Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIX^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2014

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

                                                                    MONTENEGRO

                                              Di OSCAR TISON di VODO di CADORE (BL)

 

Se il cielo fosse coperto di nubi gravi e potessi pensare che quelli che si odono, ingranditi dall'eco della mente, son tuoni. Se questo mare bianco che mi si stende davanti non fosse appena di poco più chiaro del colore del cielo se non mi facesse sentire come se fossi un tutt'uno con esso se non tormentasse le mie notti con quella bianca schiuma che sparge come collante, se la risacca e i tuoni e i cannoni, le camicie sul colore delle quali il sangue si confonde se tutto questo non occupasse ogni spazio nella mente e non facesse ritorcere su se stessi i pensieri, se mi fossi lasciato morire ogni volta che la morte mi ha sfiorato e se adesso non sentissi di nuovo quella spinta forte nella parte bassa del ventre quando ricordo occhi neri che aspettano, occhi neri di rancore, neri come colpi di cannone, neri come le notti di questa guerra infinita... se potessi non essere più io ma uno qualsiasi di quei disgraziati morti a migliaia senza sapere perché, o che s'ammazzano ogni istante senza sapere perché s'ammazzano di fatica...

Perché c'è la guerra sul monte e c'è la guerra nei campi, le frustate sulla schiena schioccano come colpi di fucile, nel corpo a corpo i fucili roteano come clave, le pallottole si conficcano nel terreno come sementi, i rivoli di sangue nutrono la terra e il vino delle grave ha il sapore forte del dolore della vittoria.

Ma adesso devi camminare, Montenegro, non è più acqua del mare quella che ti infradicia gli scarponi e i tuoni che senti sono solamente il pulsare ritmico del sangue sulle tempie. Cammina, Montenegro, non lasciare che il sudore geli sulla pelle e formi una corazza spessa tanto da impedire il respiro, devi camminare, hai altre cose da fare ancora, non morirai qui, in questo mare di neve tra le carcasse dei cavalli, non morirai, per ora.

La stanchezza del sole che non tramonta confonde l'orizzonte nei miei occhi e i ricordi nella mente, mi chiamano Montenegro perché là sono resuscitato per l'ennesima volta, affondo i piedi nella neve e ricordo il cielo rovesciarsi sopra me assieme alla mitraglia troppo pesante, le mie mani hanno l'abitudine alla zappa, ho le dita troppo grosse e callose ho una donna che forse mi aspetta ancora e la mattina va ad occupare il mio posto nei campi. Un altro passo e lo scarpone affonda nella neve come là nel Montenegro é affondata la pallottola nel mio braccio ed un'altra é volata via assieme ad una nocca della mia mano, io sognavo di fare il muratore, non potrò più. Non piangere, Montenegro, le lacrime ghiacciano in poco tempo ed il ghiaccio pesa sul mento, ti fa chinare il capo, la mia razza il capo non l'ha chinato mai, non sarò io il primo. Mi dicono che sono stato un eroe, quando è stato? E' stato quando fuggendo ho inciampato su un sasso e la mitraglia mi è caduta addosso spargendo i suoi semi di morte tutt'intorno, quando ho strappato coi denti il dolore dalla mia carne, quando ho urlato contro dio e il destino? O quando le mani mi sanguinavano per lo zappare la terra d'altri, qualcuno mi dica perché la terra è sempre d'altri, quanto ho camminato per poter sanguinare quella terra, qualcuno mi dica perché, qualcuno mi dica perché sono un eroe.

