Su la zima de l'om... - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Su la zima de l'om...

Tutte le edizioni > Edizione09
ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna: le sue storie, le sue genti, i suoi soldati, i suoi problemi di ieri e di oggi”

IX EDIZIONE - Arcade, 4 gennaio 2004
Terzo classificato
Su la zima del l'om - Su la ponta de l'om

di Miriam Betti Pederiva - Cavalese (TN)




(Piccola storia vera, raccontataci dal nonno, alquanti anni fa, seduti intorno al focolare
della baita di Fuciada da cui si ammira la “Ponta de l’Om”, sempre bellissima ).

Il colonnello Beppino Garibaldi, ed era il figlio del famoso Garibaldi che le sue guerre le aveva fatte, eccome, si trovava sul fronte fra Veneto e Tirolo, fra quelle aspre, bellissime, montagne che hanno nome Dolomiti. Il suo comando era nella località Fuchiade, molto prossima al passo San Pellegrino, molto prossimo anche alle postazioni nemiche. La guerra era stata dichiarata da poco e poco si sapeva del nemico.
“Caporale Zanet, lei andrà in ricognizione sul gruppo di Costabella. Usi cautela, ad ogni passo Lei potrà essere colpito.” “Signorsì, signor Colonnello.”
“Caporale Zanet, segni con un + le zone buone e con un – le zone difficoltose. Ignori la cima più alta, m.3010, la Cima Uomo. Quella, va bene per una bella arrampicata ma qui non stiamo a fare turismo! Capito, caporale Zanet, famosa guida alpina, eccelso scalatore ?”
“Signorsì, signor Colonnello”
Il caporale Zanet Bepo, aveva preso la mappa molto incompleta dove lui avrebbe dovuto segnare con un + le zone buone e con un – le zone cattive. La Cima Uomo,  m. 3.010 per l’esattezza doveva essere assolutamente ignorata.
Partenza alle tre antimeridiane dunque, zaino provvisto di cibo per almeno due giorni, bel binocolo, corda da roccia con due, dico due, moschettoni ed altrettanti chiodi, piccozza e fucile con cartucciera. Gli erano stati dati in dotazione anche una mantella di panno solido ed un paio di scarponi chiodati. Più di così l’esercito italiano non poteva concedere.
Il Bepo aveva 25 anni, era di Alleghe, un paese vicino al San Pellegrino, ai piedi di quella fantastica montagna che si chiama Civetta. Bepo aveva scalato un’infinità di guglie, di pareti, di campanili, su questa straordinaria montagna. Era divenuto famoso senza sapere come. Aveva accompagnato in roccia, turisti di diverse nazionalità e di svariate capacità. La montagna era il suo mondo.
Camminò di buon passo, nella notte ancora scura, scendendo lungo la strada, le Code, fatta da loro militari, fino al campo base dove c’era una specie di pronto soccorso ed anche, ahimé, un piccolo cimitero. Poco distante la strada che sale dal territorio italiano bellunese e scende verso Moena in Sud Tirolo, scollinando proprio sull’ampio, passo di san Pellegrino. Là era stato eretto, secoli prima, un bell’ospizio per dar rifugio ai pellegrini, abitanti delle riposte valli Dolomitiche che transitavano per raggiungere Venezia.
Quella era oggi, anno 1915, la via da conquistare ed il Bepo camminò ai suoi bordi, con grande circospezione… oltre ogni curva, poteva esserci il nemico!
L’alba lo trovò nei vasti pascoli de la val Tegnousa e lì c’era poco da stare guardinghi perché non c’era modo di celarsi né di mimetizzarsi. Ci voleva solo fortuna ed andare di passo spedito. Incominciava appena appena ad albeggiare.
Puntò verso la Forca del Ciadin. Nella fase ultima di avvicinamento poté sentirsi un po’ più sicuro perché grossi macigni gli offrivano qualche riparo. Il nemico poteva essere sulla “corda” e colpirlo con estrema facilità. Salì, zigzagando, furtivo. Una breve sosta e poi, schioppo in braccio, pronto a colpire, si affacciò sullo stretto valico. Calma assoluta. Il declivio che si presentò ai suoi occhi, apparve come un normale, tranquillo luogo di sosta. Il panorama era bello e certo il Bepo non poté non rendersene conto perché lui le montagne le amava davvero.
