Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XIX^ edizione - Arcade, 5 Gennaio 2014

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

                                                         Agguato sul Monte Piana

                                        di SERRA WALTER di Fiorentino San Marino

 

Monte Piana, ottobre 1917

 Son finito qui, questo ridicolo fucile fra le mani, le montagne a crollarmi attorno spaccate dalle can­nonate. Nostre o degli austriaci, non ha importanza. A ogni ora del giorno e della notte il fischio della granata taglia l'aria peggio del vento gelato e la luce abbagliante dei razzi rischiara la spianata, offrendo ai cecchini carne fresca. Quattro ore di trincea a piantonare questo monte brullo e segnato da chilometri di trincee, camminamenti e spiazzi tormentati da fili spinati e colpi di granata, dove il solo pensiero di dovere uscire allo scoperto per un assalto ha indotto parecchi di noi a tirarsi un col­po di rivoltella in testa. Sono diversi giorni che non ci scanniamo più in scontri faccia a faccia. Troppi morti per un nulla di fatto di cui parecchi per mancanza di soccorso. Pontremoli ha pianto, supplicato e maledetto per tutta una notte, prima di zittirsi per sempre. E così a parlare sono i fucili, i cannoni e le granate, a tenerci ognuno asserragliati nella propria zona, divisa quasi equamente: gli austriaci a est, noi dall'altra parte di Monte Piana. Una montagna dal culo piatto e traforato come groviera. Lontano, ci giunge il rombo di un qualche cannone o il crepitio di una mitragliatrice, se­guita da spari di rivalsa. Altre postazioni si stanno fronteggiando, verso le Tre Cime.

Qua si cammina carponi o a spalle chinate e si spia dalle trincee coi periscopi: da ambo le parti ci sono frotte di cecchini appostati, ci mettono un niente a spacciarti con un colpo in testa. Attorno è pieno di elmetti bucherellati.

Oggi mi sono perso tre volte, per via che bisogna camminare piegati. E così, una trincea vale l'altra destra o sinistra è solo questione di dove il vento fischia meno forte. Domani nevicherà. E qui se inizia a nevicare, moriremo tutti congelati.

 

Il tenente Ruggero ha fatto sapere che gli austriaci stanno rinforzando le loro truppe. Uomini, can­noni e lanciamine che stanno risalendo da Villabassa. Per questo siamo qui, a centinaia: dobbiamo contrastare la loro offensiva e ricacciarli indietro. Sbattere la porta in faccia a quei bastardi, aveva concluso il tenente, tenere la posizione.

Azzardo un'occhiata oltre le rocce. Niente si muove oltre il reticolato arrugginito che divide in due questo monte pelato. Nel mezzo, cento metri o poco più di deserto spazzato dal vento. Sotto di noi è pieno di budelli minati, nemmeno sappiamo se nostri o loro. Non contenti di ammazzarci alla luce del sole, i nostri comandanti hanno fatto scavare chilometri di gallerie dentro la montagna a inter­cettare quelle nemiche, per minare le rispettive trincee. Col di Lana insegna.

«Salucci, ce l'hai una sigaretta, vero?»

«Oggi no, Ugo, mi hanno già depredato.»

Una roccia esplode a pochi centimetri dalla mia faccia, schizzandomi polvere e sassi negli occhi. Casco verso il lato scoperto della trincea, per un attimo in balia dei cecchini. Lo sento urlare, esplo­dere colpi a casaccio.

«Grazie, Ugo ... » M'ha salvato la vita. D'altronde, succede ogni giorno che qualcuno porti a casa la pelle per lo slancio di un compagno, che magari ci rimette la sua. Attraverso lacrime arrossate dai capillari scoppiati, gli porgo una sigaretta.

Dovrò stare più attento, stavolta ci sono andato vicino. Già... Oggi, fra una settimana o un mese, che cambia? Le poche volte che ho avuto un binocolo fra le mani ho guardato i monti attorno: ci sono più cannoni che stelle alpine. Pezzi da 90, da 105, obici da 210, mitragliatrici, lanciagranate.

Mi affaccio fra le rocce, a prendere uno sbuffo di vento gelido. Annuso l'aria.

