Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIX^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2014

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

                                                                             MINA

                                                             Di VANES FERLINI Imola

 Alla morte non aveva mai pensato sul serio, nemmeno quando l'aveva sfiorata, tanto vicina da sentirne l'odore oppure quando l'aveva vista stampata sulla faccia di due partigiani sorpresi da una pattuglia tedesca.

Perché diavolo vengono a farsi ammazzare proprio davanti a casa mia? aveva pensato.

Di quella guerra Zuane non conosceva le ragioni e non riusciva a distinguere amici e nemici. Tra i partigiani aveva infatti udito più  d'una volta parlare straniero, mentre sottufficiali delle S.S. si distinguevano per l'italiano perfetto. Prima o poi la guerra sarebbe comunque finita.

Nel bosco sarebbe tornato il richiamo stridulo della ghiandaia e il bramito dei cervi in amore, avrebbe respirato la stessa aria pulita di prima. Perché ogni guerra segna un prima e un dopo... e sono pochi i fortunati che possono viverli entrambi.

Non poteva sapere che proprio in quei giorni, ai primi di agosto del '44, quell'angolo di Carnia attorno ad Ampezzo era sta proclamata Repubblica Libera, anche se avrebbe avuto vita breve: appena due mesi.

Odiava in egual misura tedeschi e partigiani. I crucchi gli avevano devastato il capanno di legno, solo per il gusto di distruggere.

L'abitazione era tanto povera che non avevano trovato nulla di buono da portarsi via. I partigiani invece gli saccheggiavano il bosco, raccogliendo qualsiasi cosa commestibile nascesse su quel versante della montagna.

Da quando poi i tedeschi gli avevano portato via Ortensia, la vita si era fatta ancora più difficile. Quanto rimpiangeva il latte tiepido di Ortensia, i formaggi saporiti tenuti a stagionare in cantina. Le parlava e pareva che la capretta comprendesse tutto, lo fissava con gli occhi scuri e profondi.

Se ne stava a brucare nel bosco per gran parte della giornata e la sera ritornava al capanno. Di notte la lasciava dormire vicino a lui, le aveva preparato un giaciglio di paglia secca. Vederla trascinata via in modo brutale, con la corda al collo, gli fece venire un groppo allo stomaco.

Voleva piangere, tuttavia nessuna lacrima sgorgò. Il padre gli aveva insegnato tutto sulla vita del bosco ma non a piangere. Forse avrebbe potuto farlo la madre, se Zuane l'avesse conosciuta.

*    *    *

Nell'estate secca del '44 la situazione si era fatta insostenibile. Per salvare sé e quel poco rimastogli, decise di trasferirsi sotto terra.

Trasportò in cantina tutte le cibarie e gli attrezzi essenziali, in primo luogo la stufa a legna. Scavò un cunicolo dalla parete della cantina a risalire verso l'esterno, ai margini del bosco. L'ingresso del cunicolo era nascosto da un asse di legno ricoperto da terra e fogliame. Murò la porta della cantina, dal capanno non vi si poteva più accedere. Scavò infine un condotto sul soffitto. Serviva come scarico del fumo prodotto dalla stufa e come presa d'aerazione.

Nascosto là sotto, voleva essere dimenticato da tutti, scomparire dal mondo, finché la bufera fosse passata. E anche dopo, avrebbe volentieri visto essere umani solo da lontano.

A inizio estate aveva dovuto macellare Napoleone, l'ultimo maiale rimastogli. Era ancora troppo giovane, non era nemmeno la stagione giusta, tuttavia la certezza che prima o poi gli avrebbero rubato anche quello lo aveva convinto al gran passo. Non era stato facile. Non perché Zuane non ne fosse capace anzi, l'aveva già fatto parecchie volte.