Si portò verso ovest e segnò alcuni + sulla cartina che aveva in tasca. Del nemico non si vedeva traccia. Andò verso est dove la catena si presentava più massiccia e più dirupata. Camminò alquanto, salendo e scendendo le creste che si susseguivano, annotando i particolari delle sporgenze e dei valloncelli, delle difficoltà da superare con eventuali accorgimenti tecnici. Un’aquila si alzò in volo da poco lontano e questo dette al Bepo, la sicurezza di essere l’unico essere umano nella zona.
Le ore erano trascorse, il sole, alto in cielo, un bel cielo pulito e sereno. Bepo si sedette, sbinocolò i dintorni con attenzione, valutava la montagna con occhio sempre meno guerresco, sempre più da alpinista. Mangiò e guardò a lungo la cuspide rocciosa, incomparabilmente bella che era sopra di lui. Il Bepo, caporal Zanet era ai piedi della Cima Uomo, m.3.010.
Anche nell’estate 1908 i suoi occhi s’erano posati sulla sagoma massiccia della “Zima de l’Om” ma dai, inutile far finta di non ricordare, i suoi occhi erano in quei giorni affascinati da ben altri profili…la Teresa…la Teresa…la Teresa…
L’aveva incontrata proprio a Fuciada come chiamavano loro il posto dove quelli di Soraga falciavano. L’aveva intravista la Teresa, mentre sul tetto di un baito lui lavorava da carpentiere. Sarà stata colpa dell’altezza e del punto d’osservazione, fatto sta che veder la Teresa dall’alto voleva dire vedere un bel po’ di roba appetitosa.
El Bepo, diciotto anni compiuti da poco, si era reso conto di colpo di cosa volesse dire esser colpito da una foga sconosciuta, dirompente, irrefrenabile.
La sera mangiò la sua polenta con lucanica, seduto su di uno scomodo ripiano dietro al “fregolar” pur di vedere da vicino la bella Teresa. Non le staccò gli occhi di dosso e la Teresa se ne accorse, altrochè e ne approfittò…”Bepo mi aggiusteresti il trausel che manca di un appoggio?”…”Bepo potresti sistemare la carriola che ha perso la ruota?”…”Bepo vieni un po’ nel mio fienile a veder se si può assicurare la porta…” Là, nel fienile era successo tutto…tutto e di più…! Come era sembrato facile e naturale stringersi a quel corpo solido e liscio, e baciare quelle labbra morbide, ed accarezzare quei posti segreti, umidi e tiepidi, ed entrare con una dolorosa ed inesausta voluttà negli anfratti più intimi…. Mesi dopo s’era confessato dal vecchio parroco e quando aveva detto che aveva fatto all’amore con la Teresa il vecchio curato l’aveva assalito “Non nominare l’amore…! Questo è peccato della carne e la carne è strumento del diavolo, caro figliolo!” Il tempo era passato. Aveva rivisto la Teresa alla Fiera dei Santi a Moena e l’occhio era andato subito al ventre della ragazza. Per fortuna era normale, niente curve prominenti, nessun segno del cedimento estivo.
El Bepo era cresciuto senza dimenticare del tutto. Era di casa in quei luoghi, per lavoro, era stato molte altre volte a Fuciada ed al San Pellegrino. La Teresa non l’aveva mai più incontrata ma i suoi occhi si posavano ogni volta con tenere simpatia sul profilo de l’Om che era stato testimone silenzioso dei suoi giovanili ardori. Anche oggi, 27 luglio 1915, il Bepo lo ammira.
Non fu facile decidere, credetemi. Il Bepo era un soldato ligio al dovere. Era partito per la guerra convinto che fosse suo dovere difendere la Patria, liberare la Patria dallo straniero, riportare i confini dove addirittura Dio li aveva posti.
Ma quella Cima Uomo, lì, ad un tiro di schioppo, ma che dico, di schioppi non parliamo per niente, la Cima Uomo era da conquistare!