Domani pioverà ...

Svegliarsi sotto un furioso cannoneggiamento non lo auguro a nessuno. Ero da poco tornato alla mia branda dopo il turno di guardia e già avevo preso sonno, poi il terremoto. Mezzo intontito, ho segui­to la fiumana di gente che saliva alle trincee per rintuzzare l'attacco. Sembrava la solita scaramuccia di logoramento, poi è arrivato il gas e ci siamo infilati le maschere. Dalle montagne piovevano bor­date infinite, cui rintuzzavano le nostre postazioni. Più dal rifugio Tre Scarperi sparavano di mor­taio, più dallo Zurlon, Cresta Bianca e Tre Croci rispondevano, gli echi non si spegnevano mai. Verso le dieci fummo mandati all'attacco. Armi umane. Attendemmo giusto il messaggio di via li­bera dall'altra parte del canalone, tramite la bandiera a lampo di colore, mentre i compagni ci coprivano con lanci di granate. Avanzammo ventre a terra, puntando i reticolati sparpagliati e maciullati dalle batterie sulle montagne. Ci posizionammo in alcune doline sul lato sud est della spianata, im­provvisando due nidi di mitragliatrici. Scaricai tutta la mia rabbia attraverso i colpi del moschetto. Fissavo cento metri davanti a me una nostra postazione tenuta sotto scacco da un nido di mitraglia­trice nemica. Io puntavo col fucile quelle rocce da cui spuntava la bocca di fuoco, senza riuscire a sparare a nessuno. Non mollai, finché vidi qualcuno spuntare per un attimo dalla postazione nemica e alzare un braccio per lanciare una granata. Sparare fu immediato. L'attimo dopo lo scoppio. Non sentimmo più l'abbaiare della mitragliatrice austriaca. lo non sentii più niente, nemmeno le pacche sulle spalle dei miei compagni che mi festeggiavano per aver fatto fuori quei maledetti. Erano i primi nemici che ammazzavo e io mi sentivo tutt'altro che fiero. Sparammo fino all'ultimo colpo e solo a sera inoltrata tornò una relativa calma. Buio, pioggia e una cappa nebbiosa avevano spento gli animi battaglieri di tutti quanti. Contammo i morti, a decine, sparsi ovunque. Nell'aria bassa re­stava stagnante l'odore di cordite e di morte. Ricoverammo i feriti nelle gallerie e seppellimmo i caduti, protetti da quella cortina che odorava come un mare lontano.

Seppi della eroica resistenza delle nostre truppe in prima linea, annientate e sparpagliate. Seppi del­la morte del tenente Simoni, che urlò in faccia al nemico la sua fame di libertà mentre gli sparavano la raffica finale. Morti quasi tutti quelli del 54° nello strenuo tentativo di bloccare l'avanzata au­striaca al Fosso degli Alpini, che alla fine non erano passati. Una giornata di combattimenti, un ma­cello senza precedenti e nemmeno un metro guadagnato o perso. Per nessuno ...

 

Che scriverò, domani, a casa? Sicuramente non le note di questo diario. Dirò che sto bene e che non corro rischi inutili. E così la guerra rimarrà distante dai loro cuori, almeno fino a che non cesseran­no le mie lettere, sostituite da una medaglia alla memoria. A questo, penso, mentre scrivo queste poche righe nel timore che la mia vita possa perdersi su questa misera spianata di terra, talmente or­renda e inutile che la si potrebbe regalare alle capre, vedendosela rifiutare.

Inizia a nevicare. Srotolo la casacca bianca che domattina si va a caccia di mangiapatate sulla neve fresca ...

 

novembre

 

Ora non mi perdo più nelle trincee: di giorno o di notte, che piova o ci sia nebbia scivolo sicuro fra dirupi e fossi, portando armi, messaggi o una bottiglia di vino. II comandante mi usa spesso per portare dispacci da una parta all'altra di Monte Piana. Ordini e contrordini, che qua viviamo ora per ora. A volte ci sparano addosso, altre ci attaccano col gas. Maledetta guerra ...

