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Un luogo creato per la pace

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

VII EDIZIONE - Treviso, 28 ottobre 2001
Segnalato

Un luogo creato per la pace

di Iosetta Mazzari - San Vito di Vigonza (PD)



Il trasloco poteva ormai dirsi completato. Certo c'erano ancora interi scatoloni da svuotare, ma quello sarebbe stato lavoro per le donne, da farsi un po' al giorno, raccontandosi di quando era stato ricamato quel lenzuolo o di quando era stata regalata quella teiera.
Portare a termine un trasloco senza ricorrere ad una ditta specializzata aveva richiesto uno sforzo organizzativo non indifferente: da settimane si faceva in modo di parlare con chi aveva cambiato casa da poco per capire quali erano i problemi più frequenti e quali accorgimenti fossero più funzionari. Era stato utile il consiglio di usare tante scatole piccole piuttosto di una grande, e di mettere in ogni scatola il contenuto di un solo cassetto, di non aggiungere altro anche se non era riempita, che poi sarebbe stato un attimo a rimettere a posto... Ma il suggerimento più prezioso era stato senz'altro quello di iniziare all'alba smontando la cucina e rimontarla subito nella casa nuova, in modo che per sera fosse in grado di funzionare.
Il Vecchio aveva assunto il ruolo di regista, solo lui sapeva affidare un incarico in modo autorevole, così che non suonasse come un ordine ma anzi si obbedisse volentieri proprio per l'amabilità con cui veniva dato, inoltre aveva affinato con gli anni un senso pratico eccezionale e se proponeva un certo modo di operare di sicuro non parlava a vanvera.
Il trasloco fu il suo capolavoro: non solo tutti sapevano sempre cosa fare, trovavano gli attrezzi necessari e una squadra non si intralciava con l'altra, ma era stata organizzata perfino una cucina da campo, nell'orto dietro la casa nuova, e in qualsiasi momento si trovavano panini e caffè. Il pranzo era stato consumato in piedi, una pastasciutta buttata giù calda mentre il Vecchio faceva il punto della situazione e ridistribuiva le squadre in base alle nuove necessità, non più di trasportare ma di montare.
Ora il lavoro era terminato, il sole allungava le ombre e scolorava l'orizzonte, i gabbiani si riunivano in formazione di volo e tornavano al mare, e si stava aspettando la sontuosa cena che le donne avevano preparato affaccendandosi per ore attorno alle braci.
Il Vecchio stava ancora aiutando l'ultima squadra a terminare, altri si affrettavano sotto la doccia per mettersi a tavola puliti. Luca uscì sulla terrazza a guardarsi intorno. Sì, era spiacevole cambiare casa a vent'anni trovare nuovi amici, conoscere nuovi vicini... per qualche tempo si sarebbe sentito spaesato, ma si accorgeva di amare già l'angolo di mondo dove la vita lo aveva portato. L’argine del grande fiume si allargava ad est, sipario verde che prometteva lunghe passeggiate e corse felici, a sud si indovinava la vita tranquilla di un quartiere di periferia raccolto attorno al campanile, e a nord... oh, a nord!
Si vedevano le montagne, non solo i colli, a pochi chilometri, ma tutto l'anfiteatro delle montagne, così nitido da distinguere i boschi e le vallate nel chiaroscuro del verde cupo. Dalla casa vecchia, bassa e piccola, completamente circondata da alberi, non si vedeva l'orizzonte. Certo, bastava salire sul cavalcavia per vedere lontano... ma era una inaspettata ricchezza uscire in terrazzo e poter guardare il profilo dei monti in ogni giornata appena un po'. serena. "Luca,,, Luca... Ma mi senti? E' pronta la cena! Luca! Ma cosa guardi?"
"Zia Betta... Scusami, mi ero incantato....” “..... A guardare le montagne!" "Già". "Allora è una malattia di famiglia, anche mio nonno Toni ci passava il tempo". "Ma allora non si vedevano le montagne dall'altra casa". "No, è vero, per questo si arrampicava sugli alberi, e mica era più un ragazzino! Chiedi al Vecchio, te lo dirà lui".
Non servì chiedere, la Zia Betta accompagnando a tavola informò subito tutti che aveva trovato Luca in terrazza a guardare le montagne.
Le domande cominciarono ad intrecciarsi con le risposte, la trama del racconto si unì all'ordito dei ricordi e tutti insieme, ognuno con la sua tessera, ricostruirono il vecchio mosaico.
