Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXIII^ edizione - Vittorio Veneto,7 Gennaio 2018

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

Primo classificato

Solo per amore

di Visentin Giorgio

Godega S.Urbano (TV)

 

Il tenente Aldo Lanza, uscito dalla tenda comando, risalì al buio il trincerone che portava alle postazioni del 7° Alpini con il gelo che gli arrotava lo stomaco, ma non per la bassa temperatura che dopo il tramonto aggrediva le Dolomiti, nonostante fossero a giugno.

La notte era così trasparente che si potevano toccare le stelle solo alzando la mano.

La mezzaluna sfiorava con tocco lieve i nevai sprigionandone un riverbero soffuso e, giocando sorniona con toni chiaroscuri, ammantava di luce diafana le guglie frastagliate regalando visioni fiabesche. Ma lassù nessuno aveva voglia di ricamarci pensieri romantici.

Giunto al suo alloggio, una baracca ancorata al costone roccioso, chiuse la porta alle sue spalle e si sedette di peso sulla branda.

Una pura pazzia, ecco cos’era l’ordine di prendere il Castelet.

I battaglioni Pieve e Belluno ci avevano provato e ogni volta era stata una carneficina.

Lui aveva assistito ai loro ripetuti assalti e ne aveva ricevuto una sensazione di autentico terrore.

Gli effettivi dei due reparti erano ormai ridotti a pochi uomini: ora toccava a loro, al Feltre. L’indomani all’alba.

Con la mente ottenebrata dalle inquietudini si tolse l’elmetto, si sciolse le fasce, si sbottonò la giubba e si allungò, scarponi ai piedi, sul modesto giaciglio.

Il Castelet, un torrione della Tofana protetto da trincee, bunker e filo spinato dove gli alpini andavano a spegnere l’ultimo gemito.

Duecento metri di ascesa sulla pietraia battuta dagli shützen, i fucilieri scelti del kaiser, e dagli alpenjäger, i coriacei cacciatori tirolesi.

Un’impresa sovrumana, uno spregio alla sacralità della vita, un inverecondo inno alla morte.

L’ordine diceva che il Feltre doveva attaccare alle 05,27. Un razzo rosso ne avrebbe segnalato il momento, proprio nel preciso istante in cui il sole avrebbe scavalcato l’Antelao e accecato con raggi radenti gli austriaci.

“Meticolosi in ogni dettaglio come sempre i nostri superiori!” pensò con una punta di mesto sarcasmo il giovane tenente.

Ancora poche ore di angosciante attesa. Le ultime?

Si alzò dalla branda. Dormire non era possibile in quello stato d’animo.

Il solo modo per non farsi sfibrare dalla tensione lo trovò nel leggersi dentro e fare il bilancio della propria vita.

Ventitré anni.

Cosa, se avesse potuto, non avrebbe fatto o fatto diversamente? Poteva viverne altri per realizzare i sogni?

Solo ieri era caduto il suo migliore amico di corso, il tenente Parri, e il dolore gli morse il petto al ricordo delle loro goliardate.

Da sotto la branda sfilò la cassa personale e vi prese dei fogli da lettera, il calamaio, la penna e uno spizzico di carta assorbente. Li dispose con cura sul tavolino e avvicinò il lume.

A chi scrivere?

Doveva ai suoi genitori.

Voleva a Marta.

Prese il primo foglio e incominciò a vergare le parole con calligrafia pulita:

«Tofana, 7 giugno 1916.

Amati genitori, sappiate che godo di ottima salute e il morale è alle stelle. Sono orgoglioso di servire la Patria

come soldato e per la sua grandezza sono disposto a donare la mia vita. Domani andremo all'assalto e... - si fermò incerto.

Di fronte all’ eventualità di morire certe frasi assumono un carattere grottesco, pensò, ma sapeva che per non urtare l’orgoglio di papà e l’emotività della mamma doveva dire solo quello che essi avrebbero voluto sentire.

Così continuò: - ... sono sereno. Dinanzi alla prova che m'attende sento tutta la responsabilità della mia scelta quando, contravvenendo alla vostra volontà, decisi di partire volontario per togliere le catene del servaggio ai nostri fratelli irredenti. -

Ancora un’ esitazione.