 

Stasera mi gira la testa: il comandante aveva chiamato tutti nel pomeriggio, per pescare un macche­rone alla cieca da un barattolo di latta. Una dozzina erano stati colorati di rosso e valevano altrettan­te licenze a casa. Il mio era rosso. Rosso come il sangue dei compagni caduti, rosso com'era av­vampato il mio viso quando l'ho estratto. Ci hanno dato una bottiglia di grappa a testa e il permesso di sbronzarci. La mia bottiglia l'ho regalata ai compagni della mia grotta e me ne sono uscito sullo spuntone di roccia che da' sullo strapiombo, a fissare al lume di una candela la neve che scende. Il vento mormora qualcosa, scivola fra gli spuntoni corrosi, si mischia al vociare sguaiato che mi pre­me alle spalle. Leggera, la neve disegna volute sulla bocca della caverna.

«Itagliani ... »

Sobbalzo, guardandomi attorno alla ricerca della fonte di quel suono indistinto. «Kameradén

Flebile, il richiamo si perde fra il rotolare delle voci.

«Preko ... »

Quasi non lo sentivo.

«Sì! Chi sei?» Tendo l'orecchio all'ignoto che sta là fuori. Affondo le mani nella neve. «Chi sei!» Qualcuno pare chiamare da qualche parte dabbasso nella notte, qualcuno che non parla la mia lin­gua.

Nemici!

A quel pensiero mi si gela il sangue addosso. Siamo attaccati? Eppure, quale nemico ti chiamerebbe con voce lamentosa, invece che sopraffarti con un colpo di baionetta nella schiena?

«Qui... Preko

Se mi sporgo ancora cadrò di sotto, se chiamo aiuto qua viene fuori un casino. Poi m'incuriosisce capire chi sta di sotto, perché è venuto. La sua storia.

«Dove sei? Sei ferito?»

<<Aiutare, preko... » È la voce di un ragazzo, tremante e piangente. Mi si chiude il cuore. Senza dub­bio si tratta di una spia o uno del genio guastatori.

Calma, devo ragionare. Sono sicuro che è così, però magari la tormenta ha rovinato i loro piani e adesso c'è un ragazzo abbarbicato su uno spuntone in mezzo alla nevicata.

«Ti calo una corda. Sei solo? Guarda che sono armato!»

Sul fondo della galleria sento la bottiglia rotolare a terra, fra le risate dei miei compagni.

Lego la corda alla scaletta di ferro murata nella roccia e all'altro capo una gamella d'alluminio. But­to tutto di sotto, sperando che la gamella non faccia troppo rumore. Sposto la corda a destra e a sini­stra, fidando che il ragazzo la possa afferrare.

«Freddo... »

Non ce la fa, è troppo intirizzito. Ritiro la corda, poi pratico un largo occhiello sul fondo. Basta pas­sarlo sotto le ascelle e lo posso tirare su. Provo e riprova, allungando e ritirando come in un'assurda pesca nel vuoto.

Infine lo strappo, I'ha presa.

Inizio il recupero, passando la corda dietro la schiena come ci hanno insegnato gli alpini, ma con un corpo mezzo morto per il freddo è un'altra cosa. Pesa, ondeggia, pare richiamarmi di sotto, poi sen­to che mi sostiene. Per un attimo mi assale la paura che sia tutta una finta, che il soldato mi stia prendendo in giro per aggredirmi, ma nessuno oserebbe un rischio simile. Pezzo dopo pezzo la cor­da risale, mentre il fiato mi si accorcia per la fatica. Mi appare una testa sanguinante e una mano rattrappita si avvinghia una pietra ai miei piedi. Alza la testa e leggo nei suoi occhi chiari un misto di riconoscenza e tragedia assieme, per essersi consegnato al nemico in luogo di portare a compi­mento la propria missione. Sa cosa l'aspetta, in ogni caso.

Lo afferro per la cintura e lo ruzzolo sul pianoro, dove rimane disteso, ansimante e remissivo. Non ha armi addosso, non mi pare pericoloso. Che faccio, adesso? Lo prendo per le braccia e lo trascino verso una diramazione non utilizzata, dove teniamo le scorte del reticolato. È stremato. Inizio a massaggiarlo. «Come ti chiami?» Gli slaccio gli scarponi e gli massaggio i piedi, strappandogli un grido di dolore.