Non fermarti, Montenegro, anche la campagna russa ha una fine, come ha fine ogni giorno perché un altro possa seguire, come avrà fine ogni guerra per lasciare il posto ad un'altra. Tornerai alle conosciute asperità della tua campagna, cruda e prepotente, morirai vecchio e ricco, non l'ha detto il Moleta, quella sera? Lui non ha sbagliato mai, non ha mai sbagliato una profezia. Osservava stendersi sopra noi le stelle tranquille e bugiarde e le chiamava per nome, diceva quella è Asteriotis, puttana, gran puttana, ti fa credere d'essere là per te, e i suoi raggi invece scaldano un mondo che non sappiamo neppure esistere. Ha una grande forza: la stessa dei generali che ci mandano a morire. Non l'ho mai capita, questa, e ormai non me la puoi più spiegare, Moleta. Scusa amico mio ma io adesso devo camminare e camminare, camminare anche perché la tua profezia non risulti errata, perché non si possa dire in giro che eri un cialtrone vigliacco, un cialtrone che imbottiva i compagni di sogni per una bustina di grappa, morto volgendo le spalle al nemico. Abbiamo tutti offerto le spalle al nemico, quel giorno, ma almeno lo abbiamo visto, non come qui, in questo mare di neve... Abbiamo visto le loro urla spuntare dal crinale del monte, le ho sentite trafiggere la mia pelle come lance, entrarmi negli occhi ancora cisposi di sonno che ripensavano alla sera prima, quando il Moleta si era seduto accanto a me con un mazzo di carte in mano dicendo ti voglio fare un regalo soldato del re per volontà di dio e della nazione e del suo duce, prima di andarmene. Utu 'ndar 'ndè, ma dove vuoi andare, gli ho detto nel mio dialetto cantilenante, 'ndé utu 'ndar.

Vorrei fermarmi a guardare se ancora ho i piedi o se sto camminando sui tronconi della morte ma non lo posso fare, i miei occhi adesso devono cercare un filo di fumo che si perda in lontananza, una cascina con dentro una donna dagli occhi chiari che veda in ogni soldato il suo uomo che forse sta anche lui cercando un riparo per la notte. Non sono tedesco, le griderò, sono contadino, e le farò vedere i calli sulle mie mani.

Ho messo le bustine di grappa sul prato e lui ha steso le carte davanti, ogni carta una bustina, ogni voltata una speranza. In cielo c'erano le stelle, Asteriotis puttana, ha borbottato, e poi s'è girata la carta giusta. Perdio la madonna e tutti i santi! Gridò, te sì che sei un uomo fortunato!

