Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XXI^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2016

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

Jean e il diario bucato

di GIUSEPPE GILARDINO

PRALUNGO (BI)

 

Le tribolate vicende di un montanaro, emigrato in Alta Savoia a metà del Novecento come scalpellino, rievocate oggi dall’autore sotto forma di “diario immaginario” scritto dal protagonista, ormai ottantenne, ritornato al paese natio. Qui troverà l’ultimo rifugio ai ricordi e alle tante emozioni che la vita gli ha riservato. Solo qui potrà cercare buone risorse per affrontare i risvegli dei giorni che verranno, alleviare la dolorosa compagnia della sua solitudine.

       Mi chiamo Giovanni, per tutti “Jean” da quando sono stato in Francia, molti anni fa, a fare il picapéri.

      In paese eravamo quasi tutti scalpellini, ma io, con i ferri giusti che mio padre mi aveva lasciato, ho saputo distinguermi nel modellare con passione marmi e graniti.

       A Pas de L’Echelle mi facevano scolpire solamente colonne e capitelli per monumenti funerari. Che tristezza! Mai il busto di una donna, o almeno un angelo, un’aquila, un’artistica fontana per qualche giardino signorile. E mai un gesto d’amitié, un complimento oltre alla paga settimanale. Anzi, quello che usciva dalle mie mani si colorava d’invidia, di sottili rancori; la sobrietà nel vestire era giudicata “miserabile” da certi sguardi ostili; il mio francese non sapeva di pastiss e di baguette, ma di vermouth e polenta condita. Ero guardato con sufficienza, considerato “solamente” un italiano.

      Vivevo con mia moglie Rosina in una casetta di legno, a ridosso della montagna, con gli antoni dipinti di azzurro ed un glicine rampicante che abbracciava teneramente la terrazza, come se fosse la sua giovane amante. Alla sera, davanti ad un bicchiere di beaujolais, guardavamo il Lago di Ginevra e la catena del Jura, e ci pareva d’intravedere il Laghetto del nostro borgo, nel controluce di vette amiche. Erano passati quasi dieci anni da quando avevamo lasciato l’Italia, dopo esserci sposati, ma il profumo del nostro fieno, delle nostre caldarroste, dei nostri narcisi era rimasto impigliato nei ricordi più profondi, come l’”erba spina” dei fossi difficile da staccare dal bordo dei pantaloni.

      Le lettere, la corrispondenza con i parenti erano il cordone ombelicale per tenere in vita gli affetti, un legame con viottoli, mulattiere, fontane, campanili, amati sin dall’infanzia. Ah!...quelle scritture incerte e sgrammaticate che parlavano di matrimoni, di bambini nati morti, di ciliegie raccolte, di ubriachi e fisarmoniche, di balli a palchetto, di infiniti mal di schiena, di orari impossibili tra stalle, boschi e fienili. E poi certe divertenti espressioni come «la vacca di tua madre ha fatto», per dire che la mucca della mamma aveva partorito; oppure l’ingenuo spiegare che, dopo una terribile grandinata, «pòmi, prüssi e bèrgne era tutto sbrancato, che faceva fino s-giaglio a vedere», e cioè che le piante di mele, pere e prugne erano così spoglie che, al vederle, si provava una stretta al cuore. La lettera, di solito, finiva con le notizie sulla salute: «Noi bene, ma la zia Carolina s’è rotta una gamba, come spero di voi tutti».

      Solo nei casi urgenti si ricorreva al telefono. L’unico in paese si trovava da “Pité”, una fumosa osteria dove madame Lazare cucinava un eccellente coniglio. L’apparecchio era all’interno di una cabina di legno, tutta imbottita per non essere disturbati dal gran vociare dei giocatori di tarocchi. Per parlare con i parenti occorreva fare una prenotazione in Italia presso il “posto pubblico” del paese; l’incaricato andava ad avvisarli e si fissava un’ora precisa per la chiamata.

      Certo che il ritorno a casa, una volta all’anno per metà agosto, era un gran premio! Si rivedevano facce familiari, gli amici, gli ambienti più cari: una boccata ristoratrice per vincere affanni e nostalgie. Sul treno che ci riportava in Francia io già pensavo alle mie sculture, mia moglie agli aghi della buona sarta che aveva lasciato sui modelli di carta. Significava tornare alla normalità, al nostro sofferto vivere in terra straniera.

      Gli unici amici erano Annie e Pierre Vilard, vicini di casa e compagni di festose serate, coi quali cantavamo “Maria Giuana” e “Les montagnards”.

          Giunse la guerra e tutto cambiò.

