Gruppo Alpini di Arcade - Sezione di Treviso

Premio letterario nazionale

Parole attorno al fuoco

XV^ edizione - Arcade, 5 gennaio 2010

per un raccolto sul tema:

"Genti, soldati e amanti della montagna:

storie e problemi di ieri e di oggi"

SEGNALATO

Bianca

 

di Rita Manzon

 

Padova

La strada parte larga, poi si perde dietro una curva. In primo piano c’è una casa. La finestra  sprigiona il caldo di una zuppa. Forse c’è qualcuno che attende. I muri della casa nascondono una piccola chiesa, da cui emerge un campanile dal tetto a punta.
Dondola la campana. Dondolano i pensieri. Si sta bene quando sai che il tuo Signore  ti ascolta.
Sebbene la casa sia grande, sembra sprofondare nella neve, pare posata su di una nuvola bianca.  
Non c’è paura. Non c’è freddo. Tutto è calmo, quieto.
Le orme di due persone oscurano la strada bianca. Piccoli punti neri che si amalgamano a quel colore. Se qualcuno guardasse più attentamente, noterebbe che sono una donna che tiene per mano una bambina. Chissà dove andranno? Forse verso la chiesa. Forse più lontano.
Il bianco è il colore predominante. Eppure la vista è attirata dall’immane montagna che si staglia nitida a coprire  l’orizzonte. Le rocce abbracciano lo sguardo. Limitano la voglia di andare. Tengono chiuso in una sicurezza familiare chi avrebbe voglia di partire. Su nei pendii blu cobalto si sfuma la materia delle cose. Tutto diventa un lungo sussurro di preghiera verso quel Dio che ci protegge dalla cima più alta.
 
Il quadro è ancora appeso sulla parete. Nessuno ha avuto il coraggio di spostarlo. E’ contornato da una cornice bianca, per mescolare il paesaggio con il colore del muro. L’ha dipinto mia madre, quando la giovane fermezza del pennello dava consistenza alle sue emozioni.
Bianco su bianco. Neve nella neve. Una finestra, uno squarcio. E lì, nel mezzo lei: la montagna.
Mia madre l’ha fatto appendere su quella parete, quando il letto era la sua unica casa. Voleva fosse messo davanti ai suoi occhi e diceva: “Mi sento più sicura. La montagna, lo so, mi proteggerà sempre.”.
La venerazione verso quel massiccio l’aveva accompagnata fin da bambina. La sua casa di pietra volgeva lo sguardo verso la roccia. Da là ogni giorno sorgeva la sua alba.
L’unico soggetto  che  lei  rappresentava  da  ogni punto di vista era quella montagna. Non aveva potuto portarsela via quando l’aveva abbandonata per lavorare in città, così si era creata una pinacoteca di montagne. Non uno, ma cento quadri, tanto che  le  pareti  non  avevano  più spazio per contenerli.
Per quella tela però lei aveva riposto un affetto particolare.
Le emozioni forti si ripetono una volta sola.
Quel quadro lei l’aveva terminato il giorno stesso in cui le erano venute le doglie ed io ero nata.
Da quella lacerazione che non è dolore, mi aveva stretto tra le sue braccia. Quel giorno fuori nevicava ed anche nel quadro la neve aveva sommerso la lunga strada. Così mi chiamò Bianca.
Mi portai dentro il cuore un pezzo di montagna anch’io. In questo colore che contiene tutte le tinte, io mi sento viva.
Troppo presto la mia mamma era rimasta vedova. Troppo presto si era messa pantaloni e scarponi  per camminare e lasciare la sua orma sulla pietra antica.
Quando la vedevo prendere il lungo bastone, le chiedevo sempre dove saremo andate,  anche se sapevo già la sua risposta.
“Si va a trovare tuo padre.”.
Per quel giovane padre che non ho mai conosciuto e che non sapeva della mia esistenza, io nascondevo la fatica in un fazzoletto, in cui avevo riposto un piccolo panino di miele e formaggio e nascondevo il sudore in una giacca diventata stretta.
Seguivo con la testa china il passo ritmato della mia mamma. Musica a percussione che batteva sotto la suola spessa dello scarpone.
“Quanto ci manca, mamma?”.
“Siamo arrivati. Dietro la curva c’è il papà che ci aspetta!”.
Quante salite, quante curve per arrivare ad una lapide di pietra!
Mio padre aveva voluto scalare la parete. Si era issato per una via che conosceva bene. Aveva messo un piede su di un costone, che aveva ceduto e si era staccato. Il suo volo di falco si era infranto in un burrone.
Si erano calati gli amici nella ricerca di quei miseri resti, ma invano.
“Il tuo papà amava troppo la montagna per separarsene. Lei l’ha voluto con sé per sempre.”.
“Mamma la montagna è cattiva. Lei ha portato via il mio papà.”.
“No! La montagna è buona. Per il troppo amore che aveva per lei, lui ha perso la sua vita. L’amore profondo ha radici che stanno nel centro del cuore. Se tu ami la montagna, sai già che sarà un amore incondizionato. Sarà per sempre! Lui volle perdersi tra le sue braccia. Più forte di quello di una moglie. Più profondo di quello di una figlia ancora chiusa nel buio di un ventre.”.
Ci arrampicavamo poi fin sulla vetta. La croce di ferro graffiata da numerose scritte rappresentava il segno che tanti uomini erano passati di là.
Mia madre si metteva in ginocchio e pregava. A voce alta, anche se c’era qualcuno con noi,  lei pregava.
“Buon Dio dell’orizzonte stai vicino a me ed alla mia bambina. Non far crescere l’erba dell’indifferenza nei nostri animi, ma accendi la lampada della fede che ci indichi la strada per andare avanti.”.
Così quel luogo diventava chiesa. Un altare all’aperto, dove le cime si perdevano nella foschia di aliti sacri ed eterni.  E lì ogni volta succedeva il miracolo.
Altre persone, vedendo mia madre, si inginocchiavano e pregavano. Nessuno osava deridere questo semplice gesto, profondo. Alla fine, come se ci si conoscesse tutti, ci si abbracciava. Tutto aveva un senso. Non esistevano più i colori. Tutto era bianco come la neve.
 