La fortuna mi attenderà anche stasera? Forse dietro quella duna di neve, forse laggiù dove la vista confonde il bianco dell'orizzonte col bianco degli occhi? Del destino che mi è riservato conosco solo una voltata di carte e parole perdute nel fracasso dei mortai. Un altro passo Montenegro un altro passo ancora e poi ancora, non badare al bruciore degli occhi trafitti dagli spilli bianchi distesi lungo tutto il futuro, comparirà un filo di fumo anche stasera come ieri sera e la sera prima, comparirà una donna dagli occhi chiari, e sarà la donna più bella che tu abbia mai visto, come è stato ieri sera, e la sera prima. Ti prenderà le mani e sentirai nelle sue lo spessore dei geloni, il solco della zappa, il dolore della terra. Le racconterò di quella sera, del Moleta che saltellava su un piede solo come in un gioco bambino, la donna non capirà una sola parola, si priverà per me di una patata bollente che terrò a lungo tra le mani per scaldarle prima di inghiottirla con la voracità degli stomaci semplici. Con la lingua bruciata racconterò a quella donna del Moleta che mi sventolava una carta davanti alla faccia, era una donna di fiori? Un asso di danari? Per me era solo una carta delle tante di quel mazzo unto di grasso e macchiato di sudore, di gocce di sangue e di lacrime. Un passo ancora, un altro morto da scavalcare. Non sono io. Morirai vecchio e ricco mi ha detto il Moleta quella sera, vecchio e ricco, ricco! E come saltava! La donna riderà guardando i miei occhi e i miei piedi che cercheranno di sollevarsi per lei ma imprigionati negli scarponi non riusciranno. Non le racconterò di come siamo fuggiti il giorno dopo, non le dirò degli uomini che abbandonavano le tende reggendosi con le mani i mutandoni d'ordinanza, non le racconterò dell'unico grande urlo che i soldati nemici lasciarono uscire come da una gola sola. Dopo quest'urlo ho visto le schiene dei miei compagni rotolare lungo il costone della montagna, non erano le stesse schiene che guardavo nelle lunghe ore di marcia ergersi davanti a me a nascondere la strada e che seguivo come i muli seguono le cenge, diritte e robuste, solide e invincibili: in quel momento ridicole e a volte nude, con il ricordo del sonno che le intorpidiva di segni rossastri sulle scapole lasciati dal giaciglio notturno, fuggivano il più lontano possibile senza ritegno. Chi avrà guardato la mia, di schiena? Qualcuno avrà guardato la mia schiena o il terrore gettatoci addosso dall'urlo feroce dall'orda apparsa sulla cresta dal rotolare dei sassi ci ha resi tutti soli? Ho afferrato la mia mitraglia. Non abbandonare mai le armi! La paura della punizione, della corte marziale, del giudizio degli eleganti ufficiali con il loro parlare sciolto era superiore a quella per il nemico. Ma non lo racconterò a questa donna questa sera. Riderò anzi con lei dell' incespicare sui sassi e dei graffi sul volto nella caduta. Quante volte sono caduto? Non cadere adesso, Montenegro, non manca molto al filo di fumo, se cadi annegherai nella neve, bianca sottile e crudele ti entrerà nelle narici mentre il ghiaccio ti terrà ferme le dita le braccia le spalle ti entrerà negli occhi coprirà la tua divisa e nessuno vedrà più che sei contadino e non soldato, nessuno ti potrà più offrire una patata bollente a scaldare le mani la bocca lo stomaco stasera dirò a quella donna che non sono un eroe, le donerò la medaglia, ne faccia quello che vuole, la getti dentro un vaso o in fondo ad un cassetto tra calzini rammendati e mutande ricamate nell'attesa, essa è per me solo il ricordo di una nocca volata via assieme al futuro sperato. Mi è parso di vederla sbriciolarsi nell'aria, ricadere in polvere sul sasso che mi ha fatto inciampare, scomparire nel vento nel fumo nel tempo. Le dirò fanne quel che vuoi ma tieni la, non ripaga il cibo e il giaciglio, non vale i tuoi occhi né il filo di fumo che esce dal camino, è nulla al confronto del calore che esce dalla stufa, è meno di nulla se penso alla mia nocca al mio braccio alla mia spalla ricucita con filo da pescatore; non è sperando in lei che sono inciampato su quel sasso maledetto là nel Montenegro, non è per lei che la mitraglia è impazzita e la cartucciera si è consumata, mi hanno dato una medaglia per essere inciampato su un sasso, uno dei tanti che si opponevano alla fuga o uno dei più che rotolando dall'alto ci facevano fuggire? Non lo saprò mai e nulla cambia, la mitraglia impazza i suoi semi si spargono nell'aria e cadono a terra schizzano sui sassi bucano il mio braccio fanno ardere la mia mano la mitraglia rotola nell'aria e su sé stessa sparge fiamme a ventaglio sento la mia bocca gridare l'urlo del nemico ripiegare dopo essere inciampato sul mio corpo atterrito. E allora ditemi sono un eroe? Il Moleta è rimasto là in Montenegro e non potrà più sfidare i destini, è rimasto là, disteso sulla schiena, la bocca un po' aperta: mentre mi trascinavano a valle ho potuto vedere un sasso che gli costringeva il corpo inarcato. Sono certo che Asteriotis lo ha a lungo baciato ogni notte fino a che la polvere del suo corpo non si è confusa con quella della mia nocca. Qualcuno ha detto che sono rimasto impavido e solo ad affrontare il nemico e da allora mi chiamano Montenegro, vieni qua Montenegro soldato di dio e della nazione e del suo duce, la medaglia sul tuo petto dirà al mondo chi sei. Sono un pezzo di ghiaccio che cammina che spera un filo di fumo che spera una donna dagli occhi chiari che sogna una patata bollente un rigagnolo d'acqua che sogna la primavera un filo d'erba da masticare, un uomo stanco cui solo la rabbia consente di resistere vivo tra carcasse di cavalli di corpi congelati immobili dentro la neve, dentro questa neve che non scioglierà mai nella mente i suoi sali. Sono il resto di un uomo che spera di poter sudare ancora sangue nella sua campagna ostile, che spera di rivedere quegli occhi neri pieni di rancore per il tempo passato a zappare al mio posto, che spera una patata bollente un filo di fumo un giaciglio di crine.