Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XVI^ edizione - Treviso, 6 Gennaio 2011

per un racconto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

Nelle Parole Canta il Vento

 

Cantini Aurora ( Nembro ) BG

 

 

 

Irene sapeva di essere in ritardo, ma le sue gambette di bambina di nove anni non le permettevano di correre più veloce. A saltelli discese il ripido sentiero che dalla borgata di Predale l’avrebbe condotta alla contrada di Amora Bassa, da qui avrebbe  risalito la mulattiera principale per quaranta minuti fino al sagrato della chiesa, poi finalmente sarebbe stata in classe.

Aveva saltato la messa degli scolari (chissà che predica il parroco alla mamma!) e sicuramente la maestra l’avrebbe richiamata davanti a tutti gli altri compagni. Ma proprio non aveva potuto abbandonare il vitellino nato durante la notte, e la sua adorata mucca, la “Ardida”, meritava un po’ di coccole.

Schivando le pozze fangose che intralciavano il passo, residuo di alcuni giorni di pioggia, raccolse una fascina di ramaglie mentre proseguiva spedita. Era ottobre, la stufa in fondo all’aula era  già accesa a causa dei primi freddi e ogni alunno aveva il compito di rifornirla quotidianamente di legna, come era d’uso negli anni Cinquanta sulle montagne della Val Seriana, nella bergamasca.

A un tratto Irene si arrestò, stupita. Vicino al ponticello di legno che sovrastava il torrente Algua (in verità solo due assi appoggiate dal nonno Mas-cio per l’attraversamento), posto a monte del pianoro della riva, stava una bambina.

Era ritta davanti all’acqua, come in preghiera. I capelli neri scendevano sciolti e lisci sulle spalle, quasi una mantellina sopra il vestitino di flanella a fiori, stretto al corpicino infreddolito. Non dava segno di averla sentita arrivare e non mosse né volse il viso.

Molte volte i vecchi la sera nella stalla raccontavano di streghe e apparizioni nei boschi pronti a ghermire i viandanti solitari, ma lei sapeva che erano solo storie e non ne era spaventata, o perlomeno non molto.  

Sapeva, per esperienza, che era normale per un bambino di montagna muoversi da solo nei campi o nei boschi per svolgere le varie mansioni e nessun adulto si sarebbe mai preoccupato di che cosa potesse capitargli o dei pericoli che avrebbe incontrato; semplicemente si diventava grandi in fretta in montagna e lei stessa a cinque anni aveva percorso per la prima volta da sola il sentiero che portava nella valle sopra gli strapiombi, per raccogliere fieno per i conigli. Sapeva anche che  poteva costare caro rubare legna al proprietario di un bosco, anche se quel bosco in particolare apparteneva allo zio “Stefen”.

Avanzò cauta ma decisa fino ad affiancare la sconosciuta. Poi la guardò. Il viso della bimba, di un bianco candore come di latte, era devastato dalle lacrime che scendevano a fiotti lungo le guance e bagnavano il colletto dell’abituccio.

Ma nessuna voce, nessun lamento in quel dolore senza tregua. Le due bimbe si guardarono fisse per alcuni interminabili minuti, l’una devastata dall’angoscia, l’altra consolatrice e pietosa.

Poi dal campanile della chiesa di Ama scoccarono le otto e trenta e Irene trasalì. Anche la sconosciuta si riscosse ma Irene stava già scappando via, terrorizzata dal ritardo. Con un balzo fu oltre il torrente e si fermò su un piede, voltandosi a guardare indietro. La bambina alzò la mano e Irene sparì oltre la curva, senza fiato.

“Eccoti, finalmente”. La maestra girò la testa al rumore della porta che si apriva e squadrò la ritardataria.

“Mi perdoni, signorina maestra. La nostra mucca ha figliato e così…” In quella vita di fatica e privazione i bambini potevano riposarsi solo a scuola.