      Una sera di marzo, era il 1944, durante il coprifuoco sentimmo bussare alla porta di casa. Un picchiare violento, come di gente inseguita: un uomo e una donna imploravano aiuto e rifugio. Erano sconvolti, tremanti, con i vestiti stracciati, il volto annerito e pieno di graffi. In lontananza si sentivano rumori di passi ferrati, motori di camionette, urla inferocite che sembravano raffiche di mitraglia tedesca.

       Li ospitammo nel sotterraneo della nostra cantina, in un piccolo, buio ripostiglio scavato nel tufo, la cui porta era occultata da un armadio.

       «Guarda Jean che è molto rischioso quello che stiamo facendo!» disse mia moglie molto preoccupata. «Ma ti rendi conto che anche noi rischiamo la vita? Bisognerà evitare in tutti i modi di far capire la loro presenza agli estranei, specialmente nel corso di ispezioni militari!». Ma tutto si chiarì.

      Restarono a casa nostra otto mesi.

      Per noi diventò imbarazzante accogliere i Vilard, ma cercammo sempre di mascherare le nostre emozioni, di far sparire anche la più piccola traccia dei nostri ospiti. Per avvisarli nel caso di imprevedibili retate, avevamo escogitato un semplice segnale: tiravamo una cordicella che, nel nascondiglio, era collegata ad una piccola campana e loro restavano nel più assoluto silenzio.

      Fu all’imbrunire dell’autunno, quando dal Mont Salève scende il fiato gelido del dicembre alpino e la teleferica comincia a vestirsi con bianchi cristalli di neve, che una vile spiata al Comando Militare ci costrinse a prendere un’improvvisa, drastica soluzione. Qualcuno s’era insospettito dei nostri acquisti in negozio leggermente più abbondanti e, fortunatamente, furono i nostri vicini ad informarci di un molto probabile controllo tedesco.

      «Sono molto stupito e contrariato per questa notizia», confidai con estrema naturalezza agli amici Vilard. «Noi non abbiamo nulla da nascondere…Possono venire in qualsiasi momento a ispezionare la nostra casa» replicai.

      Ebbi un’idea: conoscevo una cava in disuso, in un bosco di querce, sommersa dai rovi, a un’ora di marcia lungo un ripido sentiero che porta alla cima del Salève. Partimmo nella notte stessa con un pagliericcio, coperte, alcune provviste e li sistemai in una grotta, con l’ingresso nascosto da una fitta vegetazione. Un lungo tunnel si addentrava nella montagna, dove un tempo c’era una piccola decauville per l’estrazione della pietra, e questo poteva consentire ai due rifugiati di accendersi un fuoco senza farlo scorgere dall’esterno. Ogni tre giorni, verso mezzanotte, salivo per rifornirli di viveri e sincerarmi della loro salute. Ricordo che dovemmo ridurre i nostri pasti, già soggetti al razionamento, per non destare ulteriori sospetti presso il magasin di monsieur Gilbert. Passarono in grotta tutto l’inverno, tra un malanno e l’altro, senza mai uscire.

      In totale ben tredici mesi durò la loro sofferta, ma fortunata “prigionia”; fino all’alba di un mattino d’aprile, un mattino di libertà, quando il sole spuntò dal Roc d’Enfèr e inondò la vallata sino a raggiungere la grotta dell’ours noir. Dal Borgo salivano grida di gioia, suoni di banda musicale e poi vecchie canzoni, inni patriottici a lungo repressi.

      Sarah e Jacob uscirono dalla grotta dell’”orso nero” ed io li accompagnai in paese. La gente, stupita da una così lunga clandestinità, conobbe la loro storia e li festeggiò: erano ebrei, ricchi gioiellieri belgi che a Pas de L’Echelle avevano ottenuto un rifugio sicuro, proprio da quegli Italiani così poco considerati.

      Ci salutarono con grande commozione, prima di partire per la Svizzera, dove i loro due figli si erano rifugiati, e far ritorno a Bruxelles. Ricevemmo una loro accorata lettera di ringraziamento, che ancora conservo tra le cose più care. Fu un’esperienza unica e sofferta: più di un anno passato a scoprire cos’è il terrore e il battito lancinante di un “cuore in gola”; a costruire, giorno dopo giorno, un legame forte d’amicizia.

