Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXVI^ edizione - Arcade,12 Giugno 2021

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

UN SORRISO RUBATO AL VENTO

 

Un sorriso. Sì, è proprio un sorriso rubato al vento quello che si è visto per un istante sul viso di Marco. Il primario esce frettolosamente dalla camera numero 12 urtando un carrello con delle medicine colorate poste sopra alla rinfusa. Il sole oramai basso filtra tra le tapparelle segnando la parete con una miriade si stelle allineate come una compagnia all’alzabandiera. Ma subito torna il silenzio.

Come ogni mamma che conosce il proprio figlio anche la signora Maria trattiene la felicità ma guarda con le lacrime agli occhi e il viso tirato come le corde di un violino il lenzuolo che copre quel ragazzo. Sono oramai diversi mesi, forse più di cinque che ogni giorno, ogni santo giorno ripete orgogliosa quella strada trafficata, entra in nel parcheggio grigio, percorre a memoria la corsia che sa di speranza, prende l’ascensore, saluta rispettosamente le infermiere, percorre il corridoio verde mare e entra senza far rumore. Saluta, si avvicina e accarezza i capelli arruffati di quel suo unico figlio.

L’elicottero li aveva lasciati sulla spianata alzando una nuvola di polvere che leggera si spostava verso nord. Subito in fila e con passo spedito si erano diretti verso un gruppo di case basse che si trovava sul lato orientale della montagna. Nessun albero e pochi sassi squadrati ai lati del sentiero. Un pastore vestito di bianco, con pantaloni larghi, il pacol in testa e barba lunga li guardava da una decina di metri. Le sue patite capre cercavano ristoro attorno a un cespuglio. La salita era iniziata da poco. Il sudore scendeva lento lungo il viso. Lo sguardo si perdeva tra la valle lunga secca. In fondo un rudere di pietre dove stavano un paio di bimbi sporchi intenti a giocare seduti. Vicino una donna grossa attenta a sorvegliare la prole. La pattuglia proseguiva in silenzio. Zaino pesante alle spalle, casco ben allacciato con una penna nera che ondeggiava fiera, fucile carico imbracciato e occhi che si muovevano nervosamente alla ricerca di qualche movimento. 

Ancora un passo e un’esplosione assordante a segnare per sempre la vita. Marco non ricorda altro di quella giornata tra le colline deserte in Afganistan. Una coperta di terra calda. Il cielo improvvisamente scuro. Campanelle sbattere in lontananza e grida dei compagni. Poi sonno profondo.

Il risveglio su un aereo militare che lo accompagnava alla base. Il capitano che sorrideva al suo fianco. “Tutto bene … vedrai che andrà tutto bene …“.  “Dove sono … cosa è successo”. “Riposa. Vedrai che andrà tutto bene”. Riposa. Si, proprio la parola giusta. Il suo corpo stava tutt’ora riposando. Fermo, immobile da allora. Fermo. Coperto da un lugubre lenzuolo. Solo i suoi occhi si muovono. E solo parole di rabbia sono uscite da allora.

Le ore passavano lente. I medici si susseguivano. Le stelle allineate alla parete facevano ogni giorno lo stesso giro. Non voleva vedere nessuno. Non sopportava la vista di tutte quelle persone che … che camminavano. Solo a sua mamma era permesso avvicinarsi, solo lei poteva accarezzarlo.

Prima che uscisse il primario aveva firmato le sue dimissioni per l’indomani. Quello che si poteva fare era stato fatto. Da adesso sarebbe stato compito suo cercare un senso alla sua vita. E Marco lo aveva capito bene.

La sedia a rotelle era li accanto al suo letto. L’aveva provata qualche giorno prima. Pronta.

La mattina seguente. Una fresca mattina autunnale. Sua mamma arrivata in anticipo aveva trovato Marco pronto sulla sedia. Sguardo serio che la fissava. Il solito saluto secco e poi labbra strette. Orgogliosa di poterlo accompagnare a percorrere la via a ritroso verso casa. Ma mentre si avvicinava all’uscita, appena passato un vecchio in vestaglia rossa sorretto da una donna che gli somigliava, Marco a voce decisa e forte ordinò alla madre. “Voglio andare dal nonno!”.

La mamma stupita della decisione ma felice di quella prima richiesta dopo quel periodo buio e cupo, senza aggiungere altro rispose semplicemente con un “Agli ordini, direzione Carnia”.