Aveva dovuto sgozzare un amico, l'ultimo compagno della sua solitudine. Lo aveva condotto nel folto del bosco, nei pressi dello stagno, perché l'operazione richiedeva acqua in abbondanza. Napoleone l'aveva seguito docile, aveva imparato da quale mano proveniva il cibo e non poteva sospettare il tradimento. Per colmo di crudeltà, aveva dovuto legargli il muso e imbavagliarlo, affinché le strida non fossero udite da alcuno. In tempo di guerra neanche un maiale può morire con dignità.

Le varie porzioni di Napoleone stagionavano a penzoloni dal soffitto ma evitava di volgere lo sguardo in alto.

Man mano che l'estate progrediva, Zuane trascorreva sempre più tempo sotto terra, finché decise di uscire solo di notte. Si sentiva più sicuro.

Dapprima compì brevi giri esplorativi nei dintorni del nascondiglio.

La luna produceva ombre vaghe, i contorni degli alberi si fondevano tra loro, dalle macchie più oscure pareva dovessero saltar fuori bestie arrabbiate.

Sussultava al richiamo della civetta o al frusciare del porcospino nei cespugli. In seguito compì percorsi sempre più ampi, finché gli capitò di rimanere fuori tutta la notte a controllare le trappole per lepri disseminate lungo chilometri di sentieri.

Scoprì che la notte era benigna. Lo proteggeva con il suo mantello scuro, gli offriva prede, gli rivelava un volto diverso. Luoghi e percorsi, a lui ben noti da decenni, emanavano di notte una vitalità affascinante, era come riscoprire tutto il bosco e amarlo una seconda volta. Dopo alcune notti trascorse all'aperto si sentì padrone delle tenebre, era convinto di sfuggire ai seminatori di morte, tanto attivi durante il giorno.

Trascorreva le ore di luce nell'antro sotterraneo e pensava alla gente in superficie. Si dannavano l'anima per sbarcare il lunario ed evitare le granate, mentre lui, là sotto, se ne stava comodo e tranquillo ad aspettare che la buriana finisse. Si fregava le mani e pensava:

Ammazzatevi pure tra di voi, ammazzatevi tutti quanti. Quando avrete finito, giungerà la mia vittoria e rideva.

Dormiva (molto), mangiava (il minimo indispensabile) e si occupava della dispensa. Non possedeva calendario, non l'aveva mai avuto. Gli bastava guardare il cielo e annusare la terra. Quanto agli anni, non valeva neppure la pena contarli.

Un giorno il sonno di Zuane fu interrotto da rumori molesti. Tese l'orecchio. I due metri di terra sopra il rifugio erano in grado di attutire ancora i boati più fragorosi. Si alzò per origliare al condotto di scarico della stufa. Gli giunsero le raffiche secche dei mitragliatori.

Doveva infuriare una bella battaglia, là sopra. Mai come in quella occasione fu felice del suo rifugio. Poteva restarsene tranquillo, da spettatore, mentre fuori si massacravano a vicenda. Le scariche proseguirono ininterrotte per diversi minuti.

Bravi, continuate... più gente muore e prima finisce la guerra.

Un'ultima raffica... poi silenzio. Tornò a coricarsi sul vecchio materasso di penne d'anatra ereditato dal padre. Si addormentò con le mitragliatrici che ancora gli ronzavano negli orecchi.

Si risvegliò nel pieno del crepuscolo. Origliò al condotto per assicurarsi che lassù fosse tutto tranquillo. Percorse il cunicolo di uscita e sollevò con cautela la botola ricoperta di terriccio.

Si avviò per il sentiero che scendeva a fondovalle costeggiando il torrente che dopo pochi chilometri si riversava nel Tagliamento. Aveva con sé un cesto di vimini intrecciati. Andava a funghi solo nelle notti chiare, quando nel sottobosco i porcini si facevano accarezzare dalla luna. Notò ci bagliori di fulmini in lontananza e percepì l'odore del temporale.

Quella sera, però, sul limitare del bosco vagava un odore diverso, dolciastro e pregnante. Gli ricordò quando aveva macellato Napoleone. Aspirò ancora, pensando di essersi sbagliato. Invece l'odore del sangue fluiva a ondate, trasportato dalla brezza.