       Io e Rosina, in seguito, trascorremmo quasi nove anni della nostra solita vita, finchè, in un pomeriggio che le nubi avevano avvolto il paese con neri mantelli di morte, mia moglie mi lasciò. Aghi e forbici caddero a terra, improvvisamente, come una frase spezzata. I miei pensieri si fecero ombra, ferite aperte e sconsolate. Anche il cane dei Vilard pianse a lungo, quel venerdì d’ottobre, mentre mia moglie si stava allontanando dalla sua finestra preferita, curioso belvedere verso Rue de La Paix. Il corteo si avviò lentamente verso il piccolo cimitero di Notre Dame e cominciò a piovere.

       Oggi compio ottant’anni, qui dove un tempo ho passato la mia gioventù, nella vecchia casa paterna, in questa cucina che ha visto i miei primi stupori, ha sentito i passi lenti dei vecchi che adesso si sporgono dai ritratti ingialliti, appesi a muri anneriti dal tempo e dall’abbandono. La vecchia stufa di ghisa lancia odiosi respiri di fumo, quasi a voler infierire sui miei occhi già tanto arrossati. Dalla finestra, tra arabeschi di gelo, riesco a scorgere il castagneto di Prà Muriss e un capriolo che cerca una speranza d’erba sotto un lenzuolo di neve. Nella boscaglia lampeggiano occhi di volpi in calore, dalla bocca delle loro alcove. Sul finire del pianoro vedo con nostalgia l’inconfondibile sagoma del Dosso Grande, complice di tanti abbracci, quando lucciole pettegole spiavano un bacio furtivo e le fuggevoli carezze delle nostre estati.

      Fra pochi giorni è Natale. Nel presepio, a fianco della Madonna ho messo la foto di Rosina, quella scattata al Col du Sion, tra il blu delle genziane. Seduta su un masso, con lo sguardo assorto ed il braccio alzato in un saluto, aveva l’aspetto di una regina. Ammirato, le dissi: «Ta ma smiji ‘l Papa quand ch’al bénédiss!», «Assomigli al Papa quando benedice!».  Fece una gran risata e corse ad abbracciarmi.

      Questa sera il vento che arriva dalla Bocchetta mi sembra più insolente del solito. Ha fatto cadere il nido della tortora che stava in bilico sull’architrave del portico e, per un attimo, sono stato assalito da oscuri pensieri, presagi per una decisione disperata. Fortunatamente all’orizzonte, verso il Monviso, ho intravisto le prime schiarite di bel tempo e allora mi son detto: «Fatti coraggio, Jean, passeranno presto questi mesi al chiuso della tua tristezza! Arriverà la cinciallegra a rifugiarsi tra le spine del pungitopo, a svegliarti con il suo canto d’aurora e l’alito caldo di un marzo precoce scioglierà orme di neve e di gelo davanti all’uscio del tuo soffrire». 

      Ora il vento s’è placato e nel trasecolare di questo tramonto, con il rosso fuoco delle nuvole che si stempera tra le cupe macchie degli abeti, mi sembra di rivivere l’atmosfera lontana del Mont Salève, l’intensa e seppur breve stagione di un amore, gli anni macerati dalla polvere dei graniti, e quegli achtung-achtung dei rastrellamenti, l’odore acre degli spari, le voci roche di ordini rabbiosi, il pianto sommesso di donne e bambini inginocchiati su giubbe verdi, lacerate.

      Ricordi che sollevano nostalgie profonde, ma anche rinfrancano respiri, emozioni e smarrimenti nell’animo mai domo di un vecchio montanaro. Anche la brezza frizzante che scende dalla Conca di Bay dà ristoro e forza a queste rughe, modellate dal sole e da infinite tramontane.

      Gli ultimi richiami di falchi e marmotte si confondo nell’ascolto di voci care, mai dimenticate.

      La notte già colora di sogni e fantasie il lento evaporare di questo giorno.

      Il guaire discreto e già assonnato del mio Brik, accanto al camino, m’intenerisce.

     Sono Jean il “francese” e questa è la mia storia. Un diario scritto su fogli stropicciati, come si può scrivere frammenti di vita su una foglia secca di faggio, dalle vene consunte.

      Non voglio che qualcuno possa curiosare tra le righe dei miei pensieri e allora, su queste pagine, voglio spargere quell’acido che un tempo ha corroso e purificato pietre e graniti da me scolpiti: annullerà ogni traccia delle mie segrete confidenze!

      Al centro si formerà un foro, aperto come la bocca stupita di un bimbo, e, nella suggestione rarefatta di ombre sconfitte, salirà un suono amico di fisarmonica e il canto di un’antica ballata, a rallegrare il mio “diario bucato”, a profumare d’azzurro il grigio fumoso di questa vecchia cucina.

 

 

                                                                                                                      Jean