Il suo volto si contrasse in una smorfia di vergogna: sapeva di mentire ma non vi era alternativa.

L’origine della scelta di abbandonare gli studi di legge per andare al fronte era un altro e nulla aveva a che fare con gli ideali patriottici che esibiva, ma nessuno avrebbe dovuto saperlo.

Si alzò dal tavolo, uscì dal ricovero e si accostò al bordo della trincea.

Da una feritoia osservò le linee nemiche.

Trattenne lo sguardo sul Castelet.

Morire, e poi per cosa? Per una montagna? si chiese, reprimendo un sorriso amaro e ruotando lo sguardo ammaliato dalla bellezza del paesaggio circostante.

Osservò i profili superbi del Sorapis e rimase incantato dalle Cinque Torri che con dita gigantesche parevano fare il solletico all’infinito. La sublimazione di un creato meraviglioso da godere nell’intimo, un cantico dolcissimo alla bellezza della vita. E invece loro, insulsi esseri, stavano lì a massacrarsi...

Il magone lo aggredì e rientrò.

Riprese in mano la lettera interrotta e seguitò: -Lo so, vi ho inferto una sofferenza che non meritate. Mi avete educato a credere che tutto è volere di quel Dio che per me ha scritto imperscrutabili trame. Ora rimetto la mia vita a Colui che me l’ha data. -

Doveva chiudere in fretta.

-Questa lettera vi dirà che da quell'assalto non sono tornato. E' il mio bacio d’addio.

Dopo bruciatela, non fatene una reliquia con cui ferire i vostri cuori.

Io sarò accanto a voi, sempre.

Il vostro Aldo. »

Come passava lentamente il tempo.

Inspirò profondamente l’aria fredda della notte per riprendere il controllo delle sue emozioni, poi chiamò il sergente Deprà e gli impartì gli ordini da trasmettere alla Compagnia.

Cercò di apparire calmo e sicuro. Forse non vi riuscì perché il sergente, un vecio della Campagna di Libia, gli parlò per rinfrancarlo: "Lo so bene cos'è la prima volta. Vedrà, signor tenente, che tutto andrà per il meglio... "

Quando il sergente fu uscito, Aldo si sdraiò nuovamente sulla branda con le mani incrociate dietro la nuca e tutta la sua mente fu occupata dal pensiero di lei...

Marta.

Quanto l’amava ancora!

Rivide vividamente il periodo stupendo trascorso con lei. Momenti che ora gli davano devastanti sensazioni di irreparabile perdita.

Il loro sembrava un grande amore e già si parlava di matrimonio appena lui avesse finito gli studi all'università e avesse trovato un buon impiego, che non sarebbe di certo tardato con l’interessamento del padre, uno stimato notaio milanese.

Ma durante il veglione accademico di fine anno, quel maledetto 1915, la vide intrattenersi più del solito con uno studente di filosofia.

Aldo lo conosceva appena, sapeva solo che apparteneva a un movimento culturale nato da poco in qualche bettola dei Navigli, composto da squattrinati ed esaltati personaggi che si facevano chiamare Futuristi.

Marta era euforica. Inoltre, notò, aveva un modo di gesticolare e di atteggiarsi così inusuale che ne venne turbato non poco.

Ma ciò che lo colpì maggiormente erano i suoi occhi: sprigionavano una radiosità a lui mai donata.

Quando furono soli gliene chiese spiegazioni con tono alterato dalla gelosia e dall’alcol.

"Beh, che c’è di strano?- rispose seccata. -E' un giovane pieno di vita e coraggio, - e poi lo ferì - molto diverso da te. Ecco... è uno con idee moderne."

"Idee moderne?" ribatté Aldo che non capiva.

"Che vuole spegnere il romanticismo crepuscolare del chiaro di luna con la potenza accecante della luce elettrica. Che ama I'ebbrezza della velocità pilotando un aeroplano. Che vuole cambiare questa società che sa di conformismo e marciume. E' un fervente interventista, un uomo vero, capisci? Uno che vede nella guerra la sola igiene del mondo e che ha disprezzo della morte. Non un bambino come te che pensa a imboscarsi con la scusa degli studi, a farsi una carriera all'ombra del babbo e per me...- sottolineò tagliente -a chiudermi in casa con dieci marmocchi da badare."