Mentre svolgeva con diligenza i vari compiti assegnati alla sua fascia d’età e controllava i bambini della prima classe a lei affidati che imparavano a sillabare, continuava a ripensare allo strano incontro. 

Con il passare dei giorni le interminabili incombenze della campagna le occuparono interamente la mente e il corpo e pian piano quel ricordo si offuscò. C’era da dar da mangiare agli animali, riporre l’ultimo fieno, raccogliere le verdure nell’orto, preparare la semina, attingere l’acqua alla fontana, occuparsi dei fratellini, preparare la zuppa, accendere il fuoco: nel suo piccolo mondo di bambina di montagna non c’era spazio per i rimpianti.

Una mattina in classe entrò il parroco. Si avvicinava la festa della Madonna del Rosario e i preparativi coinvolgevano tutti gli abitanti del paese. I bambini aiutavano gli adulti a stendere i paramenti o nella vestizione della statua, lucidare gli ottoni e i candelabri, andare di casa in casa a raccogliere le offerte, spazzare, pulire, spolverare candele e moccoli, sistemare i fiori e ghirlandare il paese.

Mentre i compagni lo osservavano in silenzio, don Arturo si scostò e con le mani trasse davanti a sé qualcuno che stava dietro la sua veste. Era la bambina del torrente.

Indossava lo stesso vestitino, i capelli raccolti in un fazzoletto e il visetto pallidissimo e serio. Tutti la osservavano a bocca aperta da tanto che era bianca.

“Cari bambini,” esordì il prevosto. “Come sapete si avvicina la nostra festa e la Madonna, che ci segue e controlla dal Cielo, ci invita alla penitenza e alla devozione. Come segno di profonda fede ci ha mandato un segno. Prenderci cura del prossimo, delle pecorelle smarrite, affinché possano ritrovare il sentiero della luce, illuminati e confortati dalla nostra fede, che ne uscirà rinforzata e pura. Ecco a noi, cari bambini e cara maestra, una piccola creatura che l’angelo del Signore ha mandato tra noi per purificarci e renderci saldi nella nostra unione. Questa piccola innocente è stata marchiata dalla mancanza della parola, ma la nostra fede e il nostro esempio le saranno di consolazione e beneficio.” 

Detto ciò spinse in avanti la bambina, che appariva rigida e spaurita, facendo cenno alla maestra di accompagnarla al banco.

“Essendo mancante della parola ella starà nell’ultimo banco. Assisterà le lezioni cristiane e riceverà il sollievo dell’infanzia. Le gioverà stare con altri bambini.”

Ci fu uno strascicare di piedi e tutte le teste si voltarono al suo passaggio mentre veniva fatta sedere. Nessuno aveva chiesto quale fosse il suo nome.

Per Irene fu un angoscioso compito svolgere le lezioni e saperla seduta là in fondo, dove di solito stavano i somari, quelli con le due orecchie d’asino attaccate sulla testa.

Adduceva ogni scusa per alzarsi e poterla controllare. Ma la bambina stava seduta composta e non muoveva nemmeno gli occhi, guardando dritto davanti a sé.

Irene una volta le sorrise e la bimba le fece un cenno di risposta.

Nelle case non si parlava d’altro. “Sono zingari, Irene” spiegò la mamma. “Sono girovaghi, si spostano con le giostre.”

“Sono peccatori e non cristiani” sbraitò la zia Gesuina. “Ho sentito giù al mercato di Albino che rubano i bambini e non credono in Dio. Pater noster” concluse facendosi il segno della croce.

“Ma no, sono povera gente, come noi. Anche al mio paese da ragazza talvolta se ne vedevano  e alcuni facevano degli onesti lavori.” replicò la mamma.

Irene ascoltava gli adulti e scopriva ogni giorno qualcosa in più della bambina misteriosa. Era senza madre (e già questo era un brutto segno, a sentire i vecchi) e il padre girava per la provincia a vendere statuine della Madonna in occasione delle feste del Rosario. Assalito dai briganti poco sopra l’abitato di Pestello,  non aveva potuto far altro che risalire la mulattiera cavalcatoria fino al paesello di Amora. 

