, è in grado di essergli d’aiuto.
 
Nonostante gli anni, nonostante le volte, nonostante le tante volte in cui l’ha salvata quella vita, troppe sono diventate le volte in cui si è ritrovato a raccogliere soltanto morte. E questa volta è stata davvero di troppo.
 
 
In quel pomeriggio di aprile, il torrente che da Cima Carega si butta nella valle dell’Agno aveva ruggito molto, non era sceso a valle con quel garbo e quella gentilezza che gli sono propri e che gli abitanti delle terre che attraversa apprezzano di lui.
 
Il periodo della primavera e delle piogge era arrivato, come ogni anno, e chi, come me, è nato tra le verdi colline su cui si appoggiano le Piccole Dolomiti si è sempre sentito protetto dalla tenacia di queste alture docili, ma ferme, che assieme a Cima Marana, con le loro alte vette, proteggono i paesi, le contrade e le genti. Queste montagne e i loro boschi accolgono le nostre vite da anni, da generazioni.
 
Hanno accolto le lunghe scarpinate di Bepin, il mio nonno materno, che, per andare a scuola, scendeva a piedi dalla Montagna Spaccata fino giù al paese, indossando zoccoli di fortuna e portando sulle spalle uno scialle chiuso da un ago da balia, ‘na gucia de sicuresa, che la sua mamma gli prestava riciclando gli indumenti usati da qualche sorella più grande, o i suoi. Era vestito da femmina, ma non se ne curava nessuno, tanta era la povertà che accomunava molti di loro. Sono i boschi sicuri che proteggevano Bepin mentre li percorreva da giovane innamorato per andare a trovare la sua morosa, la Celestina, sperando di strapparle un bacio di nascosto e, forse, un giorno di maritarla, perché la Celestina era bella.
 
Sono i boschi in cui le genti dei primi del ‘900 portavano le mandrie e le greggi al pascolo, che li curavano con il loro lavoro duro e amorevole, che li ripulivano e che non toglievano un albero di troppo per non mettere a rischio la salute della montagna e di chi, poco sotto, aveva costruito la casa e i ripari per gli animali e si spaccava la schiena tra gli orti, i vigneti, i frutteti e quanto la terra concedeva loro per vivere.
 
Sono le montagne tra le quali, con la famiglia, durante la mia infanzia, nei giorni di festa si andava per funghi, per mirtilli e per corgnoi; sono i boschi delle colazioni al sacco, gustate respirando l’ombra dei grandi faggi e dei castagni e degli abeti; sono le alture spensierate della fanciullezza, delle vacanze durante la bella stagione  e nei giorni più caldi di un’estate che si sapeva sarebbe arrivata con lo smarcare di quel ventun giugno sul calendario e che sarebbe finita tre mesi dopo, per lasciar posto all’autunno a cui toccavano i tre mesi successivi tra le stagioni dell’anno. Sono le montagne che, quand’ero ragazzina, per il Natale si tacitavano tra la neve per poi accogliere le gemme di primavera con l’arrivo dell’equinozio. Sono le montagne che cullavano le acque placide dell’Agno, mentre noi bambini facevamo il bagno, sereni, accuditi dalla pace di quei luoghi.
 
Tutto, un tempo, accadeva regolarmente: la venuta del sole, del tepore, del caldo, della pioggia, delle foglie ingiallite e arrossate e della loro morte sul terreno, fino a sopire sotto un generoso manto bianco che s’appoggiava sulla terra e sull’inverno e che apriva le porte delle case al divertimento dei più piccoli e i cuori a una vena di nostalgia.
 
Poi, un giorno, qualcuno annunciò quel luogo comune che prediceva che “non ci sarebbero più state le mezze stagioni", un detto che qualcun altro smentì, sorridendo con scherno.
 
Eppure, era vero.
 
Da alcuni anni il cielo si è fatto scontroso anche con la nostra terra. I colpi di pioggia si accaniscono su di noi, sulle nostre case, sui nostri orti e sugli alberi con una cattiveria che non avevamo conosciuto prima. Raffiche di acqua si alternano a raffiche di vento e poi di grandine e poi ancora di acqua, strappando la terra stretta alle radici degli alberi, portando giù i sassi dalle montagne, lanciando la forza del torrente tra le case, con una furia impazzita.
 
Quel pomeriggio, quel giovedì pomeriggio che sul calendario era contrassegnato con il numero diciassette, il cielo si è portato via la terra, con la stessa voracità con cui un colpo di vento strappa una foglia da un albero, mentre le alte montagne erano rimaste inermi a guardare, lasciando fare. La pioggia aveva iniziato a scendere come al solito, a colpi più audace, a colpi più mite; poi, improvvisamente, il suo carattere generoso e devoto a nutrire le sue falde e le sementi e le crepe con il fianco paterno del cielo ha assunto sembianze mostruose. Le gocce si ammassavano l’una contro l’altra, in una sfida di ferocia che aumentava sempre più; gli scrosci si accumulavano l’uno addosso all’altro precipitando violentemente al suolo; il vento si divertiva a fendere l’aria con tutta quell’acqua che non smetteva mai di scendere e il cielo pareva non stancarsi di dare manforte alle correnti e alle nuvole.
 
