Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXIV^ edizione - Milano,12 Gennaio 2019

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

 

VOCAZIONE

Di VALENTINA SEMPRINI di RIMINI

  

«Penso a tutto il bene che il Signore

vuole da noi sacerdoti ottenere,

attraverso questo generale

sconvolgimento degli uomini».

1° febbraio 1917

Don Angelo Roncalli, cappellano militare e,

a partire dal 1958, Papa Giovanni XXIII

 

«Perdonatemi, padre, perché ho peccato.»

«In nómine Patris et Filii et Spíritus Sancti.»

Si comincia così. Con frasi preconfezionate, una litania a cui ogni soldato si adatta: con il timore di chi potrebbe morire presto senza essersi lavato la coscienza e lo scetticismo di chi dovrà tornare da me. Perché ogni giorno le sue pallottole avranno centrato un nuovo nemico.

Poi ci sono quelli che da me neanche vengono, perché la morsa dell’ipocrisia e della vergogna li stringe troppo forte.

Pochi giorni fa, uno di loro me lo ha chiesto. Un ragazzo giovane, Fulvio Maretti. «Padre, che senso ha? Cosa ci fa un uomo di Chiesa, quassù al gelo, fra soldati che chiedono perdono sapendo di essere pronti a sparare ancora?»

«Offro quel poco che riesco a offrire. Il conforto della fede a chi crede, e quello della semplice umanità agli altri.» Gli ho passato un boccone di pane. «Anche insegnare a leggere e a scrivere, a quelli di voi che ci tengono, è un incarico che mi rende almeno un poco utile.»

«Ma qui?» insisteva il ragazzo. «Perché non siete rimasto, non so, in qualche ospedale? Magari un posto senza roccia e ghiaccio e neve, in cui domani veramente inizi l’estate… mentre quassù fanno ancora venti gradi sotto zero.»

«Eh, hai ragione.» Ho abbozzato un sorriso. «Le Alpi sono freschine. E io sono stato cappellano militare di montagna anche nell’altra, di guerra.»

«Davvero?»

«Sull’Adamello, sono passati quasi trent’anni.» Mi sono accarezzato la barba, ormai brizzolata. «Ma c’è una ragione, se anche stavolta accompagno una divisione di montagna.»

Fulvio mi ha fissato quasi con diffidenza.

«Se vuoi te la racconto.»

Si è seduto per terra, a gambe incrociate. Ha dato un morso al pane e mi ha fatto segno di sì.

 

*          *          *          *          *

 

In un ospedale ci ero stato eccome, e pure a lungo. Si trovava vicino a una Casa dei Soldati, dove i reduci chiedevano a gran voce la presenza dei sacerdoti: credo che ci considerassero un baluardo contro l’abbrutimento, contro la rassegnazione agli orrori di cui erano stati testimoni o colpevoli.

Non mi ero mai allontanato da lì, non ero stato al fronte come altri religiosi. La stampella che mi accompagnava ovunque, il passo strascicato e il certificato a seguito della visita medica presso l’ospedale militare parlavano chiaro: un ginocchio da sempre malconcio mi impediva di essere arruolato. Le stanze dei reduci nella Casa dei Soldati e le corsie dell’ospedale erano diventate la mia dimora.

Come altri sacerdoti, tenevo corsi per i molti soldati analfabeti, ansiosi di imparare, e li aiutavo a scrivere le prime lettere. Inoltre curavo i feriti e seguivo le loro convalescenze. Talvolta, dovevo accompagnare le ultime ore di chi alle ferite non sarebbe sopravvissuto, amministrare il settimo sacramento e, infine, custodire i suoi pochi averi per la famiglia.

«È davvero triste, vero, Padre?» mi aveva chiesto un chierico che non aveva ancora preso i voti e, inorridito da tutto ciò che aveva visto e sentito, iniziava a dubitare se farlo. «Tempi così bui mettono alla prova la vocazione.»

La vocazione? Eh, insomma. Neanche io ne avevo poi così tanta. Più di quella, aveva potuto la miseria. Non ero il solo a essersi fatto prete per scampare agli stenti, alle difficoltà di una famiglia che possedeva solo un pezzetto di terra scarna e avara di frutti. Non è che servire il Signore mi ripugnasse, ma, in altre circostanze, non sarebbe stata la mia prima scelta; infatti non ero un sacerdote particolarmente ligio al rispetto dei voti, avevo più di un segreto da nascondere. E mi guardavo intorno con sospetto nel timore di essere scoperto.