Stavano alloggiati nel fienile del parroco e l’uomo dava una mano a tagliare la legna nei boschi della Chiesa.

A scuola era un crescente tormento. Punzecchiata e derisa, scimmiottata anche da chi quasi non sapeva scrivere il proprio nome in corsivo, spintonata e urtata con forza, sopportava tutto con tale forza d’animo che invece di ammansirli, spingeva i ragazzi a trattarla sempre peggio. Le femmine non erano da meno. Nessuna che si avvicinasse, nessuna che le desse la mano quando erano in fila. Un giorno la sua amica (ex amica!) Carola aveva esclamato: “Mia madre mi ha detto di non toccare quella là, altrimenti anche tu diventi muta. E’ contagiosa”. Irene le aveva tirato le trecce talmente forte che l’aveva sentita gridare anche il sacrista. (Erano andati subito a riferirlo alla mamma!)

Quello che le premeva di più era stare con lei: le aveva offerto un pezzo del suo formaggio, che la bambina aveva mangiato avidamente, l’aveva aiutata a riannodare il fazzoletto, quando uno dei grandi gliel’ aveva strappato via, se uscivano per la passeggiata faceva in modo di essere in ultima fila così da esserle vicino. La bambina le sorrideva e quando ciò avveniva il suo visino diventava quasi trasparente.

In classe la maestra dettava, assegnava le letture, scriveva alla lavagna, parlava delle parabole, interrogava sulle tabelline, usava l’alfabetiere per i piccini (e anche per i ripetenti) ma alla bambina seduta in fondo non riservava mai uno sguardo.

“Signora maestra,” chiese Irene durante una delle attività di lettura alla cattedra “posso farle una domanda?”

“Io so che cosa vuoi sapere. Ti ho visto che osservi spesso la bambina. Ricordati che non è educato osservare i “martirelli”. Ti chiedi perché non scrive. Perché non può. Non sente, non parla. Non serve a nulla per lei sapere l’alfabeto. Che cosa se ne fa? Dobbiamo solo avere pietà di lei. Quando studiavo per diventare maestra c’era con noi al convitto una ragazza che diceva che esiste un Istituto a Torino, chiamato Cottolengo, dove stanno quelli nati senza qualcosa. Che so, un braccio, le mani, gli occhi, la lingua. Quella bambina è fortunata, ha il suo papà. Tu non devi fissarla troppo, la fai sentire a disagio. Non è un insetto. Loro non sono come noi, sono diversi. Ti ricordi il peccato originale? Eva ha peccato perché era curiosa”.

Anche la mamma si accorse del suo tormento.

“Irene,” le disse una mattina che erano sole in cucina e la piccola non era riuscita a spannare adeguatamente il latte per fare il burro. “In questi giorni ho notato che svolgi i tuoi lavori con meno attenzione. Così obblighi me o il nonno a porvi rimedio, gravandoci di tempo ed energie.”

La piccina scoppiò a piangere e raccontò di come fosse in pensiero per la bambina.

“Anche io, quando arrivai dalla Val Brembana come giovane sposa, venni considerata una straniera e ho dovuto affrontare molte prove. Dove potevo tacevo, e se non potevo, pregavo. Quella bambina non è una creatura del demonio, è solo muta. Ma non si augura nemmeno al peggior nemico di rimanere senza amici. Una parola buona la meritano tutti.

Pensa al tuo papà, che adesso è in Francia, lui che parla solo il dialetto bergamasco. Eppure dalle sue lettere si è fatto ben volere dalla gente di laggiù. Certo all’inizio si sarà espresso a gesti, proprio come se fosse muto. Ma ora tutti lo stimano e lo rispettano  per il suo lavoro di taglialegna.”

Il giorno dopo Irene salì al sagrato prima della messa e si diresse verso il fienile. Lei era fuori e stava risciacquando degli stracci in un secchio, già vestita. Appena la vide si illuminò in volto. Anche Irene sorrideva. Si avvicinò cautamente e le allungò la mano. La bambina tese la sua.