L'istinto gli suggeriva di lasciar perdere e andarsene per funghi.

In guerra ognuno deve pensare a sé, nessuno ha il domani garantito.

Tuttavia quell'odore non gli dava pace. Avanzò lungo il sentiero e raggiunse le prime case del paese.

Al primo sguardo non si accorse di nulla. Ma quando la nube davanti alla luna si scostò, la luce argentea inondò i fagotti ammassati sul terreno.

Quei fagotti avevano braccia e gambe e teste... e mani rattrappite per ghermire l'ultima speranza, per trattenere un secondo di più l'ultimo respiro.

Zuane vide a terra, di fronte a sé una donna con il fazzoletto in testa.L'ombra le cancellava i lineamenti, un buco nero al posto del viso. Quello sotto di lei doveva essere il marito, a capo scoperto e occhi chiusi. La faccia era contratta in ghigno sardonico, forse nei confronti della morte o magari degli aguzzini. Lo riconobbe dal bitorzolo sulla punta del naso. Tugnàz. Non conosceva il nome vero, in montagna tutti portavano soprannomi.

Di fianco e sopra a lui giacevano alla rinfusa alcuni ragazzi. Quattro cinque sei... era difficile contarli, le membra si intrecciavano, le teste si nascondevano sotto altri corpi. Ricordò che Tugnàz aveva una famiglia numerosa, forse erano i figli suoi. Tutti morti.

I mitra nazisti uditi a lungo nel pomeriggio gli fornirono la risposta. Un'altra nube coprì la luna, il paese ripiombò nell'oscurità. Pareva che i morti fossero scomparsi e invece erano sempre lì, lo stavano guardando con la fissità delle orbite.

Zuane si sentì solo. Dalla morte del padre, quando era giovinetto, aveva sempre vissuto solo. La solitudine gli era presto divenuta buona compagna, l'ideale per chi non vuole rimanere invischiato nelle complicazioni dei rapporti umani.

Tutti morti. Solo lui era sopravvissuto. Si sentì in colpa, per essere ancora vivo mentre gli altri erano caduti sotto le raffiche dell'odio.

Il rimbombo del tuono scosse il buio. La tramontana aveva rinforzato.

Si scoprì a interrogarsi sullo scopo della vita. E proprio lì, davanti ai cadaveri insepolti, l'unica risposta era che la sua vita non aveva alcuno scopo, così come non c'era motivo per la morte di quella gente.

Udì un suono debole, simile al lamento di un gattino.

Una vocina lamentosa e disperata articolava parole incomprensibili.

Un'invocazione di aiuto. Che qualcuno fosse vivo, là in mezzo, gli pareva un miracolo. Nell'oscurità dei nuvoloni incipienti vide muoversi un braccino.

La tirò fuori. Gli disse di chiamarsi Mina e di avere quasi sei anni. Non sapeva dove fossero i genitori.

Caddero le prime lacrime del cielo. Senza pensarci, la prese in braccio e corse al rifugio. Lo raggiunsero sotto una cortina di pioggia.

Accese la stufa a legna, fece spogliare la bambina e l'asciugò con cura.

Si tolse i vestiti zuppi e si avvolse in una vecchia coperta. Mise a scaldare lo spezzatino di lepre con fagioli avanzato dal giorno prima.

Mangiarono avidamente, guardandosi negli occhi, in silenzio.

Zuane pensò che aveva un'altra bocca da sfamare e da quel momento tutto sarebbe stato doppiamente difficile. Eppure la compagnia di Mina gli faceva piacere, occuparsi di un'altra persona era per lui una cosa nuova ma gratificante. Avrebbe fatto finta che fosse sua figlia. In un certo senso lo era, l'aveva salvata e i genitori dovevano di certo essere morti.