Il nonno di Zia Betta, il padre del Vecchio, saliva sugli alberi dopo ogni temporale, quando l'aria era più limpida, e restava per lunghi minuti a cavallo di un grosso ramo, abbracciato al tronco, a guardare fisso la montagna lontana. Cercava il profilo note del Grappa e scrutava i fianchi del monte per trovare una macchia chiara, quasi una pallida lacrima, dai contorni ben definiti per chi sapeva vedere. Era la ghiaia scaricata, carriola per carriola, durante la Grande Guerra per scavare i rifugi dentro la montagna. Lui, ragazzo del '99, aveva combattuto lassù, aveva servito i cannonie aveva anche scavato, per rifinire il lavoro cominciato da altri, e partiva da quel mucchio di ghiaia per indovinare i sentieri e le postazioni, e rivivere nella mente e nel cuore quei mesi che lo avevano trasformato da ragazzo in uomo.
Non era un chiacchierone, il vecchio ragazzo, proprio no, però non era neppure un orso e, se l'occasione era propizia, raccontava volentieri i fatti del passato, cosi adesso con il con- tributo di tutti si poteva ricostruire la storia.
Nonno Toni era il quarto figlio di una numerosa famiglia, prima di lui c'erano tre sorelle, nate nel '93, nel '95 e nel '97, distribuite negli anni dispari, come capitava spesso tra i contadini che stornavano figli con ritmo regolare. Dopo di lui fratellini e sorelline si alternavano in un caotico disordine fino al dodicesimo, nato quando già l'Italia era entrata in guerra contro l'Austria.
L'età del padre e un ginocchio balordo, per via del calcio di un cavallo, avevano tenuto la famiglia al riparo della guerra, però il padre doveva passare ogni giorno molte ore alla ferrovia, addetto alla manutenzione degli scambi in una stazioncina poco lontano da casa, e il lavoro dei campi ora gravava sulle braccia dei ragazzi e delle donne.
Ma nessuno si lamentava, erano una delle pochissime famiglie a non avere uomini al fronte, loro non tremavano vedendo il parroco e il sindaco aggirarsi per le strade. la loro visita, preludio di dolorosi annunci, non poteva riguardarli.
Ma si parlò di Caporetto, della disfatta, della necessità forse di scappare anche loro... no, li hanno fermati al Piave, usano i sassi al posto dei proiettili ma li hanno fermati.. però sono pochi, ci sono stati migliaia di prigionieri, servono uomini.
Si diceva che c'erano uomini imboscati, che avrebbero dovuto essere al fronte e si nascondevano nelle grandi città, fingendo malattie e pagando biglietti da mille a mazzetti per non essere arruolati... adesso li avrebbero snidati tutti e li avrebbero mandati in guerra! Invece chiamarono i ragazzini della sua classe, gente che non si era mai allontanata da casa neppure per andare alla sagra dei paese vicino, perché era troppo giovane anche per quello.
Nonno Toni ricordava che quando il postino lo trovò, per dargli la cartolina di richiamo alle armi, indossava i calzoni corti e stava raccogliendo legna lungo un fosso; doveva consegnargliela in mano, la cartolina, ma il viso imberbe e le ginocchia sbucciate gli fecero temere che non avrebbe capito l'importanza di quel pezzetto di carta, e si fece accompagnare a casa, e diede la cartolina a sua madre, e lesse chiaramente la data e il luogo dove era chiamato a presentarsi...
Per qualche giorno l'emozione diventò silenzio e sguardi. L'ultima sera venne preparato il mastello grande, quello de la lissia, con tanta acqua calda e un pezzo nuovo di sapone, perché Toni fosse pulito come a Pasqua e si capisse che veniva da una buona famiglia.
L'anima se l'era aggiustata già nel pomeriggio, con una visita al parroco, che lo ascoltò nel confessionale e gli fece nuove raccomandazioni mettendogli in mano una immaginetta del Santo di Padova che si chiamava come lui e lo avrebbe protetto.
La mamma gli aveva cucito nella piega della giacca un poco di denaro, la riserva di famiglia, le monete che aveva portato in dote tanti anni prima e che aveva guadagnato da ragazza, in Brasile, dove si era fermata per due stagioni a raccogliere caffè. Gli raccomandò di farne buon uso, senza che nessuno dei due riuscisse ad immaginare cosa si potesse comperare al fronte.
Zia Betta si ricordò di una vecchia foto della nonna in una piantagione del Brasile, con scritta dietro la data, e si ripromise di cercarla e di farla vedere a tutti, magari facendola incorniciare e attaccandola alla parete.
