Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XX^ edizione - Treviso, 4 Gennaio 2015

per un racconto sul tema:

"La Montagna:le sue storie,le sue genti,

   i suoi soldati i suoi problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

 18 settembre

 di  SILVIA FAINI

Pietro dormiva profondamente quando fu svegliato dal tuono che rotolava, lento, lungo le coste del Medolo. Si voltò sul fian­co destro, allungò, come d’abitudine, la mano a cercare Faustina, che ormai, da due anni, riposava nell’alto dei cieli, si rigirò sulla schiena e cercò di riprendere sonno, ma il tuono si ripeté, cupo e minaccioso.

Per fortuna quel pomeriggio aveva coperto il radicchio invernale e le piantine dei cavoli con i sacchi di juta e aveva raccolto le ultime pere e qualche fico tardivo scampato all’assalto dei passeri. Chiuse gli occhi, ascoltò il monotono ticchettio della sveglia che, dal comò, gli rimandava il trascorrere delle ore e attese: il tuono si srotolò di lì a poco con il rimbombo indolente di una manciata di pesanti biglie di ferro. Doveva essere ancora su in alto, sopra i faggi di Pian del Bene o al di là delle rocce della Corna Blacca. Eccone ancora uno, bocce che ruzzolavano una sull’altra, più vicine e più rumorose di prima… Erano anni che non giocava a bocce. Non ne aveva più avuto il tempo, da quando si era fatto uomo e poi padre e poi vecchio: aveva visto partire i due maschi per l’America e l’unica figlia per la Francia, al seguito del marito; e adesso, da due anni, l’esercito si era preso Angelo e l’aveva spedito lontano, a combattere una guerra di cui non si capiva la ragione.

E forse proprio per quel motivo Faustina si era ammalata: aveva consumato i fazzoletti a forza di asciugarsi le lacrime per quel suo ultimo figlio, arrivato quando ormai pensava di non poterne più avere e le sembrava quasi di far peccato, alla sua età, a fare l’amore con l’unico uomo che avesse mai amato.

L’avevano accompagnato alla stazione per guardarlo fino all’ultimo istante, Faustina che scuoteva piano la testa a dire dei “no, non è giusto” che le restavano chiusi in cuore e Pietro che masticava tabacco e brutti pensieri e che alla guerra ci sarebbe andato lui pur di non veder salire su quel vagone il suo ragazzo, pigiato con altri come una bestia da portare al macello, con già addosso l’odore della paura, anche se facevano gli uomini, stringendo mani e lanciando baci alle morose.

“Scrivi” aveva mormorato Faustina quando il treno già si muoveva e Angelo doveva averglielo letto sulle labbra perché aveva fatto segno di sì con la testa e poi aveva serrato la bocca per ricacciare indietro le lacrime che dovevano essere spuntate anche a lui.

Pietro e Faustina erano risaliti sul carretto ed erano usciti piano dalla città, che a lei metteva una gran paura per il fracasso di zoccoli e di ruote, lo stridere dei freni dei tram e il rombo dei primi motori che innervosivano gli animali. Si era addormentata quando la strada aveva preso a salire, tornanti lunghi che la Mira, nonostante i suoi dieci anni, percorreva al trotto con la voglia, pure lei, di tornare alla sua stalla e al suo campo su nelle alture, ossute e scabre, che anticipavano le montagne.

Un altro tuono e poi ancora uno, lontani, forse in Valle Sabbia, intorno al Lago d’Idro, magari alla Rocca d’Anfo, o invece verso la Val Camonica, sopra i camminamenti e le trincee dove, a combattere nel gelo dei monti, c’erano altri ragazzi come il suo.

Si alzò e andò alla finestra; levò gli stracci che aveva infilato, come ogni sera, a tappare le fessure e aprì i vetri e le ante. Il cielo, sopra la casa, era un nero splendore di stelle.