Il sole era scomparso dall’universo, l’azzurro era diventato un colore sconosciuto a quanto sovrastava la terra e il grigio e il nero parevano essere gli unici colori a circondare la vita con un fare prossimo alla morte.
 
L’Agno era sempre più gonfio e rumoroso e il suo livello era intenzionato a oltrepassare i confini che le alte sponde gli concedevano di percorrere. L'alveo era incontenibile e nessuno era consapevole di quanta acqua il letto del fiume avesse già raccolto alla sorgente, pronta a esplodere con la più forte delle detonazioni. Le ore passavano, la gente si rifugiava dove poteva e iniziava ad avere paura. Tutti cercavano il conforto in una telefonata con i propri cari: chi chiamava a casa per sentire se andasse tutto bene, se i genitori erano al sicuro; chi chiamava i figli per sapere dove fossero; qualcuno avvertiva di essere imbottigliato nel traffico e che le strade erano allagate; le genti delle contrade piangevano parlando al telefono dei soccorritori per trovare un conforto, una sicurezza che la montagna non riusciva più a dare, perché anche il monte stava venendo giù.
 
Le strade si affollavano di auto e di pioggia; i tombini iniziavano a rigurgitare l’acqua che erano stati costretti a ingollare per tutto quel tempo. Poi, arrivò la ferocia più inaudita.
 
L’acqua aveva preso il posto di ogni cosa tra le case, cancellando le strade; si era impadronita delle auto, delle cantine, dei ricordi.
 
Infine, il tonfo, il dramma di quel ponte che non ha più retto alle sferzate dell’acqua che lo seviziava continuamente sino a metterlo in ginocchio, sino a farlo crollare, trascinando con sé due vite umane.
 
 
Luca è seduto con i gomiti puntati sul tavolo di casa e la testa incassata tra le mani, gli occhi circondati da un dolore profondo e il cuore ancora là, dentro al fiume, incapace di darsi pace.
 
«No. Non è la stessa cosa! - si ripete, senza smettere di piangere - Non è la stessa cosa guardare, ascoltare o vivere la tragedia, guardare la propria terra mentre viene accoltellata dalla pioggia, squarciata dallo spettro dell’acqua che infuria nel letto del torrente, che si solleva prepotente sopra i ponti, che invade ogni superficie, che vince sulla forza delle pietre e le scaglia ovunque, come foglie nel vento. E poi, quel ponte, quel maledetto ponte che ha rubato la vita a un padre e a suo figlio. E sentire le frustate del temporale e i colpi della grandine a imbiancare le strade e i tetti e i prati. E il continuo martellare del telefono e le voci di anziani spauriti e isolati nelle contrade. Il bisogno di aiuto. Il bisogno di non essere portati via da un’onda onnipotente. E sentirsi impotenti.»
 
E, poi, la terra si è fermata, mentre l’acqua continuava a correre veloce, come nulla fosse, come in un giorno qualsiasi. Correva da ore sopra la carcassa dell’auto che aveva portato lontano, lungo il greto del fiume. Correva sopra e sotto i corpi di un uomo e di un ragazzo e dentro di essi, togliendone ogni respiro, sfigurando le loro sembianze, incurante di tutto, indifferente all’amore, agli anni, a una famiglia che li stava aspettando, ai genitori anziani da cui stavano correndo per portare conforto, aiuto, a chi nel loro arrivo confidava. L’acqua li ha uccisi e trascinati lontano da tutto e da tutti, nonostante i loro sorrisi, per sempre, e a Luca era toccato il compito di recuperare quei corpi, assieme alla sua squadra, assieme a uomini che facevano quel lavoro, come lui.
 
Lo aveva fatto infinite volte, ma stavolta no; stavolta, Luca non era riuscito a posare il suo sguardo sulla tragedia che aveva devastato il volto di quel padre, gli occhi di quel figlio, i loro animi, la loro voglia di vivere; che aveva annientato il loro corpo, annientato tutto l’intorno. Annientato la vita.
 
Le ore di pioggia che lo avevano tenuto incollato al suo lavoro e con il solo desiderio di trovare quel padre e quel figlio ancora aggrappati alla vita, lo avevano ricambiato con la tragedia della morte.
 
