Segnalato 2 28 - Gruppo Alpini Arcade


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Segnalato 2 28

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Segnalato

Infinite luci, misteriose ombre

di Scanavacca Giovanni
Lendinara (RO)

 
 
C'era voluto il testamento del nonno per farmi ricordare.
Storia antica, racconto di un tempo lontano che, nella mente di un bambino, aveva trovato spazio accanto a leggende di gnomi, cavalieri oscuri ed eroi senza paura.
Era reale, invece.
Tanto vera da meritare di essere scritta nell’atto formale ultimo della vita, quello che si riserva ai posteri.
"Era il 1917 e la guerra andava male. Era cominciata non sapevo più da quanto, a me pareva da un'eternità. Ne avevamo già viste di tutti i colori, ma nulla faceva sperare che volgesse a fine..."
Questo l'inizio del messaggio che il nonno aveva incluso nel testamento.
A noi eredi la cosa parve insolita, ma non del tutto improbabile perché spesso lo avevamo sentito raccontare di quando, giovane recluta, era stato sbattuto in montagna a combattere contro nemici sconosciuti.
"Sull'Ortigara erano morti come le mosche. Un giorno si avanzava, il giorno dopo ci si ritirava in un gioco estenuante. E, a segnare lo scorrere del tempo, erano i cumuli di morti là in mezzo, in quella ‘terra di nessuno’ contesa, ostile, insanguinata e solo apparentemente libera.
Erano giorni di attese estenuanti, di paure infinite, di preghiere biascicate e imprecazioni urlate, di patti di sangue, di eroismo e viltà…"
E quel messaggio apparentemente fuori contesto e volutamente frammentario pareva scritto apposta per suscitare curiosità, specialmente nella chiusa:
"Per voi tutti familiari un monito: tutto dipende dal mio amico Francesco al quale sono grato io per primo e voi di conseguenza. Per chi voglia scoprire di chi parlo c'è il mio diario ché qui non è il caso di dilungarsi." E, come nel suo stile, il nonno aveva chiuso l'argomento.
Stando al notaio il testamento era perfettamente valido e la postilla era solo una precisazione che nulla modificava.
Fatto sta che quella nota aveva messo un tarlo nelle nostre menti: a chi e cosa si riferiva il nonno?
Per questo andai alla ricerca del diario.
Non fu semplice perché le carte, in una vita, si accumulano, si nascondono, si perdono e si ritrovano seguendo leggi misteriose quanto dispettose.
Lo trovai in un cassetto in mezzo a vecchie foto.
Era un quaderno con la copertina nera, come erano quelli di un tempo.
E là, su foglio a righe da quinta elementare con grafia tutta spigoli i ghirigori, il diario: date e commento.
Periodo 1915-18.
Cioè guerra.
«Eravamo giovani. La montagna era la nostra amica.
Verdi prati con la buona stagione, bianche distese di neve d'inverno.
Fiori profumati e brezze sottili in primavera.
E i violenti temporali estivi non ci spaventavano.
E venne la tempesta. Violenta, implacabile, lunga, terribile. Ci investì e travolse come fuscelli.
Montagne: luoghi di poesia ove fermarsi a riflettere tramutati in campi di battaglia dove scavare trincee e piantar picchetti.
Giovani con sogni e aspirazioni trasformati in carne da macello.
Guerra in montagna in compagnia di muli e pidocchi a cercar riparo in buchi scavati nella roccia.
Quando ci spedirono sull'Ortigara capimmo subito che sarebbe stata una carneficina, ma andammo avanti.
Là conobbi Francesco, di poche parole, un montanaro tagliato con l'accetta.
Fu lui a salvarmi quando mi impigliai in un reticolato.
"Sta' fermo, altrimenti ti intrappoli di più." Mi disse tagliando il filo spinato poi mi sfilò da quell'impaccio prendendomi per il bavero come fossi un gattino.