Cercò la sua Faustina fra quegli astri, sicuro che, con la vita tribolata che aveva avuto in terra, dovesse ora starsene beatamente seduta su soffici cuscini di nuvole, e se la figurò col capo chino, come certe Madonne della misericordia, lo sguardo attento, rivolto a scrutare i suoi cari, ma soprattutto Angelo, il suo figliolo in armi, ammassato con altri in una trincea, vestito di panni insufficienti, senza cibo decente e senza il conforto di una lettera che al fronte dell’Isonzo non arrivava più.

“Caro padre – aveva scritto a Pietro nell’ultima missiva – l’estate è al colmo e si vede qua e là, dove ancora qualcuno ha potuto coltivare, il verde del granturco dal quale si alzano le quaglie, spaventate dal rumore dei nostri carriaggi. Ci stiamo spostando verso paesi di cui non ho mai sentito il nome: dicono che là ci sia bisogno di noi. Io sto bene e così spero di voi. Vi porto sempre nel cuore. Pregate per me, così come io prego per voi”.

Il temporale doveva essere lontano, forse non sarebbe mai arrivato, non avrebbe fatto danni. Pietro richiuse i vetri e tornò a letto. Sentì i tre rintocchi del campanile, sentì il remoto latrato di un cane, poi, nonostante i tuoni, scivolò in un sonno agitato.

***

“18 settembre

Caro padre, qui l’aria si è addensata. Siamo fermi, immobili nelle trincee, pronti al combattimento. Il nostro comandante passa avanti e indietro per incitarci, ma anche lui è pallido come un morto. Ci dicono che gli Austriaci sono lì, a pochi passi, che dobbiamo respingerli dal sacro suolo della patria. Il cielo è cupo, nero di nuvole. Fossi a casa, saprei dire se tra poco pioverà, dall’odore che l’aria si porta appresso scendendo dal Medolo, ma qui tutto è diverso: il tanfo di sporco, di marcio e di paura ha impregnato tutto. Il compagno vicino a me sta piangendo. Vi abbraccio con affetto. Leggerete questa lettera quando tornerò a casa, in un modo o nell’altro. Il vostro affezionato figliolo, Angelo”.

E poi fu l’apocalisse: boati di cannoni, grandine di proiettili, acqua dal cielo, sangue e urla di feriti, dolore e panico e orrore, orrore, orrore. Assalti falliti e fughe precipitose e compagni caduti abbandonati a se stessi e ripiegamenti e sortite e tormento e pioggia mista a neve e fossi, fiumi e canali gonfi e torbidi, e rabbia, stanchezza, angoscia, desolazione.

La mula era rimasta indietro, carica di fardelli impregnati d’acqua che le gravavano sulla schiena. Gli zoccoli le scivolavano nella fanghiglia che la intrappolava e le rendeva faticoso il cammino. “Forza Bianca, dai che ce la fai!” la incitò Angelo tirandola per la cavezza.

Bianca lo guardò, gli occhi mansueti e umidi che sembravano implorare pazienza.

Angelo le accarezzò il muso: “Senti, quando ’sta storia sarà finita ti porto a casa con me, sai? Ci sono cavoli e rape e un intero monte da brucare dietro casa. L’erba è magra, perché sono tutti sassi, ma in primavera è fitta di fiori, sentirai che profumo!”

La mula ebbe un sospiro quasi da cristiano e, con uno sforzo, poté muovere alcuni passi.

Il sergente urlava qualcosa, ma Angelo non riusciva a sentirlo. Uomini in fuga lo superavano a destra e a sinistra, donne coi bambini in collo cercavano di allontanarsi il più rapidamente possibile trascinandosi appresso altri bambini piangenti e anziani che mormoravano preghiere. Angelo si sentiva addosso una spossatezza infinita, il desiderio di abbandonare tutto, sdraiarsi dietro un muro e dormire fino alla fine di quella maledetta guerra.

“Soldato, cosa fai? Spicciati! Raggiungi i tuoi compagni” gli gridò un ufficiale.

“Signorsì” mormorò Angelo scattando sull’attenti. Se avesse avuto fiato e coraggio gli avrebbe detto che di munizioni non ne avevano più e che sarebbe stato meglio farsi catturare dagli imperiali piuttosto che trascinarsi così, nella poltiglia, sotto il diluvio, arrancando fra gente disperata che si guardava le spalle, temendo che gli incendi arrivassero fin lì e che i nemici tagliassero loro la strada o li uccidessero.