Da quella volta i loro incontri cominciarono a diradarsi.

Un pomeriggio, pur vergognandosi di quel che faceva, la pedinò e scoprì che s’incontrava con il bel tenebroso futurista in un alberghetto della stazione. Avvertì un moto di rabbia animalesco.

Lui l’amava con tutto se stesso, non voleva rassegnarsi all’idea di perderla e per questo avrebbe affrontato qualsiasi prova.

Marta ammirava chi dava del tu alla morte? Ebbene lui l’avrebbe fatto! Erano i primi di febbraio del 1916.

L’affrontò con decisione e la convinse ad ascoltarlo.

Nella solita caffetteria al Duomo le disse che si era recato al distretto militare e aveva ottenuto di partire volontario per il fronte.

Ma contrariamente a quanto egli s’aspettava, Marta scoppiò in una risatina che lo schiantò.

Mai provò tanta mortificazione in quegli accenti canzonatori che timbravano le sue frasi, taglienti e cattive: "Tu... Lanza Aldo... volontario? Tu che hai paura perfino di toccare una donna vuoi andare alla guerra a spaventare chi, i tedeschi? Tu che non faresti male a una mosca vuoi andare a uccidere gli austriaci? Ma va, vai pure alla guerra a fare l’eroe..."

Ma come si ostinava, lei, a non capire il fuoco del desiderio che gli ardeva dentro ogni volta che l’aveva vicina e quanta fatica faceva a reprimerlo? E non solo per la rigida educazione in cui era cresciuto, ma perché era convinto che amare significasse rispettare l’altro, frenare le pulsioni in attesa del momento più bello che all’altare avrebbe coronato la loro unione.

Non la cercò più.

Di fronte allo sbigottimento dei genitori che stravedevano per quel figlio arrivato tardi, Aldo giustificò la sua scelta col fatto che da tempo meditava una sua attiva partecipazione ai destini dell’Italia.

La madre, sconvolta, si chiuse in un cupo dolore fatto di continue corone di rosari.

Il padre, allevato negli ideali risorgimentali, cercò di dissuaderlo per accontentare la moglie, ma in cuor suo si sentì orgoglioso del figlio che rispondeva alla chiamata della Patria.

Del resto, anche il Corriere diceva che la guerra sarebbe finita entro l’estate ed era persuaso che alcuni mesi di sana disciplina militaresca avrebbero fatto solo del bene ad Aldo, rinforzandone il carattere e l’attitudine al comando. Tutto ciò, poi, gli avrebbe spianato la strada verso una carriera forense sfolgorante e perché no? anche politica!

Aldo si scosse dai ricordi, tornò al tavolino e prese un altro foglio.

Esitava a cominciare e poi:

"Cara Marta, è la prima volta che ti mando mie notizie. Mi trovo al fronte- e tu sai il perché, avrebbe voluto

aggiungere, ma a cosa sarebbe servito, solo a confermare l’insicurezza di un uomo toccato nel suo infantile puntiglio? - al comando di una Compagnia di alpini. Tutti bravissimi soldati. Pensa che per la loro capacità di arrampicarsi sono stati chiamati i Camors, camosci. Fra poco li guiderò all’assalto. Questa lettera ti dirà che non sono tornato indietro e..."

Sentì un groppo in gola serrargli il respiro e bloccargli la mano.

“Ma cosa fai Aldo, cerchi commiserazione... pietà?- si rimproverò -O vuoi forse punire Marta incolpandola della tua morte- si biasimò -in modo che si roda con eterni scrupoli di coscienza?” Artigliò il foglio d’impeto e lo stracciò.

Quella lettera non scritta sarebbe stata il suo segreto atto d’amore, la dimostrazione che anche lui ora era capace di assumersi fino in fondo la pienezza del suo agire.

Guardò l’orologio. Due ore all’attacco.