Quando il Bepo diceva “conquistare”, non intendeva parlare di guerra, no, intendeva parlare di forza, di agilità, di acume, di volontà che ti porta lassù, lassù, oltre quei 3.000 metri di altitudine.
La via che egli “aprì” quel giorno non è scritta negli annali della storia dell’alpinismo, non è stata proprio per niente divulgata, sia chiaro ma è sicuro che alle ore 18 del 27 luglio 1915 il caporale Zanet Giuseppe mise piede sulla cima più alta del gruppo di Costabella. Cima Uomo era sotto di lui.
Il giovane standschuetzen Mìchele Zulian tirò un sospiro di sollievo. Era stato in servizio 36 ore consecutive: prima per raggiungere il posto di guardia che gli era stato assegnato su al Passo Pasché, praticamente sotto il Col Ombert, poi di vedetta a tener d’occhio tutta la brulla zona del Lasté, le cime di Ombrettola e la cuspide innevata del Sasso Vernale. Dietro a tutto ciò, giganteggiava la mole impressionante della parete sud della Marmolada ma lui non doveva occuparsi di lei. C’erano altri che lo facevano. Finalmente era arrivato il cambio ed il sergente gli aveva detto: “Jezt, bist du frei. Treff Punkt morgen, um sieben Uhr, am Kontrin-Hutte. (Ora sei libero. Appuntamento domani, alle sette, al rifugio Contrin).”
Mìchele Zulian era un giovanissimo standschuetzen, non ancora ventenne e perciò aveva compiti di appoggio, di ausilio, ai reparti militari che l’esercito Austriaco impiegava nella difficile battaglia sulle Dolomiti. Gli toccavano grossi carichi di materiale da portare sulle postazioni, attività lavorative nell’approntare passaggi, rifugi, strade e quant’altro serviva. Ogni tanto gli veniva affidato l’incarico di vedetta in postazioni abbastanza arretrate anche se il fronte era, in quelle zone, poco definito e spesso variato. Lo stare in postazione di guardia, sulla forcella Paschè, era stato per lui una specie di promozione, di premio per la sua operosità e diligenza.
Incominciò a scendere verso San Nicolò. Erano le tre del pomeriggio. Avrebbe potuto rientrare a Vigo dove c’era la sua casa, sua madre e le sorelle e passare la notte nel suo letto ma qualcosa gli rodeva in petto e non gli dava pace.
Aveva guardato per tante ore le pareti lucenti delle sue montagne ed il cuore gli stava giocando uno strano scherzo. Si fermò…”Voi ruar lasù, su l’Om che e abu dut el dì sora de me, a man dreta, sì bel e gran, proprio el gran patròn de dute chele crepe.”(Voglio andare lassù, su l’Om che per tutto il giorno è stato sopra di me a destra, così bello, imponente, padrone assoluto di tutte quelle rocce).
Discorsi stupidi, discorsi senza senso. I vecchi Fassani non avevano mai gran che ambito la conquista dei giganti di pietra che coronavano la loro piccola valle. Che dire ? La vita era così dura nella sua quotidiana lotta per la sopravvivenza che le rocce, “le crepe”, erano proprio da lasciar stare, ignorarle completamente. Da qualche tempo era iniziato però “il turismo”, una cosa nuova, non si sapeva se avrebbe portato bene o male. Certo che sconvolgeva antiche, consolidate teorie. “I turisti”, gente straniera, volevano andare per roccia, non godevano del verde dei prati, dell’ombra dei boschi, della dolcezza della vallata. Macchè, su per roccia, per crepe e più erano erte e lisce, più gli piacevano! Lo zio del Mìchele era andato ad accompagnare di questi “siori-foresti”, era stato anche pagato ed in paese si faceva un gran parlare.
La guerra, che era scoppiata da un anno e più, aveva sconvolto tutto.
Mìchele Zulian aveva appena trascorso 30 ore in solitudine nella garitta del passo Pasché ed aveva avuto tempo a iosa per riflettere sul passato, sul presente e sul futuro.