“Bianca, fermati, non ce la faccio” sussurrò Angelo posando la mano sul collo della mula; lei si girò a guardarlo e Angelo ebbe l’impressione di vedere la Mira, stesso sguardo carezzevole, stesse orecchie frementi di attenzione.

“Quando arriviamo a casa, ti do l’acqua del pozzo, che è più fresca…” disse a stento, le gambe pesanti, l’udito sferzato dai colpi di cannone, dalle fucilate, dalle urla di quella notte, lo sguardo annebbiato che distingueva a fatica i compagni sempre più lontani.

“Mi ci vorrebbe una scodella di minestra calda o almeno una fetta di polenta. Mia madre faceva un’ottima polenta, sai, e quando eravamo nel campo, era il profumo che ci chiamava a pranzo, non serviva aspettare i rintocchi del mezzogiorno. E la domenica ci metteva il burro sopra, quello che faceva lei. Adesso il burro non si trova più. Ma perché mai? Le vacche ancora ci sono, o se le sono mangiate tutte? Che poi, da noi, la carne era un lusso raro, eh… Polenta e baccalà era già una festa e per la frutta ci si arrangiava, perché nei broli più in basso non mancava mai. Le more ci tingevano la bocca di rosso cupo e ci lasciavano graffi sulle braccia e sulle gambe. Adesso nemmeno le more ho visto su questi monti, spazzate via anche quelle. Fermati Bianca, non ce la faccio più”.

Dovette sedersi su un masso perché la vista gli si offuscava e le forze gli mancavano: la testa fra le mani e il cappello reclinato indietro, restò a guardare quelli che passavano piano, un fiume di gente che abbandonava le proprie case.

“Alpino, cosa vi succede?” gli chiese una donna di mezza età con un piccolino in braccio. Angelo, la testa percossa da un dolore martellante, non rispose.

La donna gli si accostò: “Siete ferito?”.

“No, sono stanco. Mi riposo un istante, poi riparto”.

“Ma dove volete andare con quegli occhi? Fate sentire… Avete la febbre, sapete, una gran febbre, vi siete buscato un malanno”. “Grazie, andate pure, ora riparto”. La donna si voltò a guardarlo un paio di volte, poi si perse tra la folla.

“Forza Bianca, ce la dobbiamo fare” mormorò Angelo; si rialzò e si rimise in cammino, ma gli sembrava che ogni passo gli costasse una fatica immane, come se sulle spalle gli gravassero enormi fardelli.

“Vedi, adesso dobbiamo solo andare avanti, sempre avanti, seguiamo tutta questa gente, è una specie di processione, come quelle alle quali ci portava mio padre col biroccio. A Valverde c’era una chiesa bianca come il talco, ficcata in fondo a una valle stretta fra le montagne. Dopo la funzione si pranzava là, seduti sotto i frassini, e si correva tutto attorno, lungo le vasche d’acqua, e le donne cantavano. Si tornava col buio e non so proprio come facesse mio padre a ritrovare la strada… Mah… ci vorrebbe lui, adesso, a indicarmi il cammino…”.

***

Pietro era sveglio da tempo, spinto fuori di casa ancora col buio da un’inquietudine che l’aveva costretto ad alzarsi per tagliare la legna e gettare il fieno ai conigli, sistemare il giaciglio delle pecore e dare il pastone al maiale, perché diventasse bello grasso per S. Lucia, così ne avrebbe fatto salami, cotechini e pancette, perché Angelo doveva ben tornare da quella maledetta guerra, e doveva trovare carne da mangiare, fuoco acceso e panni caldi da indossare per tutto il freddo che aveva patito lontano da casa e per la pioggia che aveva sopportato, che anche adesso gli pareva di vederselo davanti agli occhi, ad arrancare nel fango, febbricitante, tirandosi appresso la mula fra quella povera gente terrorizzata che aveva dovuto lasciare case e campi per sfuggire alla furia del nemico.