La sorella più grande, Maria, gli consegnò un pezzetto di lapis obbligandolo a giurare che avrebbe scritto spesso, molto spesso, anche solo la data e la firma, che già avrebbe voluto dire che era vivo, e lei si era impegnata a rispondere sempre e a raccontargli tutte le novità del paese; così anche lontano si sarebbe sentito per qualche momento a casa.
Chissà se tra le carabattole tirate giù dalla soffitta della casa vecchia ci sono ancora le lettere.
Nonno Toni passò tutta la notte con gli occhi aperti, a ripensare ai racconti dei soldati tornati "fronte nei mesi passati, in licenza o feriti, e si rammaricò che non avessero detto niente di utile, non abbastanza da offrirgli motivo di speranza. In pochi giorni gli diedero una divisa, lo addestrarono e lo assegnarono ad una compagnia di artiglieria da montagna.
Arrivò al fronte. Dove? Non lo sapeva, se glielo aveva no detto lo aveva dimenticato; era in montagna, tanto in alto che non si trovavano più alberi ma c'era ancora molta neve. Il freddo gli faceva battere i denti e il riverbero del sole sulla neve lo accecava, avrebbe odiato quel posto per sempre... per alcuni giorni, perché una mattina si svegliò con le nubi sotto di lui, che riempivano la valle, e il cielo sereno sopra la testa, di. un azzurro così puro che si sentì pulito dentro, parte del cielo terso e della terra umida, figlio della Vita che gli esplodeva intorno, già promessa di primavera ad una spanna dalla neve.
Ammirava il superbo paesaggio lontano, un mare di nuvole e di cime innevate, e si incantava per ogni filo d'erba che sfidava l'asprezza della pietraia e la violenza della guerra. Assaporò i lunghi istanti di silenzio (non valeva la pena di sprecare colpi sparando alla cieca) e capì che la montagna era un luogo creato per la pace e, commosso fino al profondo dell'anima. Gli venne voglia di pregare per lodare il Creatore.
Il Vecchio ricordò che nonno Toni, come ultimo arrivato, doveva obbedire a tutti: agli ufficiali perché così voleva l'esercito e agli adulti perché così si usava, e fortuna che tanti, a vederlo così ragazzino, si ricordavano dei propri figli e lo aiutavano a non mettersi nei guai.
Raccontava che una sera, in trincea, si trovò vicino ad un maestro di scuola, un vicentino, che gli spiegò che no, gli austriaci non indossavano più le divise bianche, come raccontava la piccola vedetta lombarda di "Cuore", non li avrebbe visti avvicinarsi a ranghi serrati attraverso il bosco, avrebbe invece sentito gli scoppi dei proiettili sparati da austriaci e germanici; non si vedevano ma erano appena sotto il crinale, nelle loro trincee, e se smettevano di sparare allora c'era da temere un assalto.
Zia Betta, invece, ricordò che, a sentire il nonno, i germanici non smettevano mai di sparare, solo sospendevano per qualche minuto, o diradavano i tiri, ma non si era mai sicuri di quanto sarebbe durata la calma.
Così ogni volta che doveva spostarsi Toni aveva paura; la prima volta aveva calcolato di arrivare al comando con un'unica lunga corsa, come quando faceva a gara con gli amici tra la chiesa e il cortile di casa, ma prima di metà strada aveva dovuto fermarsi, ansimando; aveva scoperto che in alta montagna non si respira come a casa, l'aria sottile non riempie i polmoni. Appena ripreso fiato aveva guardato con apprensione la vasta pietraia, esposta al tiro degli shnappels, che doveva ancora attraversare, si era rinfrancato con un rapido segno di croce e si era buttato a capofitto, in apnea, cercando di spremere dalle gambe rigide per l'acido lattico ogni stilla di velocità.
Il segno della croce diventò un gesto abituale, ripetuto tante volte al giorno, per combattere la paura e controllare l'ansia, per ricordare al Signore che, no, lui non trovava il tempo per pregare, ma Maria gli aveva scritto che tutte le sere la famiglia recitava il rosario per lui e, per favore, ascoltasse le loro invocazioni.
Le donne portarono a tavola un trionfo di salsicce cotte sulla brace con fette di polenta abbrustolita.
Passati i primi, tremendi giorni, nonno Toni si accorse che, come il suo fisico si abituava alla montagna, e ormai saltava tra i sassi come un cerbiatto, anche il suo spirito si adattava alla trincea, e imparava a convivere con la paura, a gustare la vita intanto che temeva la morte. Imparò ad apprezzare il sapore del baccalà che il maestro vicentino riusciva a cucinare perfino lassù, imparò a riconoscere i funghi commestibili che si trovavano nel bosco a mezzacosta, verso Asiago; imparò che la distribuzione di grappa precedeva la battaglia e che a berla sarebbe diventato imprudente; imparò a far uscire scintille da una pietra focaia e, all'occorrenza, accendere un piccolo fuoco; imparò a leggere tanto bene da poter scorrere le lettere di Maria senza bisogno di aiuto, e divenne svelto anche a scrivere; imparò a conoscere i soldati che stavano con lui e seppe di chi fidarsi.