Ma, come ho detto, non ero il solo; e spesso una condizione comune si trasforma in un invito alla comprensione o quantomeno alla tolleranza.

Alla fine di novembre del 1915, durante un pomeriggio piovoso, l’ospedale si animò: avevano portato un nuovo gruppo di feriti. C’era fra loro un giovane soldato, di nome Ennio Ridolfi, in condizioni gravi; tanto che a un certo punto avevamo disperato che potesse sopravvivere. Ma la fibra era forte, giorno dopo giorno la temperatura si abbassava e le infezioni andavano migliorando. Quando fu fuori pericolo, l’intera Casa del Soldato fece festa, e comunque servirono sei settimane prima che Ennio potesse alzarsi, mangiare davvero, camminare.

Durante la convalescenza divenne uno dei miei studenti: ne avevo parecchi, convinti che io fossi più bravo a spiegare la lettura e la scrittura rispetto ad altri religiosi del posto. Può darsi che fosse vero, che l’insegnamento fosse un mio talento: in effetti, i soldati seguiti da me erano più veloci nell’apprendere e più entusiasti nell’esercitarsi. Cercavo di non farmene un vanto; ma se questo primato mi permetteva di trascorrere meno tempo tra amputazioni e ferite da risanare, di certo non mi lamentavo.

L’ho già detto che non mi ero fatto prete per vocazione, giusto?

Ennio era felice di mandare sue notizie alla famiglia. I genitori e la sorella erano analfabeti, ma l’anziano parroco del paese avrebbe letto per loro; e il soldato ci teneva a fare una buona figura, per cui mi chiedeva sempre di leggere i suoi scritti e correggerne gli errori.

Parlavamo spesso: mi raccontava della montagna che amava, dei pascoli che aveva dovuto lasciare. Tuttavia, era anche orgoglioso del suo servizio nelle Penne Nere: gli Alpini agli ordini del capitano Calvi, appostati sul massiccio dell’Adamello con l’incarico di sfondare la linea degli austriaci. Continuava a dire che, appena guarito, sarebbe tornato fra i suoi commilitoni, con la divisa bianca e gli sci ai piedi.

«Io non li abbandono» ripeteva. «Io torno da loro.»

A quelle parole, scuotevo la testa ed ero sicuro che avrebbe cambiato idea quando, una volta in salute, la prospettiva di tornare a rischiare la vita per il Regio Esercito si fosse fatta più concreta e temibile.

Invece, una sera mi porse una lettera che aveva appena terminato di scrivere.

«Una bella correzione come sempre, Padre? Per favore.»

Lessi ogni riga con stupore. Non era per i genitori o la sorella, bensì per l’Alto Comando. Ennio comunicava la sua imminente guarigione e chiedeva di tornare in servizio, possibilmente assegnato sempre al fronte delle Alpi Retiche.

 

*          *          *          *          *

 

Fulvio mi ascoltava con attenzione, quando siamo stati interrotti.

«Maretti» lo ha chiamato un compagno degli Arditi Alpieri. «Muòviti, dobbiamo prepararci. Domani espugniamo il Col d’Enclave.»

Lui si è alzato. «Quando torno finite di raccontarmela, va bene, padre?»

«Ti aspetto.»

Il ragazzo si è congedato con il saluto militare ma sorridendo, si capiva che lo faceva per scherzo. Poi si è chiuso la porta alle spalle.

Con quegli occhi chiari e i capelli biondi, in effetti mi ha ricordato un po’ Ennio.

 

*          *          *          *          *

 

«Padre, mi hanno risposto. Presto rientro in servizio.»

Sorrideva fiero. Impaurito, anche, ed emozionato. Ma soprattutto fiero. Ebbi la sensazione che volesse dirmi altro, gliene lasciai il tempo. E infatti.

«Venite anche voi, Padre.»

Credetti di aver capito male. «Io? A duemilacinquecento metri?»

Lui annuì.