In vita sua aveva fatto poco o nulla per gli altri, ora il destino gli concedeva la possibilità di riscattarsi e in fondo ne era felice. Con i suoi occhi azzurri, Mina spandeva luce e scaldava l'ambiente molto più della stufa e teneva viva la speranza per un avvenire migliore. L'aveva salvata, era la sua creatura, il suo scopo per l'indomani e il giorno dopo e quello successivo ancora. Quel fagottino dagli occhi azzurri lo rendeva felice. All'improvviso tutto il vuoto della sua vita solitaria fu colmato.

Zuane aveva salvato la bambina; la bambina aveva salvato Zuane.

Finito di mangiare si coricarono sul giaciglio. Prima però Mina si mise in ginocchio e prese a recitare il Padre Nostro. Zuane, impacciato, s'inginocchiò vicino a lei farfugliando qualcosa, vergognoso di non ricordare più i versi della preghiera.

La mattina dopo Zuane si sveglio presto. Lasciò un lieve bacio sulla fronte di Mina e uscì all'aperto. L'alba non aveva ancora dissipato i vapori che aleggiavano sotto le fronde degli alberi. S'inoltrò per il sentiero dove aveva collocato le trappole. Man mano che si allontanava dal rifugio lo assaliva l'inquietudine e il rimorso di aver lasciato sola la bambina. D'altro canto si doveva pur mangiare qualcosa. Un'altra lepre, forse tra le ultime rimaste, giaceva in una tagliola. L'afferrò e tornò di corsa al rifugio.

Trovò la botola aperta. Mina era sparita. Disperato, si mise a cercarla. Temette che qualcuno gli avesse portato via il suo gioiello, non immaginava che la bambina avesse trovato la forza di scoperchiare la botola. Girovagò cercando con bramosia ogni più piccolo indizio: un brandello orme di stivali, numerose e profonde, segno che gli uomini erano transitati dopo l'acquazzone. Le orme erano concentrate sul sentiero che conduceva all'interno del bosco.

Si slanciò allora in una corsa pazza, del tutto dimentico della propria incolumità, con la sola speranza di trovare Mina e ricondurla al rifugio.

Se le fosse accaduto qualcosa, non si sarebbe mai perdonato di averla lasciata sola.

Si ricordò la preghiera recitata dalla bambina la sera prima.

Padre nostro che sei nei cieli... in verità ricordava solo queste parole.

Completò la frase pronunciando sottovoce: "...fa che non le sia capitato nulla".

Proprio quando la vista cominciava ad appannarsi e la disperazione stava per sopraffarlo, scorse una macchia chiara sullo sfondo scuro degli alberi. Vide Mina correre verso un uomo con il fucile a tracolla, un partigiano senza dubbio.

Grazie Signore pensò, piegandosi sulle ginocchia a riprendere fiato.

Il partigiano guardava la bambina e non si era accorto di lui.

Zuane procedette allora fuori dal sentiero, al riparo degli alberi. Quando si trovò abbastanza vicino, salì su una quercia. Vide l'uomo chinarsi verso Mina e parlarle a bassa voce. La prese poi per mano e s'incamminarono sul sentiero, in direzione di un gruppo di uomini che Zuane intravedeva attraverso le fronde.

La gioia di aver ritrovato Mina evaporò subito al contatto con la realtà cruda. Avrebbe voluto saltare giù dall'albero come belva furente, abbracciare la piccola e gridare al mondo:
"Questa bambina è mia, l'ho salvata io!".

Ma i partigiani erano molti, erano armati. Non avrebbero mai lasciato la bambina con un pazzo che vive sotto terra. Avrebbero cercato di portarla al sicuro, com'era giusto. Di questo Zuane si rese conto e pianse, nonostante nessuno glielo avesse mai insegnato.

Non riuscì nemmeno a vedere bene la sua Mina, condotta per mano al centro della colonna.

Le lacrime gli si trasformarono in cortina vischiosa, dietro la quali se ne andò per sempre la sua salvatrice.