Rosa 28 - Gruppo Alpini Arcade


Associazione Nazionale Alpini


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Rosa 28

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ASSOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
Sezione di Treviso e Gruppo di Arcade

PREMIO LETTERARIO
Parole Attorno al Fuoco
PREMIO NAZIONALE PER UN RACCONTO SUL TEMA

“La Montagna:  le sue genti, le storie di ieri e di oggi”

XXVIII EDIZIONE Arcade, 5 gennaio 2023
Premio speciale "Rosa d'argento Alpino Carlo Tognarelli"
 
Il Viaggio
“Il Viağ”
di Pellizzer Gabriella
Rosà (VI)

Sofia quel mattino si svegliò di buonora, in quegli attimi in cui il sole di alta montagna timidamente fa capolino nell’oscurità notturna ed è ancora troppo pallido per riscaldare quei luoghi ombreggiati dai boschi.

Assieme alle sue sorelle, il giorno precedente, aveva intrapreso “Il Viağ”, nei posti in cui la loro mamma era nata e vissuta fino all’adolescenza.

Se ne stava lì seduta sul letto, priva di sonno, così pensò bene di farsi una passeggiata solitaria e curiosare un po’ nei dintorni, guardò le sorelle ancora profondamente addormentate, sapeva che una volta sveglie avrebbero intrapreso la lotta con i cuscini, come nelle domeniche, quando ancora giovincelle abitavano nella grande casa dei genitori, le sue labbra si incurvarono in un largo sorriso.

Lasciò un biglietto sul tavolino, scritto con la sua elegante grafia “A dopo, belle addormentate” e munita di una verga, per scongiurare l’avvicinarsi di qualche essere strisciante, si avviò verso il centro.

Fece una prima tappa nell’unico bar del paese dove sorseggiò il primo caffè del mattino scambiando quattro chiacchiere con i primi avventori.

La terrazza del locale offriva un bel panorama, Sofia accarezzò con lo sguardo ciò che vedeva, il bel vialetto curato con aiuole piene di fiori, genziane blu, campanule, botton d’oro, intravide anche qualche stella alpina. Lì vicino passò anche un bel micio sonnacchioso, sembrava stesse decidendo se tornare ad acciambellarsi e dormire ancora un po’ o affrontare le sfide che la giornata gli offriva.

Gli alberi di pino, ai bordi del bosco, sprigionavano il loro caratteristico profumo di resina, respirò quell’aria sana, priva dello smog cittadino, a pieni polmoni. Lasciò vagare la mente e immaginò una piccola e giocosa ragazzetta bruna dai magnetici occhi verdi, la mamma, scorrazzare lì intorno, trattenne per un attimo, con un misto di nostalgia, la dolce immagine.
Riprese la sua passeggiata, passò accanto al lavatoio, un monumento storico che faceva bella mostra di sé lungo un lato della via principale, ne ammirò la fattura e i coloratissimi fiori dai toni scarlatti che pendevano dalla tettoia. Colori forti come le donne che lì, nei tempi andati, avevano lavato i panni e scambiato quattro chiacchiere, nonostante la frase scolpita nella pietra: “Donne innanzi tutto sono i doveri”.

Un monito a fare poche chiacchiere, scritto da mano maschile, pensò con un accenno di biasimo.
Le donne, da sempre un po’ sottovalutate, nonostante in quella terra di confine avessero fatto parte della storia, le sovvenne alla mente ciò che la nonna materna raccontava su quei luoghi.

Nonna Clelia, donna tenace e caratteriale che nei suoi ricordi di bimba appariva come una roccia, un porto sicuro, capelli candidi, un viso bonario illuminato da uno sguardo dallo strano colore ambrato, fiero, che si addolciva e prendeva sfumature alla stregua del miele di castagno guardando le sue adorate nipoti.

Raccontava spesso di quanto fosse difficile la vita in tempo di guerra, anche per le donne, c’erano padri, mariti e fratelli da servire di beni primari e di armi al fronte, nelle alture. Loro, le donne, partivano nottetempo, armate solo di un bastone e gerla in spalla sprezzanti del pericolo, era il loro contributo durante quegli anni terribili.

I soldati stranieri con quella lingua fatta di schiocchi e suoni gutturali facevano paura.

La nonna narrava di quella volta in cui lei e la sua scaltra e preveggente amica, con quel nome strano, Shina, l’avevano scampata bella, evitando le attenzioni smaniose di un manipolo di soldati stranieri.

Approfittando dell’ubriachezza dei soldati, le due giovani donne erano riuscite a nascondersi, con i favori della notte, nel cimitero, impavide, certe che lì non le avrebbero cercate, aleggiava una certa superstizione nel recarsi in quei luoghi di notte e i militari, quella volta, non avevano fatto eccezione.

Clelia aveva perso, in quell’occasione, una catenina d’oro, di poco valore, ma di grande impatto affettivo. Nel ciondolo appeso alla catena c’era un cammeo e al suo interno l’unica foto del suo primo bimbo, Tobia, morto ancora infante qualche tempo prima, per lo scoppio di una granata assieme ad altri bimbi, mentre correvano gioiosamente spavaldi incontro alla vita.
Le due amiche avevano a lungo cercato l’oggetto nei giorni seguenti, ma senza risultato e Clelia non si era mai perdonata per quella disattenzione.

La nonnina raccontava questa storia a loro bimbe, edulcorando quello che avrebbe potuto essere un vero e proprio assalto a due povere donne, orgogliosa del loro scampato pericolo e dell’arguzia di Shina, ma quando l’argomento si approssimava alla perdita del piccolo oggetto gli occhi si facevano tristi e ricacciavano indietro le lacrime che da brava femmina di montagna non voleva concedersi.