«Ennio, io sono utile qui, alla Casa dei Soldati. Non posso…»

«Qua è pieno di monaci, oblati, sacerdoti» mi interruppe. «Noi, al Rifugio Garibaldi… nemmeno uno.» Fece spallucce. «Lo capisco, eh? Chi vuole farlo, lassù, il cappellano. Però, se voi poteste venire, Padre, se voleste, anche solo per qualche mese!»

«Il mio ginocchio.» Puntai il dito verso la stampella, appoggiata al tavolo su cui tenevo i faldoni con i documenti dei soldati, insieme alla stilografica, al calamaio e al contagocce.

«Devo unirmi a un drappello di quasi cinquanta uomini, vi aiuteremo passo passo, vi porteremo in spalla se dobbiamo.» Ennio gesticolava, nel suo entusiasmo. «Se le Penne Nere hanno portato fino al presidio quintali di armi, munizioni ed equipaggiamento, possiamo ben aiutare un sacerdote zoppo nel cammino.»

Gli sorrisi nel tentativo di assumere un’aria paterna, nonostante non fossi tanto più grande di lui. «Perché io? Perché non un prete che sia in grado di camminare e scalare la roccia con le sue forze?»

«Perché voi sapete insegnare» disse con una voce più matura dei suoi anni. «Con voi, in pochissimo tempo ho imparato a scrivere, e non solo io. Padre, lassù… lassù ce ne sono tanti di ragazzi come me, e marciano sui costoni e sui ghiacciai, e si muore. Non solo per i proiettili dei Kaiserjäger ma per il freddo, la neve, la fatica. Alcuni non hanno il tempo, di aspettare la fine della guerra e il ritorno a casa. Non ci torneranno, a casa! Ma se quasi nessuno sa scrivere, come possono mandare notizie ai loro cari, alle famiglie, alle fidanzate?» Strinse le labbra, deglutì e alzò lo sguardo di sbieco per qualche istante. «Aiutateci, Padre. Ricordateci che c’è ancora un mondo e che con quel mondo possiamo comunicare. Porterete il conforto della fede a chi crede, e quello della semplice umanità agli altri.»

Un’onda di vergogna mi sommerse, portando con sé la necessità inaspettata di affrontare la mia vigliaccheria. Non era più solo Ennio ad avere gli occhi lucidi, eppure non poteva immaginare, lui soldato limpido e altero, che ad opprimermi fosse un peccato di cui per tanto tempo avevo ignorato il peso, prolungando una sciarada ignobile.

Mi alzai in piedi, afferrai la stampella e la scagliai contro il muro. Cadde a terra e rotolò su se stessa. Ennio mi vide camminare davanti a lui, senza esitazione né zoppia, e aprire una cassapanca. Estrassi un foglio di carta e una busta, chiusi la cassapanca e tornai a sedermi al tavolo. Non riuscivo nemmeno a guardare in faccia il giovane, ma la mia testa china e le mie lacrime gli dicevano tutto quello che c’era da sapere.

«Scrivo al Vescovo» riuscii a balbettare «e offro la mia disponibilità come cappellano militare del Rifugio Garibaldi.»

Ennio sedette di fianco a me e mi pose una mano sulla spalla. Trovai il coraggio di girarmi verso di lui: il suo sguardo era comprensivo, solidale. Mi sorrise e non disse nulla, ma rimase lì per tutto il tempo che servì a scrivere la missiva.

Poi, sempre davanti a lui, recuperai da un cassetto il mio certificato medico e lo stracciai, pregando in cuor mio che nessuna conseguenza avesse mai a colpire l’amico dottore che lo aveva scritto.

«Ho i muscoli arrugginiti» dissi al giovane che, con il suo candore impulsivo, aveva risvegliato la mia coscienza. «Per arrivare lassù, il tuo drappello dovrà comunque darmi una mano.»

«Anche due.»

E così fecero.

 

*          *          *          *          *

 

Mi hanno appena riferito una notizia di importanza straordinaria.

I francesi non sparano più, l’armistizio è stato firmato; ma parte della Compagnia Alpieri è dispersa a causa di una valanga. Attendiamo che i superstiti facciano ritorno.

Prego che Fulvio stia bene, sarò felice di terminare per lui la mia storia. Quella del giorno in cui un vero soldato mi insegnò a essere un vero prete.