"Passa di là. C'è un varco più agevole. Io arrivo dopo, che c'è da fare." E si girò per andare a recuperare uno che era rimasto intrappolato da una tagliola. Non potei evitare di guardarlo aprire apparentemente senza sforzo quella trappola e, come nulla fosse, caricarsi in spalla il malcapitato per ripararlo dietro uno spuntone di roccia. A poco a poco mi accorsi che quello era il suo comportamento abituale. Pareva che quel che succedeva non lo spaventasse, viceversa io avevo sempre più paura.  
Poi, finalmente, ci tolsero dalla prima linea.
"Non illudetevi." Ci ammonì il sergente. "Questo è un posto di osservazione avanzato: è tranquillo solo in apparenza. La piazzola di artiglieria là in fondo è un bersaglio importante per il nemico.
I bombardamenti sono frequenti, ma spesso c'è qualche pazzo che tenta l'assalto risalendo il costone.
Per questo: occhi aperti, sempre."
Era vero, purtroppo.
Maturai la convinzione che fosse solo una questione di tempo e poi i nemici ci avrebbero centrato.
"Lo vedi quello?" Mi chiese Francesco una mattina mentre, coricati sull'erba, scrutavamo col binocolo l'orizzonte.
"Cosa?"
"Quell'arbusto che hai a due spanne dal naso." Scherzò lui.
"Ah sì, adesso lo vedo, guardavo in distanza."
"Si vede proprio che non sei un uomo di montagna. Quello è un rododendro. Ha già i boccioli e fra un po' fiorirà, sempre che riesca a sopravvivere alle battaglie."
"Come fai a pensare a queste cose in mezzo a tutto questo?"
"Perché sono convinto che questa sia la chiave per la nostra sopravvivenza. È la bellezza che dobbiamo guardare, non la guerra.»
A quel punto lo scritto si fermava, riprendeva poco oltre con un inchiostro differente come fosse trascorso del tempo fra la prima e la seconda parte.
«Una cosa mi resta da fare, a un obbligo non ho ottemperato, una promessa, un vincolo non ho soddisfatto.
C'era un accordo fra noi.
"Le vedi quelle cime?" Mi disse un giorno Francesco.
"Certo."
"Ognuna ha un nome, per ognuna c'è una via, per tutte un segreto."
"Di che parli?"
"Se tu fossi di qui, sapresti che ogni montagna ha il suo mistero e lo rivela solo a chi la conosce."
"Non capisco lo stesso."
"Prima che scoppiasse la guerra le ho conosciute tutte."
"Vuoi dire che le hai scalate?"
"Io preferisco dire che le ho conosciute. È come parlare di vecchie amiche alle quali confidi segreti e dalle quali ricevi confidenze."
"Non capisco."
"Sto cercando di dirti che, se la guerra è terribile e incomprensibile ovunque, qui è pura follia.
Guarda. Laggiù sorge il sole. Timido appare la mattina, luce fioca al finire della notte, scintillio appena percettibile nel buio capace di diventare incendio folgorante nel giorno pieno.
E là in fondo tramonta con tutta la teatralità possibile.
Ogni giorno lo spettacolo cambia rivelando la magnificenza di una scenografia fatta di cime, picchi, altipiani e i dirupi. Dall'apice della vetta più alta al fondo della valle più profonda ogni roccia recita la sua parte nel copione del tempo. È così da sempre in un'eternità apparentemente ferma eppure in continuo movimento.
Qui noi uomini, siamo un corpo estraneo e la guerra con le bombe, le esplosioni i morti è sacrilegio."
"Promettimi una cosa."
"Cosa?"
"Se dovessimo cavarcela torna a valle e racconta la poesia di questi luoghi.
Non perder tempo a descrivere le follie degli uomini ché, tanto, sono sempre uguali, monotone nella loro inutilità, dannose per la loro crudeltà.
Racconta il sorgere del sole, la luce del primo mattino e quella  del tramonto. Non descrivere l'orrida guerra. Piuttosto porta con te lo spirito che aleggia qui. Siamo in quota, più vicini al Paradiso e quindi ai voli degli angeli e ai colori dell'infinito. E..."