E lui li aveva cercati, con l’affanno di un brutto presentimento e li aveva trovati, l’uno distante dall’altro, separati dalla morte, separati per sempre. Li aveva riportati alla loro famiglia, li aveva deposti sulla terra, ai piedi delle montagne che essi amavano, privi di vita.
 
Non era la prima volta che raccoglieva morte e non sarebbe stata l’ultima, ma stavolta no, stavolta non sarebbe riuscito a dimenticare tanta violenza che la Terra aveva inflitto all’uomo. Stavolta, a stento, Luca sarebbe riuscito a sorreggere il pianto delle sue mani e della sua divisa.
 
E’ chino sul tavolo, in un dormiveglia che lo tortura, una mano gli si posa delicata sul braccio:
 
«Che hai papà?»
 
Luca solleva lo sguardo, con il viso ancora aggrappato al pianto, e incrocia il sorriso leggero di suo figlio, un ragazzo come quello che ha raccolto dall’acqua, il ragazzo dal volto straziato e gli occhi spenti dal buio eterno.
 
«Sono soltanto stanco, ho lavorato molto. E’ stato faticoso.» si limita a dire, stringendo le mani del figlio per sentire la vita che scorre in lui, per assicurarsi che la vita esiste ancora.
 
«Li avete trovati?» chiede il ragazzo.
 
Luca si sente preso in contropiede e spiazzato, pugnalato da una risposta che non vuole dare.
 
«Sì.» risponde senza trovare la voce per aggiungere altro.
 
Il figlio comprende nel silenzio del padre il dolore che lo sta attanagliando, più violento del solito. Lo stringe a sé e Luca avverte in quell'abbraccio la speranza che un ragazzo, sorpreso da un atroce destino, aveva cercato nell’auto con il padre, aggrappandosi a lui, aggrappandosi a una vita che sarebbe scivolata via per entrambi, in una sera di primavera.
 
Luca, con gli occhi sfondati dalle lacrime, vede un uomo piangere. E’ un uomo forte, sorridente, generoso, pieno di vita e di fiducia nella vita, ma vede quell’uomo piangere. Vede un padre piangere su un figlio che sta morendo assieme a lui inghiottito da una Terra morente; piange sulla morte che la Terra ha vissuto assieme alla vita.
 
Luca continua ad abbracciare suo figlio.
 
Luca è un vigile del fuoco e il callo, per quel lavoro, non lo farà mai. Le sue mani si tormentano inconsolabili tra le cicatrici della morte.
 
 
Abbraccio la mia Terra. Ascolto il silenzio di un vigile del fuoco urlare di dolore. Ascolto la forza del sole che è tornato a gran voce nel cielo. E’ caldo, troppo caldo. Ripenso alla pioggia di qualche ora prima, al freddo steso sui corpi di due vite, alla sua imprevedibilità, alla rabbia con cui ha violentato la Terra e i suoi uomini. Appoggio il mio sguardo sulle crepe rotte da quella natura che mai avevo visto tanto feroce e nemica. La gente corre di casa in casa per aiutare a liberare le stanze e le cose dall’acqua, dal fango, quel po’ che ancora può essere salvato. Un’anziana, straziata dalla magrezza e dal pianto, viene trascinata via dai figli, costretta a lasciare quelle due stanze che erano state tutta la sua vita, le cartoline dei suoi affetti, i merletti e i ricami degli anni in cui le sue mani, abili e creative, erano il suo lavoro, il suo vivere, il suo pane e quello della sua famiglia, la fede nuziale di suo marito scomparso l’anno prima e che custodiva sul comò vicino al letto, assieme al Rosario e a una fotografia che li ritraeva giovani sposi.
 
Il telefono squilla, una donna singhiozza spaurita, vive in contrada con suo marito e sono ancora isolati lassù, su quel monte che è venuto giù. Un gruppo di volontari si avvia per soccorrerli, sono stremati, ma c’è ancora molto da fare.
 
Il mio mondo, i miei boschi, le mie contrade, i miei corsi d’acqua, il mio cielo, sembrano crollarmi improvvisamente addosso assieme a quella domanda che la Terra fa sgorgare dal suo utero, come un fiume in piena:
 
«Che hai fatto di me, uomo?»
 
Mi chino su di essa, ne annuso l’odore sanguigno, ne raccolgo le lacrime. Sento freddo, il freddo dello smarrimento e dell’impotenza. La osservo deturpata di quel respiro che gli antichi a essa sapevano donare, graffiata dall’agio e dalla noncuranza. Il mio cuore geme, assieme al suo. Una femmina di capriolo giace tra l’erba ed esala l’ultimo respiro, mentre i suoi occhi implorano pietà. Il dolore che ricopre il suo corpo è straziante.
 
Abbiamo assassinato la Terra e ora, lentamente, la sua morte si sta prendendo la nostra vita, come un olocausto, per urlare il suo dolore.
 
Piango, mia Terra.
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