Immersa nei ricordi Sofia proseguì per i sentieri, tenendosi parallela alla via principale per evitare di perdersi, raccolse dei fiori, arnica e campanule e ridiscese per la via del paese, scambiò un saluto con qualche abitante del luogo.
Camminava senza una precisa meta, fino a che arrivò in un punto che riconobbe subito, c’era già stata, anni prima, in una delle sue visite al paese con la mamma.

Attraversò il cancelletto arrugginito, salì qualche gradino di pietra consumata e si ritrovò in un grande spiazzo pieno di croci e basse lapidi, era inconsapevolmente arrivata al vecchio cimitero. Notò che la piccola cappella era ancora al suo posto, seppur segnata dal tempo.

Percepiva un’aura particolare lì intorno, il sole, improvvisamente, era scomparso dietro a dei nuvoloni bianchi, si mise un po’ in allerta, non era paura, ma i suoi sensi si acuirono, strinse saldamente il bastone tra le mani.

Leggeva il cognome della mamma in molte di quelle sepolture, immaginò le persone che l’avevano portato, cucito addosso come un abito, i tratti forti nelle foto sbiadite dal tempo, in alcuni riconosceva qualche somiglianza con i nonni, offrì loro qualche fiore.

Si fece largo poi in mezzo alle sterpaglie, alle erbe essiccate, fra le pietre di quel luogo dismesso da tempo.
Provò ad entrare nella cappella, non riuscì a forzare l’antica serratura e si mise a curiosare attraverso una larga fessura nel legno.

C’era un alone dorato al suo interno, spostò lo sguardo, accarezzò con gli occhi quello che vi scorgeva, un minuscolo altare ligneo e sopra di esso una corsia ricamata e candida, come fosse stata lavata da poco, nelle narici un forte profumo di sambuco, si guardò intorno, non vi era pianta alcuna, se non degli sparuti cipressi, muti testimoni del luogo di sepoltura.

Si sentiva come non si era sentita da tempo, in pace. Ascoltava il battito del suo cuore, quella calma le si riverberava in profondità fino all’anima, meglio delle sedute di yoga mattutine prima di iniziare l’impegnativa giornata in ufficio.

Doveva consigliare qualche sua collega stressata, alla stregua dell’aiuto psicologico, di recarsi lì, poi ci ripensò, quello era una specie di Buen Retiro personale, dove avrebbe potuto starsene un po’ in pace, non riuscì a trattenere una risatina nervosa, certo più in pace di così, era un cimitero!

Sedette sulla malconcia panchetta in pietra che si trovava alla destra del modesto portoncino della cappella.

Posò lo sguardo tutt’intorno, un fruscio attirò la sua attenzione e i suoi sensi si fecero attentissimi, il temuto viscido essere strisciante si palesò, provocandole un brivido lungo la schiena, non si perse d’animo, smosse le pietre con il bastone e ingiunse al serpentello “Sciò, vattene!”

Questi sembrò più spaventato di colei che gli urlava contro e in un attimo sparì, attraverso i bassissimi rovi che contornavano un gruppetto di tombe.

Sofia alzò lo sguardo dai rovi e d’incanto vide le meravigliose e purpuree ali di una farfalla che volteggiava sinuosa intorno a una sepoltura, guardò la foto sulla lapide, un volto di donna con occhi vividi che sembravano osservarla con un guizzo giocoso, sembravano seguire i suoi movimenti, la giovane donna provava a spostarsi e lo sguardo pareva seguirla.

Cercò di rimanere con i piedi per terra, fregiandosi della sua risaputa razionalità si avvicinò, facendosi strada con il bastone, lesse il nome sulla lapide, Sidonia e tra una coppia di sbiadite parentesi una scritta “Shina”. Era lei!

Il cuore in petto le mancò un colpo e iniziò subito dopo a fare le capriole, non ci poteva credere, quella donna che la nonna durante i suoi racconti aveva spesso nominato, la sua vera amica, arguta, affidabile; la descrizione che ne faceva la nonna era esatta, una donna non bella, ma di un fascino indubbiamente carismatico, con un paio d’occhi che scavavano nel profondo dell’animo.

La foto in bianco e nero e sbiadita dal tempo e dagli eventi atmosferici non rivelava il colore di quegli occhi, ma lei li immaginò di un mistico viola scurissimo.

Si avvicinò ulteriormente alla sepoltura, accarezzò la foto di Shina, le fece un piccolo inchino e si ritrovò emozionata a parlare a una foto su di una tomba “Ciao, io sono Sofia, sono lieta di vederti e conoscerti”. La omaggiò dei fiori rimasti fra le mani e fu lì che lo vide, fra le erbe spontanee che ricoprivano la tomba, un luccichio che attirò la sua attenzione, un pezzetto di vetro che rifletteva i tenui raggi solari?

Guardò con più attenzione e si accorse che era una catenina.

Iniziò a capire, si diede un pizzicotto, era sveglia!

Prese il monile, aprì il cammeo che, come uno scrigno, aveva custodito negli anni la foto, sbiadita, ma ben visibile del suo piccolo zio.

Un bimbo dai capelli scuri e dagli occhi magnetici come quelli della mamma, il suo piccolo zio!
Le due amiche si sostenevano anche durante il loro riposo eterno, Shina offriva quell’immenso dono alla sua cara amica Clelia e lei, Sofia, ne avrebbe portato il testimone.

Non si accorse quasi della lacrima sfuggita ai suoi occhi, così simili a quelli che sembravano scrutarla dalla foto del cammeo.

Pulì il prezioso oggetto, lo assicurò all’interno di un fazzoletto ben in fondo alla tasca dei pantaloni e si avviò, con cuor leggero e a passo svelto sulla via del ritorno.

Era desiderosa di dare il buongiorno alle sue sorelle!

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