«Hans.»

«Rimani qui, se vuoi vivere... » Lo lascio nel budello buio, portando via gli scarponi e il mio fucile. Non ci sono compagni in giro, tutti a riposare dopo questa giornata massacrante, il resto di guardia. Rimedio un paio di coperte e qualcosa da mangiare. Non so perché lo faccio, non m'importa, io ve­do solo un ragazzo che ha bisogno di aiuto. Non è un nemico. Non lo è ...

 

La candela mi rimanda la galleria vuota al posto di Hans. Mi maledico per essermi fatto fregare co­me uno stupido. Chissà dov'è ora, magari sta già accendendo una miccia da qualche parte.

Un colpo di tosse mi richiama sul fondo della grotta. Rannicchiato contro la roccia, Hans trema di freddo e paura. Lo copro, lo imbocco, lo disseto. Infine mi accoccolo accanto a lui, carezzandolo e massaggiandolo.

«Dormi, Hans. Qualsiasi cosa ci riserverà il domani, ora non ci pensare.» Chiudo gli occhi, sperando di non sognare la Corte Marziale.

 

maggio 1948

 

Cosa mi deve tornare alla mente, dopo tutti questi anni, sfogliando fogli sbiaditi e una memoria or­mai sfilacciata ...

 

Era stata dura organizzare tutto, ma soprattutto convincere Hans. Lui lo sapeva che come metteva fuori il naso dalla galleria eravamo tutti e due morti, e non ha fatto storie. Ha accennato, passati i primi giorni, alla sua missione: erano in tre e dovevano scalare la parete sotto di noi e sorprenderci nella notte. Fatto brillare dell'esplosivo e generata confusione, i suoi compagni si sarebbero gettati all'attacco, con ampie possibilità di vittoria. Ma non era fiero del suo gesto, lo raccontava a occhi bassi.

Si avvicinava il giorno della licenza. Noi dodici fortunati eravamo tutti euforici. lo in realtà non ci dormivo la notte: come avrebbe fatto, Hans, senza di me? L'idea di lasciarlo in balia del suo destino mi faceva stare male, assieme alla paura di avere covato una serpe in seno pronta a colpire dopo la mia partenza.

Quel mattino del 12 novembre c'eravamo radunati sul piazzale basso, pronti a prendere il sentiero che in quattro ore di marcia ci avrebbe portati a Misurina. Faceva freddo, da rimanerci secchi. Mi ero avvolto una coperta sbrindellata attorno alla testa, la voce mi usciva a stento e parlavo contro­voglia per un forte mal di gola. All'ultimo m'ero lamentato per un gran mal di pancia ed ero scap­pato via di corsa, fra le risate dei compagni...

 

Ancora oggi, a trent'anni di distanza, rivedo con chiarezza la faccia stupita del tenente Bernabé quando mi trovò verso mezzogiorno in mutande, legato e imbavagliato allo sbocco della grotta dormitorio. La ferita alla nuca, che aveva sanguinato abbondantemente, testimoniò per me quando dissi che ero sceso per andar di corpo e qualcuno mi aveva colpito alle spalle, per poi prendere il mio posto e andar via in licenza. D'altronde, quel turbante improvvisato aveva coperto il volto e la mia raucedine sopperito alla necessità di parlare. L'indagine, immediatamente avviata, non trovò nessuno mancante cui dare la colpa dell'aggressione.

Voglio pensare che Hans ce l'abbia fatta. Non ne ho saputo più niente.

Nelle lunghe notti solitarie, quando la mia testa rimbomba ancora dei colpi di mortaio e dei sibili delle granate, s'illumina nel buio la sua faccia spaventata. Allora echeggiano attorno a me le sue pa­role di gratitudine: «Addio, testone itagliano, tenere giù testa: mio amico Friederik ha ottimo Mauser... »

Due passi sulla scaletta poi era tornato indietro a baciarmi sulla guancia, io seminudo e col culo nella polvere a urlargli di andare via.