Decise così, di getto, di fare una cosa strana, fuori dalle consuetudini, dagli ordini e dal buon senso. Aveva 19 anni, gli concediamo tutta la nostra comprensione. .
Dalla sua postazione aveva osservato il ripido costone che scendeva verso la valle e che in cima si dipartiva da una forcella stretta, delimitata da uno spuntone che pareva una sentinella colossale, di guardia. “La su “taglien” no n’è de segur.. La linea de fec l’è n fora. Sun sora l’è l’egua che roda intorn. Chiocà no l’è nesugn. Jo vae” (Su per di là, “tagliani” non ce ne sono di sicuro. Il fronte è distante. C’è l’aquila che gira intorno. Lassù non c’è nessuno. Io vado).
E il Mìchele s’incamminò di buon passo, leggero anche perché nello zaino di cibarie ne aveva proprio poche e la dotazione militare aveva dovuto lasciarla in garitta. Camminò, arrampicò, sbuffò e soffrì. Non pensò neppure per un momento che poteva scontrarsi con il nemico. Quel pensiero non lo sfiorò neppure. Salì e salì e la valletta che gli apparve, giunto in sommità, così dirupata e scoscesa non gli disse proprio nulla. Non ne conosceva neppure il nome. Quello che teneva d’occhio era il profilo ombroso e sempre più incombente della Cima Uomo. “Voi ruar colassù!” (Voglio arrivare lassù) e via. Percorse con passo veloce i ghiaioni che lo portarono rapidamente ad un’altra forcella, la forcella del Laghet. Che ne sapeva il povero Mìchele di scalate, di corde, di moschettoni, di chiodi infissi nella roccia…? Lui andava, perché una forza misteriosa lo spingeva e lo sosteneva. Sentiva di amare queste rocce materne e con le mani gli piaceva toccarle. Arrampicò, senza tecnica e senza conoscenze ma era forte ed agile e deciso.
Mìchele Zulian standschuetzen di Vigo di Fassa – Tirolo -, alle ore 18 e 10 minuti, il giorno 27 luglio 1915, raggiunse la Cima Uomo, m: 3.010 e si trovò un ’91 puntato al petto!
“Alto,là! Se te te mof, te se mort.”(Se ti muovi, sei morto)
“No me meve. No é schiop.”(Non mi muovo, non ho fucile)
“Chi ses tu? Fastu che qua? Te se un soldà, te vede.” (Chi sei? Che fai? Sei un soldato, lo vedo)
“Son en standschuetzen, son zenza schiop. Par inchè è fenì mi lurier. Io me pissae che su chista ponta no fossa termign. Iò creseve che chiò no ruassa la vera.(Sono standschuetzen, non porto lo stutz. Non sono in servizio. Io credevo che questa cima non avesse frontiera…credevo che qui non ci fosse la guerra…)”
Amici cari cosa potremmo rispondere noi oggi a questo ragazzo? Cosa si potrebbe suggerire al caporale Zanet ? Noi nel 2000, al di sopra ormai delle parti, cosa potremmo aggiungere?
Sappiamo una cosa sola, ed a raccontarcela fu il nonno, tanto tempo fa. I due “nemici” si sedettero in un anfratto della roccia poco sotto la vetta e là passarono una notte mai più dimenticata. Mangiarono il duro pane di segala del Mìchele con delle sardine sottolio che aveva in scatola el Bepo, bevettero dalla fiaschetta un sorso di vino italiano e fumarono con molta cautela un mozzicone di sigaro ungherese. Non accesero 0fuoco perché da quel posto sarebbero stati avvistati da almeno cento postazioni, che dire?, “nemiche”! Parlarono a lungo, ognuno nel proprio idioma e si capivano anche perché parlavano di cose comuni, di lavoro, di gioie e di preoccupazioni, d’amore, no di “carne” come aveva detto il vecchio curato, di conoscenti comuni e di rocce belle da salire. I due nemici passarono la notte sotto il cielo stellato, nell’abbraccio immane della Cima Uomo e quando si salutarono all’alba del 28 luglio 1915, si abbracciarono. Nessuna frontiera passava su quella cima.
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