Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIX^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2014

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

                                                                              LEI

                                                                 di RITA MAZZON (PD)

 Questo bisogno che ho di aggrapparmi alle cose, mi porta a scivolare su obliqui e lisci pendii, dove cerco di stampare il mio passo.

In verticale si ergono le vittorie. In alto si staglia nitida la mia  montagna. Per quanto lontana la vedo sempre, perché mi sento illuminato da lei.

Dove vivo? Vivo tra strade e salite. Tra rocce e sete di cielo.

Come vivo? Con il desiderio, la foga di mettere a nudo le mie braccia, le mie gambe per contrappormi a lei e farla mia.

L’amore non è mai sazio. La contemplo da lontano, poi quando mi avvicino, ecco che mi prende lo stupore, come se fosse sempre la prima volta.

Lei si apre a me con il suo possente abbraccio ed io mi lascio toccare dalle abetaie. Accarezzo i suoi seni. Gioco a scompigliarle i capelli imbiancati di neve.
Sono qui. Non mi vedi?

Le fa l’impertinente. Si erge diritta. Sembra non guardarmi.

Come un’amante mette alla prova la mia sete di amore.

Mi arrampico in un’ascensionale salita verso le sue vette.

La sfida ricomincia sempre.

Un senso di vertigine mi prende ogni volta che guardo giù.

Stare dentro a questo immane e plurimo orizzonte mi ricompensa della fatica. Mi dona un silenzio pieno di spazi, in cui mi perdo e non ricordo più chi sono.

Mi spingo a scalare montagne per godermi un pezzo di cielo, per sentirmi più vicino all’Eterno.

E’ penoso scendere, ma mi consola il fatto che ritornerò ancora da lei.

Faccio tutto questo per non arrendermi alla quotidiana monotonia.

Assaporo la mia vittoria ogni volta più intensamente.

L’impresa più difficile è quella di rimanere in pianura.

Ogni volta mi prende la smania. L’assenza della mia amata mi fa alzare la febbre.

L'ansia si scolpisce sulla roccia. Ad ogni presa ansimo, il respiro affannato mi contorce, ma sono lucido. lo so quello che voglio. Sono un presuntuoso, lo ammetto. Voglio possedere la montagna. Forse perché più non mi possiedo anch'io.

Mi guardo dal di fuori. Lascio che il corpo si faccia protagonista e dimostri a tutti quanto valga.

Il pensiero è già sulla vetta. Uno sforzo, un balzo, la corda tira. Sono qui. Non mi senti adesso?

La conoscenza diventa coscienza dei propri limiti

La natura mi parla. Mi educa alla vita.

Ed io sento che qui a contatto con la pietra, tutto vibra.

E' antica la roccia. Come è antica l'ombra di colei che ha visto dall'alto la terra.

Eppure non è statica. Il cambiamento è accaduto nel silenzio dei secoli. Inavvertitamente c'è stata una trasformazione.

La temperatura cambia. Cambiano le stagioni.

Anche se ora pare incorruttibile, lei si sbriciola. E' maestosa, ma in un'epoca remota non esisteva affatto.

Era altra cosa. Era magma incandescente. Il tempo è stato il suo padrone, l'ha essiccata, la resa diversa.

Cammino sopra la lava asciutta. Cammino sopra lo sconvolgimento delle cose.

Il manto del bosco è diventato pelle. Ha incantato la primordiale materia. Ed è stato sempre il tempo a far emergere la montagna, a rovesciare il sommerso, a plasmarlo come creta di uno scultore. Tutte le volte però che vorrei averla nella sua pienezza, già mi abbandona.

Un gioco assurdo che disorienta il passo, lo fa stare in bilico.

Pianto il chiodo, il morsetto tiene.

Riuscirò ancora ad arrivare al culmine effimero per dimostrare a me stesso che ho arraffato un po' della sua anima?

Sento la brezza arruffare e scompigliare i pensieri, che vanno e vengono in ascese e discese.

Per fissare i concetti ci vorrebbe uno scalpello. Su di ogni roccia, o anfratto scrivo la mia storia.

Ho bisogno di rimanere attaccato a queste convinzioni, perché vorrei essere ricordato come lo scalatore.

Nella memoria degli altri si ricostruisce la mia montagna.

Si rinasce a scoperte sempre nuove. E l'esperienza mia, le mie parole sono gli appigli con cui scalo la vita. Non faccio male a nessuno se trasmetto questa sete mai sazia.