"E…"
"E se io non ci fossi più, cosa probabile, ricorda che, in una gavetta che ho recuperato, ho chiuso delle memorie.
Sono così pazzo da pensare al futuro.
Le ho indirizzate  a dei  figli che non ho, ma miei figli sono tutti i bambini che stanno laggiù nella pianura, chiusi nei rifugi, spaventati, nascosti e tremanti.
Se questa cosa finirà racconterò di persona.
Se non sopravviverò conserva il mio messaggio e consegnalo quando riterrai che il tempo sia opportuno."
Accettai senza capire fino in fondo quale patto avessi sottoscritto.
Quando Francesco volò via per un colpo d'artiglieria non riuscii a piangere né a pregare.
Guardai l'orizzonte.
Fra le cime un raggio di sole illuminava il paesaggio che tutto avrebbe dovuto essere fuorché un campo di battaglia.
Mi ricordai della promessa.
Cercai fra le sue cose e trovai subito la gavetta sigillata.
Al suo interno delle carte ripiegate. Non c'era tempo per leggerle: la battaglia infuriava.
Dovevo mettere al sicuro quelle memorie, ma dove? Sul passo c'era la piazzola dell'artiglieria che rendeva il luogo poco sicuro e attorno solo rocce brulle. Duecento metri più avanti verso le linee c'era l'ultimo avamposto. Un buco nella montagna con una piccola stanza in cui sperare di essere riparati in caso di attacco. Una mitragliatrice a completare l'arredo e poi il nulla. Là mi rifugiai nel pieno della battaglia con una gavetta piena di idee e messaggi altrui da mettere al sicuro.
Trovai un foro di mina. Schiacciai la gavetta aiutandomi con un sasso e la ficcai là dentro con il proposito di recuperarla appena possibile.
Non ci riuscii.
Tornai da quelle parti anni dopo.
La piazzola d'artiglieria era stata invasa dall'erba.
Alle sue spalle su un cippo di confine avevano costruito un'edicola con un'immagine della Vergine.
La trincea era ancora là.
Qualcuno l’aveva chiusa in parte con un muretto a secco sicché mi fu impossibile calarmici dentro. Mi riproposi di tornare con l'attrezzatura necessaria, ma non ci riuscii.
Per questo una promessa non è mantenuta, un impegno preso non è onorato.»
Salire fino al passo non era semplicissimo: la strada si arrampicava sul fianco della montagna e poi, d'improvviso, si faceva ripida.
Un secolo prima doveva essere stata poco più di una mulattiera o, forse, solo un sentiero.
Sul passo un rifugio, meta di turisti e alpinisti dilettanti o esperti.
Nulla a prima vista ricordava quel che era successo là un secolo prima, ma la storia non si cancella e alle volte torna prepotente a urlare il suo messaggio ai distratti.
Raggiunto il passo trovare quel che restava della piazzola di artiglieria fu semplice, complici le indicazioni dei volontari che avevano curato la memoria dei luoghi. Individuare la trincea fu un po' più complesso perché la vegetazione aveva preso il sopravvento. Fu questione di un'oretta e poi, finalmente, trovammo il pertugio. Con ansia ci preparammo e, imbragati per sicurezza, ci calammo. Là sotto c'era davvero una piccola stanza ricavata sul fianco del monte. Mi stupii, guardando fuori, di vedere in distanza. Davvero, se il meteo fosse stato favorevole si sarebbe vista Rovereto.
All'interno, nel buio, muschio ed erbe.
Di fori di mina nessuna traccia.
Dovetti ragionare.
"Senz'altro saranno sul fondo, nella parte più lontana dall'imboccatura." Mi dissi. Scoprii di avere ragione quando individuai il primo: un foro cilindrico nella roccia e poi il secondo, e il terzo. Quello che cercavo  era tappato da un sasso e per questo era quasi invisibile. Estrarre la gavetta fu un'impresa. Miracolosamente la lamiera si era arrugginita poco e, pur pressata, aveva protetto il suo contenuto. Riemersi dalla trincea e non riuscii a resistere all'impulso di aprire quell'oggetto.