E scoprì che poteva ancora essere sereno, come il cielo di montagna nei giorni limpidi, e che la più grande paura prima o poi sarebbe passata.
I ragazzini vennero avvisati che stava per cominciare un cartone animato, ma solo due andarono a vederlo, gli altri chiesero al Vecchio di raccontare ancora di nonno Toni.
Un giorno vide un aeroplano passare basso sulle loro linee, riconobbe il disegno del cavallino rampante sulla fusoliera e gli spiegarono che allora era Baracca, l'asso degli assi, che era venuto fin lassù da Treviso per incoraggiarli, e in tutta la trincea risuonarono saluti e risa.
Un giorno lo misero di guardia vicino ad una postazione per cannoni; c'era tutto: la piazzola per il pezzo, il riparo ben defilato per la riserva di proiettili, il rifugio per gli uomini e il posto perfettamente mascherato per le vedette, perfino il mastello e i sacconi per l'acqua... solo non c'era il cannone. Ne avevano lasciati troppi oltre il Piave, durante la ritirata, e bisognava aspettare che arrivassero i nuovi... intanto però non si poteva far sapere ai germanici che il fronte era sguarnito e allora... bisognava ingannarli.
Venne costruito un cannone tutto di legno, il tronco di abete che imitava il fusto venne opportunamente brunito con il lucido da scarpe, un falegname costruì le ruote e due strisce di corteccia imitarono i cerchioni di ferro. Era finito da poco quando un aereo germanico li sorvolò e videro chiaramente la risata di scherno del pilota, ma Baracca era in zona, quel giorno avrebbe duellato e abbattuto un aereo nemico, magari proprio quello che aveva scoperto il loro inganno.
Poi arrivò un cannone vero, di bronzo, pesante e massiccio, che faceva paura a vederlo, ma neppure questo sparò: era un "residuato bellico ", un cannone usato durante il Risorgimento che da anni addobbava la piazza di una città lontana, a ricordo dell'insurrezione contro gli austriaci; ora lo avevano "richiamato" e mandato al fronte, ma non si poteva usarlo perché non c'erano munizioni, non ne facevano più di quel tipo... però intanto faceva la sua figura, e l'America aveva promesso che avrebbe costruito lei i proiettili necessari.
E finalmente Toni venne messo vicino ad un cannone vero, di quelli che si caricano da dietro e sparano da davanti, di quelli che andavano raffreddati buttandoci sopra sacconi intrisi d'acqua, e il metallo era così rovente che subito si alzava una nuvola di vapore e si lavorava tra il fumo e il caldo, attenti a riconoscere le voci dei compagni tra il frastuono e le bestemmie.
Nonno Toni doveva prendere i proiettili da una grande catasta e passarli ad un compagno, incaricato di infilarlo veloce nella culatta; altri avevano il compito molto più impegnativo di mirare giusto, stabilendo tra decine di scoppi quale era il loro e di quanto andava spostato. Nonno Toni lavorava piangendo per il fumo che irritava gli occhi, forse un po' anche per la paura e, confessò un giorno, per il dolore di avere ucciso tanti germanici che erano infondo alla valle, proprio nel boschetto che il suo pezzo aveva avuto l'ordine di prendere di mira. Il giornale parlò di loro, quel giorno, della sua compagnia che aveva ucciso più di duecento nemici pronti all'assalto sorprendendoli nel boschetto, ma saperlo non lo fece star bene.
Arrivò a tavola il caffè con le bottiglie di liquore.
E' Nonno Toni non piaceva neppure che il giornale parlasse dei francesi sempre in tono esaltante, quasi che quei pochi uomini stessero vincendo la guerra al loro posto. Erano antipatici, i francesi: erano stati scelti uno per uno per essere alti e muscolosi, degli atleti, e la loro prestanza pareva voler umiliare l'esilità di tanti soldati italiani; ma chi era stato in Francia, emigrante nei cantieri o nelle miniere del nord, riferiva che tanti francesi erano bassi e magri, proprio come da noi, non erano tutti giganti come volevano far credere.