“Io sono tua amica” mimò Irene, facendo il gesto di abbracciarla.

La bambina annuì e indicò il suo viso. Anche lei era sua amica.

“Io mi chiamo Irene. E tu?”

La bimba girò il capo cercando qualcosa. Poi levò dalla tasca una fazzolettino azzurro, finemente decorato da perline multicolori. Lo portò alle labbra, lo baciò, fece il gesto di cullarlo, poi levò la mano al cielo e indicò se stessa.

“Sì, tu sei Azzurra. Sei Azzurra come il cielo.”

La bambina scoppiò in un sorriso e cominciò a saltellare trascinandola in una danza. Appena suonò la campana della messa si ricomposero in fretta e tendendosi per mano entrarono in chiesa.

Il fatto fece il giro del paese.

“Irene, sai che cosa significa quel fazzolettino per Azzurra?” le spiegò quella sera a tavola la mamma. “La sua mamma è morta nel farla nascere e quel fazzolettino è il suo ricordo.”

“E tu come lo sai?”

“Mia mamma, lo sai vero,  ha perso due figliolette nate prima di me. Una si chiamava Irene, come te. L’altra Elisabetta, come me. Appuntate sul corpetto portava sempre due medagliette, due angioletti. Mi diceva che portava le sue due bambine sul cuore. Sono sicura che anche per Azzurra è così. Gli zingari usano molto le stoffe, i fazzoletti, i ricami.”

Irene spiegava a tutti che Azzurra non era sorda, solo muta, perciò capiva quello che le veniva detto. Provò anche a scoprire che cosa  fosse successo quel lontano giorno al torrente, ma Azzurra correva via.

Una sera  stava rincasando dopo aver consegnato il proprio asinello ad un compaesano che aveva bisogno una cavalcatura per  scendere ad Albino. L’uomo avrebbe ricambiato il favore aiutando la mamma e il nonno nella fienagione.

Il padre di Azzurra la fermò sul sentiero. “Tu  molto buona con mia figlia” iniziò. “Io ringrazio te. Figlia mia triste dopo morte suo amico Floc. Tu  sua amica. Grazie. Ora noi partire.” 

 

Appena poté, Irene chiese ad Azzurra chi fosse Floc.

Seppe, dai gesti sconsolati dell’amica, che Floc era il suo ermellino addomesticato, viveva con lei da quando era in fasce.

Dopo l’aggressione dei briganti, l’ermellino era fuggito dalla sua cesta ed era annegato nel torrente. Indicando la propria bocca (la lingua comunque ce l’aveva!) mimò che non aveva potuto salvarlo perché non poteva gridare e chiamare aiuto. Desolata e triste, Azzurra comunicò a gesti l’impotenza di non essere riuscita a fare nulla per lui.

Irene si recò dal nonno Mas-cio, che stava piegando dei rami di nocciolo con cui creare  archetti per catturare gli uccellini nel periodo della “passata” autunnale.

“Nonno, tu che sai lavorare il legno, sai anche creare degli animali?”

“Bé, se mi ci metto d’impegno, sì.”

La bambina illustrò il suo progetto. “Azzurra mi ha spiegato che un ermellino è come uno scoiattolo. Assomiglia alla faina, quella che uccide le nostre galline. Il suo era bianco, ma va bene anche marrone.”

Quando venne il giorno della partenza Irene consegnò ad Azzurra la statuetta in legno di un ermellino. Lo avrebbe sempre portato con sé e le avrebbe ricordato la sua amicizia di bambina.

“Mamma, che cosa posso dire ad Azzurra per salutarla?”

“Dille che nel vento sono le parole e che quando sentirà sulla pelle il vento, quello sarai tu. E anche tu quando ascolterai il vento sentirai la voce della tua amica Azzurra.”

Da allora il vento sulla montagna non fa paura, è il soffio di Azzurra che parla attraverso di esso.