E il messaggio si irradiò subito forte.
Cime maestose mi circondavano, altre, lontane, parevano attendere.
Il sole scherzava con tutte creando infinite ombre e altrettanti riflessi.
Iniziai a leggere sottovoce. Poi, di colpo, dovetti sottostare all'impulso di declamare, come fossi un attore. Palcoscenico la montagna, spettatori i miei compagni e qualche alpinista di passaggio, ma anche i fiori dell'altopiano e, forse, qualche scoiattolo. Testimone il tempo che quel giorno aveva deciso di fermarsi ad ascoltare.
«Ai figli che non ho e a quelli che forse avrò.
Ai bambini di ogni età.
Mi sveglio la mattina e sento il vento fra le gole.
Vento in montagna, respiro di normalità. Cioè vita.
In distanza un rombo di cannone, ma non lo voglio sentire.
Non voglio ascoltare la morte.
È il giorno, nuovo giorno che comincia.
Infinite luci brillano sulla neve a trasformare il pendio in un prato di diamanti.
Un'immagine mi disturba: reticolati segnano confini, marcano insidie.
È la guerra, ma io non la voglio vedere.
La montagna non è guerra.
Essa è meraviglia, stupore, meditazione.
Cari bambini, la montagna è un luogo, ma anche e soprattutto è un rifugio dell'anima.
Scalare montagne non è solo degli alpinisti, ma è vita quotidiana.
Scaliamo montagne anche in pianura vincendo le difficoltà della vita.
E montagna è anche la lotta contro le avversità, i limiti del nostro essere uomini, ma non è guerra.
Laggiù ora vedo di nuovo il reticolato e, fra gli infiniti riflessi dell'alba, scopro i corpi di quelli che nell'ultimo assalto sono stati intrappolati dall'infernale groviglio. Come uccellini nella rete sono là conservando il loro stupore per una fine che non hanno meritato, testimoni di eventi assurdi quanto stupidi e crudeli.
La montagna, a suo modo, li sta risarcendo: la neve e il sole dell’alba li stanno illuminando con piccoli bagliori che li stanno accompagnando nel loro cammino verso l'infinito.
Cari bambini, se tutto questo finirà, abbiate il coraggio di dire un ‘mai più’ definitivo.
A che servono gli esplosivi e le mitragliatrici?
A chi crede di possedere la montagna dite che si sbaglia. Essa è di tutti e tutti possiede con la sua bellezza, con la sua maestosa imponenza.
Mai sarà addomesticata, mai sarà schiava.
E, se qualcuno pianterà un cippo con uno stemma, quel confine resterà più nel suo cuore che nella montagna.
Cari bambini di ogni età, se dovete lottare, fatelo per scopi che non siano il territorio, i confini.
E lotta grande sarà quella per abbattere gli steccati che stanno dentro di voi.
Lottate contro il male che tutto pervade, ma si rivela impotente contro la fantasia del bene.
Abbattete i confini che vi separano da quelli che vi sono vicini e, se da una montagna guardate l'orizzonte, fatelo per apprezzarne la bellezza invece di cercare le batterie nemiche.
Quando tacerà il cannone nel silenzio di questi luoghi scoprirete l'eco e con esso la rivelazione di infinite melodie.»
A quel punto lo scritto si interrompeva.
Forse il suo autore si era ripromesso di completarlo o forse no.
Sospirai riflettendo sull'universalità di quel messaggio vecchio di un secolo.
Quando il mio sospiro finì uno sconosciuto solista, uno di quelli che si erano fermati a curiosare, intonò un canto. Timide si accordarono altre voci a completare una melodia che cominciò a vagare nel vento.
E un'eco lontana si manifestò a creare armonia d’infinito.
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