***

Quando raggiunsero il corso d’acqua, torbido e ringhioso, che trascinava con sé rami spezzati e carcasse di animali, Angelo si sedette a terra, nel pantano calpestato da centinaia di passi: la sponda opposta, distante una decina di metri, sembrava irraggiungibile senza il ponte che la piena si era portata via.

Forse, guadando, avrebbe potuto raggiungerla e, una volta di là, avrebbe ritrovato la sua compagnia. Si legò gli scarponi al collo e, tenendo Bianca per la cavezza, scese la sponda, vacillando e incespicando. L’acqua era sudicia e gelata e la mula sbuffò e arretrò, poi, fremendo, mosse un passo, guardinga, scrutando il fondo invisibile e battendo l’acqua con lo zoccolo quasi a saggiarne la profondità. Poi entrò fino al petto.

Angelo le si mise dietro e si attaccò alla sua coda. “Dai Bianca, vai, vai!” la incitò, mentre la mula, impaurita, lottando contro la corrente che voleva trascinarla via, nuotava verso la sponda che sembrava sfuggire.

“Su Bianca, vai bella, su” mormorò, sul punto di abbandonare la presa. Quando i piedi, infine, urtarono i sassi del fondo, si sollevò, lasciò la coda della mula, poi crollò sulle ginocchia battendo i denti per il freddo. Esausto, le mani poggiate a terra, cercò di rialzarsi, ma si sentiva addosso un tale sfinimento che si sarebbe buttato a dormire lì nel fango, pur di scrollarsi via quella stanchezza.

Quando si svegliò, dal buio attorno a lui si alzavano borbottii e lamenti. Si mise a sedere, ma dovette coricarsi subito per la gran spossatezza. Si tastò le braccia, il torace, il volto: nessuna ferita. Forse l’avevano catturato e adesso si trovava in prigione.

“E la Bianca?” sussultò. Che ne era stato della sua mula che l’aveva portato in salvo? Provò a ricordare quei momenti, ma rivide solo il fiume impetuoso, la riva viscida, la mula che risaliva l’argine e poi lo sforzo per aggrapparsi agli arbusti e issarsi in un punto sicuro. Dopo quello, più nulla.

Ma quanto tempo era trascorso da allora?

Doveva alzarsi, uscire a cercare la mula e andarsene: doveva raggiungere quel che restava della sua compagnia. Tastò attorno alla ricerca del cappello e frugò all’interno con trepidazione: il biglietto per suo padre era ancora lì, perfettamente asciutto.

Gli occhi, abituatisi all’oscurità, riuscivano ora a distinguere dei corpi coricati su pagliericci: qualcuno russava, altri si lamentavano piano.

Angelo, spostandosi adagio, quasi trascinandosi, si diresse verso un punto dal quale gli sembrava che provenisse del chiarore.

Quando arrivò alla porta e la spalancò, si trovò all’esterno, sotto il piccolo portico di una chiesa, nel gelo di una livida mattina di pioggia. A tentoni, appoggiandosi ai muraglioni esterni, fece il periplo del piccolo edificio, chiamando la mula: nessuna traccia. Una donna, emergendo dalla foschia, quasi come un’apparizione, gli si avvicinò: “Che fate, soldato? State al coperto! – Appoggiò a terra un’enorme pentola fumante e scosse la testa: – Vi abbiamo trovato sulla sponda del fiume, vaneggiavate… Avete la malaria, come molti altri… Tornate al coperto, su!”.

“La mula…”.

“È laggiù, con altri animali, non temete”.

***

Quando Pietro, tre mesi dopo, se lo vide comparire davanti all’improvviso, sull’uscio della stalla, quasi pensò di avere a che fare con un fantasma, tanto il suo Angelo si era fatto alto, smunto e selvatico. “Gesù!” esclamò, lasciando cascare il forcone.

“Come state, papà?” riuscì a balbettare Angelo, poi, nell’abbraccio, non poté frenare le lacrime.

Fu la neve, candida e pesante, che cadde per l’intera notte, a regalare pace almeno a quell’angolo di mondo.