E poi i francesi mangiavano pane bianco ogni giorno, se lo cucinavano nei loro forni e non lo dividevano con nessuno, e bevevano cognac a volontà, anche se non reggevano l'alcool e ogni sera si trovavano loro soldati ubriachi in giro per le strade.
Nonno Toni e un suo amico si divertirono, una notte, a prendere in giro due francesi pieni dì vino e cognac, ma arrivarono altri "alleatì" e fu necessario scappare; grandi e grossi, i francesi, ma non sapevano correre in salita, con lo zaino in spalla, come ormai nonno Toni poteva fare senza sforzo, e non li presero.
Un giorno il nonno riposava in tenda, nelle retrovie, quando fu svegliato da una banda che suonava una marcia molto marziale. Si affacciò incuriosito. C'era Garibaldi, il nipote del leggendario Giuseppe, che percorreva il fronte incoraggiando i soldati; mentre la banda suonava si era radunata una piccola folla e quando ci fu silenzio il generale Garibaldi, con voce amichevole, parlò di valori del risorgimento e di vittoria vicina. Ci fu un lungo applauso e lui si allontanò a grandi passi, facendo suonare con gli scarponi chiodati i sassi del sentiero. Passò accanto a nonno Toni, avrebbero potuto toccarsi, il nonno vide il colore dei suoi occhi, proprio uguale al ritratto di Garibaldi che c'era in municipio, e sentì l'odore di sigaro toscano che portava con sé. Baracca lo aveva visto da lontano, ma Garibaldi gli era passato accanto, vicinissimo, quasi un simbolo di sorte benigna, e ne scrisse a casa con entusiasmo.
La zia Betta giurò a se stessa che avrebbe rovistato in ogni angolo fino a trovare le lettere, se pure c'erano ancora.
Poi il suo reparto fu mandato a riposare e, secondo lo strano vocabolario del tempo, riposare voleva dire lavorare dieci ore al giorno con il piccone e scavare nel ventre della montagna altri depositi dove mettere al sicuro centinaia di munizioni, in vista del grande attacco. Era faticoso, tanto, ma non c'era nessun pericolo, i tiri germanici non arrivavano fino a lì e non si rischiava di essere colpiti.
Ma non ci si dimenticava di essere in guerra: c'era vicino un ospedale da campo, da cui uscivano stracci insanguinati e arti amputati che bruciavano con un atroce odore di morte. E c'era il cimitero, dove ogni giorno si era chiamati a scavare una buca, "ben allineata, un po' più profonda, che se arriva un colpo non li mandi un'altra volta per aria". Si calava un fagotto legato stretto, e non sempre si indovinava la forma del corpo, non sempre era rimasto abbastanza... e si pregava, a capo chino, di cuore, che il Signore sapeva apprezzare l'intensità di una preghiera e non si formalizzava sulla lunghezza.
Il Vecchio riferiva i racconti del nonno, ma quando gli si spezzò la voce tutti compresero che per un attimo aveva ripensato alla "sua" guerra, nel '42, e rispettarono in silenzio il suo dolore.
L'ultima battaglia incominciò nell'anniversario di Caporetto e c'era nell'aria un sapore di rivincita che aveva contagiato tutto. La sua compagnia doveva concentrare il fuoco su un tratto di strada ferrata che non si vedeva, ma se ne conosceva il tracciato grazie alle foto aeree. Dava un senso di potenza essere implicati in qualcosa che nasceva da una foto aerea, nonno Toni era orgoglioso di farne parte.
Dovevano distruggere il binario per impedire che venisse usato per portare rinforzi verso sud, nella pianura dove si sarebbe concentrato l'attacco e si sperava di sfondare.
Dovettero sparare anche quando già si parlava di vittoria, e proprio nonno Toni si trovò in manoil proiettile che doveva scrivere la parola fine, un proiettile che non venne sparato perché era scattata l'ora dell'armistizio, e lui lo teneva in braccio tra l'esultanza di tutti senza trovare il coraggio di riporlo, non riuscendo a credere che fosse diventato inutile.
Gli sarebbe piaciuto portarlo a casa, ma certo non si poteva, però portò un bossolo di ottone, sagomato con infinita pazienza per farne un vaso da fiori, e lo donò a Maria, la sorella che gli era stata vicina con le lettere.
Il Vecchio aveva ritrovato la voce ferma e vibrante che tutti conoscevano. Spiegò che nonno Toni era sempre rimasto grato alla montagna perché lì, a metà strada tra terra e cielo, era diventato uomo.
"Come ha capito di essere uomo?" chiese Luca sottovoce.
"Aveva smesso di porre domande agli altri e aveva imparato ad interrogare se stesso".
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