Lo scopo è giusto quando uno ci crede fermamente ed io in lei ho trovato il mio.

Sono uno scalatore. Sono un montanaro nella ricerca continua della sua ragione.

Non ho una donna che mi aspetta a casa. Sono troppo attratto dalle mie partenze per restare chiuso tra le quattro mura.

I preparativi sono costanti. La mia mente è altrove. Non è chiusa nelle stanze.

Non potrei dare ad una donna tutto me stesso, perché io ho già la mia amante.

Talvolta però la matassa si imbroglia. Mi accorgo che non so neanche io quello che voglio.

Mi piacerebbe che qualcuno mi aspettasse alla finestra.

Mi piacerebbe che un figlio mi mettesse le braccia al collo.

Poi subentra il desiderio di fuga. La ostinazione di non aver dimostrato ancora tutto. Di non avermi fatto conoscere per quello che valgo.

La mia paternità sta in tutte le cime verso cui tendo.

Ogni vetta è un figlio.

Conquisto con gesti rituali i miei mondi.

Non possono disperdersi, ma conservano una presenza arcana. Amare la montagna diventa un surrogato d'amore per Dio, per questo non mi arrendo.

Una volta mia madre mi aspettava sveglia nell'attesa del mio ritorno.

lo focalizzavo la conquista e la donavo a lei, raccontandole tutte le mie emozioni.

"Devi essere orgogliosa di tuo figlio che ha soggiogato un' altra cima. E' riuscito a strappare un'altra porta al corridoio piatto dell' esistenza. Sopra la scala dei valori ha conficcato la croce della speranza. Mentre tu madre preghi, io mi avvicino alla tua orazione, passando attraverso la mia montagna."

Ora che mia madre se n'è andata, io la contemplo nella visione di questo cielo che spazia e si allarga alla mia vista.

La mia fede esausta si sente sollevata sulla cima. Lo zaino più non pesa. Le gambe riacquistano vigore. Sembra che scrutando le altre montagne in lontananza riacquisti da loro il mio ossigeno, la mia pace interiore.

Non sono in guerra con i miei dubbi. Qui nel silenzio trovo la voce di mia madre ed il sussurro di Colui che mi ama.

Le mie parole vanno, vengono, come i miei passi. Non c'è trama. Non c'è racconto. Si perde la mia storia tra salite e discese.

I molteplici incontri sono un unico innalzamento per conoscermi di più, per questo scavo nel mio essere.

Oggi però mi sto perdendo. Non c'è un limite, un valico da superare ancora.

C'era sempre un pretesto per continuare, ma ora le membra rattrappite si ostacolano da sole.

Guardo il muro bianco della stanza. Sono nella neve.

Mi eccito in uno spasmo. Sono sulla vetta. Poi mi calmo.

Sto imparando la quiete. Quella che viene da questi muri troppo bianchi, dal lenzuolo lindo, dalle mie mani senza sangue.

Tra il cuscino ed il risvolto del lenzuolo ho piantato la mia testa come fosse una bandiera.

Ho inchiodato qui l'unica speranza, quella che mi fa pensare.

Sono un cieco, ma tra queste due palpebre bianche, vedo un macigno fatto di luce che non mi infossa.

E' stato un attimo. Lo scarpone ha esitato. La mano ha graffiato la parete troppo liscia.

Si è fratturato il mio tempo in un momento. Mi ha portato con sé nella sua corsa.

Ora sono solo. Mi sto arrampicando verso la vita.

Alle mie gambe inutili ho chiesto troppe volte di dimostrarmi la loro forza. Non rispondono. Se ne stanno lì. Buttate alla rinfusa. Insensibili, non hanno più in sé il congegno che faceva muovere il mio passo.

La mia salita sta racchiusa nel pensiero, non certo nel mio corpo che con un reciso colpo netto mi ha abbandonato.

Era una giornata troppo scura per piantare sulla cima un'altra vittoria. Ed io quel mattino mi sentivo qualcosa dentro che mi diceva di desistere. In quel dubbio si è espressa tutta la verità.

 

L'infermiera tira su la persiana.

Non la voglio la luce!

Ho bisogno dei miei coni d'ombra su cui arrampicarmi.

Sul muro lei si fa bianca. E' candida nella neve.

Sta lì. La mia montagna mi parla. Per me non è mai muta.