Marco era cresciuto a Rigolato con il nonno e la mamma, fino all’età di quattordici anni. Il padre era sparito prima di poterlo conoscere. La sua infanzia era stata una continua scoperta col nonno che lo accompagnava dappertutto come un fratello. Sempre in giro per le montagne. Sempre assieme. A tagliare l’erba per i conigli, a girare il fieno sui campi per le mucche. A funghi quando era ora e in cima ai monti a mirare i panorami cercando di riconoscere cime lontane. Di notte ad ascoltare i bramiti dei cervi e di mattina presto a mungere in stalla. E poi tutte quelle sere d’inverno vicino alla stufa con tre fette di polenta a scaldare sulla piastra e il frico profumato che friggeva nel tegame, ad ascoltare le storie del nonno.

Marco viaggiava con la fantasia a sentire la voce di quel simpatico vecchietto. Si immaginava di essere lui stesso il protagonista di tutte quelle vicende. Il nonno cercava sempre di raccontare episodi allegri e spensierati come se la parola fame non esistesse, come se le malattie non fossero mai arrivate in quelle terre. Rigolato era allora un paesetto dignitoso. Tutti si conoscevano e cercavano di aiutarsi anche se la vita era dura. Arrivò un giorno quando al nonno sfuggi la parola “Russia”. Il ragazzo ormai cresciuto, qualcosa aveva studiato a scuola e volle subito sapere tutto. Da quel momento ogni passo della ritirata lo aveva percorso anche Marco. Le tristi vicende della steppa lo avevano intrigato a tal punto che di Nicolajewka immaginava ogni isba, che sentiva l’odore di polvere bruciata uscire dai fucili, che rispondeva alle grida di aiuto dei poveri soldati, che scrutava l’orizzonte in cerca della fine. Immaginava mitragliatrici che tracciavano il cielo grigio, compagni cadere nella neve, sogni svanire.

Arrivato al paese l’auto subito prese la stretta via verso la piazza. Passato il centro e lasciato l’edificio dove una volta c’era il panificio girava per una via sterrata per arrivare alla casa in pietra del nonno. Sulla destra una porta verde che portava all’abitazione, sulla sinistra il vecchio portone per la stalla da tempo vuota. Parcheggiata sul lato e fatto accomodare con difficoltà sulla sedia, la mamma lo spingeva verso l’ingresso.

Dalla finestra si vide un movimento di una tenda ricamata e subito due occhi a cercare qualcuno. Di li a poco si aprì la porta e il nonno apparve mentre si metteva le mani sui pochi capelli bianchi. Il suo sorriso, il movimento del capo, le lacrime agli occhi. “Marco, Marco” e dopo qualche secondo ancora “Marco!”.

I loro sguardi si incrociarono. I sorrisi bagnati di intesa. Come due amici da lunga data. Il nonno che si abbassa e abbraccia quel che resta di Marco. E Marco sorridere e piangere per l’emozione di tornare dove tutto era bello. 

Entrati in casa sembrava di essere tornati indietro di dieci anni. Odore di stantio, ma tutto in ordine. Sul tavolo stava una scodella con del latte tiepido e tozzi di pane inzuppato. La foto incorniciata di loro due che si abbracciavano e mostravano orgogliosi un orto in ordine era ancora là, appesa sul muro di calce bianca, impolverata ma in bella vista. La stufa economica bianca che tanti inverni li aveva scaldati e che faceva da sottofondo alle loro serate allegre. Un cestino con qualche piccola castagna cotta stava sopra la credenza. C’era ancora il vecchio cappello Alpino attaccato accanto la pendola. Alpino come suo nipote. Soldati. Entrambi in guerra!

“Mamma ci puoi lascare soli?”. La signora Maria dopo aver visto e preso una scopa esce dalla casa e si mette a pulire il marciapiede dalle foglie cadute dell’acero vicino. Al nonno il compito di iniziare. Fatica a parlare ma dopo qualche istante: “Marco, allora, come va!”. Marco lo guarda e sorride. Sorride. Le sue labbra tremano. “Nonno, … ti ricordi quando mi raccontavi le storie della Russia, … seduti vicino a questa stufa, … ricordo tutto di quel periodo. Stavamo bene quassù in montagna”. Il vecchio ascoltava. “In questi mesi da solo in quella maledetta stanza d’ospedale sei stato la mia àncora”. “Tanto ti ho pensato, … e sperato di vederti ancora per dirti… “. Nella stanza non si sentiva che il rumore ritmico della scopa strisciare sul ruvido cemento, interrotto dai passi della mamma che portava fagotti di fogliame scricchiolante dove una volta c’era l’orto e ora solo sterpaglie. Dopo aver deglutito Marco riprese coraggio.  “Ricordo tutto … anche quando mi dicevi che … la guerra è una brutta cosa!”.