Uscì all’aperto per ammirare la straordinaria bellezza del cielo notturno. Seguì la Via Lattea che attraversava, simile a un etereo ponte di luce, la volta infinita. Cercò la costellazione dell’Orsa e poi la vide: la Stella Polare, l’astro della rotta sicura. Anche lui finalmente aveva trovato la sua.

Sentì dilatarsi il primo alito della sua nuova esistenza, come fosse nato una seconda volta, e percepì la presenza di Dio.

In lontananza udì gli ordini secchi del sergente Deprà: i suoi Camors si stavano già radunando.

Lui era il loro ufficiale, colui che doveva guidarli all’attacco.

Si rasò con cura e cominciò a prepararsi: strinse le fasce ai polpacci, agganciò il cinturone, controllò la pistola, sistemò il sottogola dell’elmetto, infilò i guanti e infine, con alcuni colpetti delle mani, si stirò la giubba eliminando le pieghe fatte dalla pressione dello spallaccio.

Si guardò allo specchietto: ora era in ordine ed era pronto per presentarsi ai suoi alpini.

Con buon passo si diresse verso la linea avanzata attraversando un dedalo di camminamenti nella roccia.

Quando vi arrivò, il sergente fece l’appello: tutti presenti.

I soldati si disposero appoggiati alla parete della trincea.

Qualcuno aveva fatto girare una borraccia da cui esalava un forte odore di acquavite.

Molti muovevano le labbra in una silenziosa preghiera.

Nessuno parlava.

Li conosceva uno a uno. Per tanti che s’ingarbugliavano con la penna aveva scritto e letto la corrispondenza da casa, conosciuto le loro intimità e confidenze.

Per tutti ebbe una parola d’incoraggiamento, una pacca sulla spalla.

"Tenente, ce la faremo?" gli chiese uno, rompendo quel silenzio che stava diventando opprimente. "Certamente Lovisotto. Prenderemo il Castelet prima ancora che gli austriaci si accorgano di noi"- fu la sua pronta risposta.

Ormai aveva acquisito tutta la sicurezza che il grado e il ruolo gli imponevano -Chissà quanti di voi si prenderanno la licenza premio o la medaglia, eh?! Stasera allo spaccio della sussistenza festeggeremo insieme la vittoria. Pago io, non preoccupatevi" e un’ovazione s’alzò liberatoria.

A oriente, intanto, era comparsa una tenue striscia di luce che arrosava già le creste più alte. "Ragazzi"- urlò per farsi sentire prima che si scatenasse il finimondo.

Si stupì della sua voce che rimbalzava ferma nella trincea.

Solo un’ora prima mai avrebbe immaginato di trovare un tale dominio di sé, un contegno che si spandeva rassicurante tra i suoi uomini -fra poco l’artiglieria ci aprirà la strada... poi toccherà a noi. Non fermatevi, puntate diritto sull ‘obiettivo. Siete o no i Camors del 7°? Ricordate la promessa? Una solenne sbornia ci aspetta."

In quell’istante si udì un sibilo terrificante e le posizioni austriache vennero colpite da un uragano di fuoco. Una coltre impenetrabile di polvere e schegge coprì ogni visuale.

Trenta interminabili minuti di assordante fragore che portò i nervi al limite della pazzia.

Chiuse gli occhi. Si ritrovò ancora alla caffetteria del Duomo.

“Vedi in me ancora un bambino?” le chiese.

Con dolcezza lei gli prese il viso tra le mani quasi volesse proteggerlo.

Tenne, muta, gli occhi nei suoi ed egli si smarrì in uno sguardo radioso come l’aurora.

Poi Marta socchiuse le labbra e lo baciò.

La Tofana, come sfiorata da un tocco di bacchetta magica, s’inondò della luce sfolgorante del sole che aveva saltato le cime come un cerbiatto leggiadro.

Il cielo fu solcato da un razzo rosso.

Il tenente Aldo Lanza estrasse la pistola, scavalcò per primo la trincea e aggredì di slancio la pietraia senza fermarsi, senza voltarsi fino ai reticolati, lassù, del Castelet...