Mia madre avrebbe voluto stare in quel paese per sempre, perché era l’unica realtà che la potesse capire. Cominciò però a vedere le cose in modo diverso, dato che io stavo crescendo.
Un giorno mi disse che si doveva partire. Lasciare il paese. Io dovevo studiare e lì non c’erano scuole. Così  mettemmo  nella valigia i  nostri  progetti,  poca biancheria,  tante speranze e partimmo.
 
Nella nuova città mia madre a poco, a poco si scolorì. La sua carnagione rosea lasciò il posto a tele bianche.
Con i pennelli cercava di rigenerare i colori che si ricordava della sua montagna. Gli anni passavano e le tinte erano diventate sbiadite, come se i ricordi si offuscassero nella mente.
“Mamma, vuoi che  andiamo a trovare papa? Vuoi?”.
“Domani andremo. Domani…”.
Lei mi rispondeva, ma quel domani non arrivò mai.
Sembrava che dai suoi quadri avesse ritrovato il surrogato di una felicità perduta. Ogni tanto mi diceva che sentiva il profumo del muschio, dell’erba appena tagliata… Non mi ero accorta che a poco, a poco si spegneva.  
Fu  un giorno  di neve  che lei,  guardando il quadro ed indicandomi le due figure, mi disse: “Vedi quella è la tua mamma che da la mano alla sua cara Bianca. Vieni. Stammi vicina. Abbiamo già fatto il primo tornante. Ridono i sassi sotto i piedi. Battono una canzone gli scarponi.
Quel giorno tuo padre era davanti a me. Mi sorrideva e mi diceva.
“Forza. Coraggio. Un altro passo, ancora. Vedrai amore come sarà bello! Tu mi guarderai che scalo la parete.  La roccia è dura come la pelle di noi montanari, ma dentro ha una linfa fluida che fa scoprire il nostro cuore. Picchia il martello il chiodo. Il braccio muscoloso sa che la montagna non opporrà resistenza. Lei vuole essere scalata. Ti mette alla prova, ma vuole essere soggiogata dalla tua passione.”.
Così parlava tuo padre ed io provavo invidia  per quella donna che spesso me lo portava via. Guardavo la lunga corda gemere tra le mie mani, mentre la figura del mio uomo si abbracciava a lei. Sentivo il suo respiro ansimare. Madido di sudore per una ossessione che l’avrebbe un giorno tradito. Se la sognava anche di notte in incubi d’amore. Si svegliava, sudato come se avesse provato un orgasmo. Quell’essere l’aveva stregato.
“Domani –mi diceva-  Domani riuscirò  a  scalare  altre vette. Vie sempre più difficili.”.
Lui non sapeva che ti avevo già nel ventre. Lui mi aveva promesso che sarebbe cambiato, quando avesse scoperto che cosa significasse essere padre. Stavo giorni in attesa del suo ritorno. Contavo le ore. Bastava una telefonata per farmi contenta. Poi mi ritornava l’angoscia. Era un’angoscia positiva, perché quando tornava, lo baciavo, lo abbracciavo, lo tenevo stretto. E si faceva all’amore. Lui con me era felice.  Ritornava però sempre col pensiero a lei ed  io mi sentivo esclusa.
“Ho deciso di andare con i miei compagni. Si vorrebbe scalare il monte….”.
E mi sussurrava il nome di un monte nuovo. In ogni nome diverso ci vedevo sempre lei. Lei che me lo portava via.
“Perché non stai qui con me? Non ti basto io?”.
Lui mi sorrideva, mi dava un bacio lungo, ma partiva.
Io mi sentivo svilita. Non ero all’altezza di quella passione ardente, così lo lasciavo partire sempre. Per questo amore, odio avevo rabbia di non avere unghie sufficienti per graffiare la mia avversaria.
Provo ancora il senso di colpa, per non essere stata presente quel giorno. Non ero là a tendere la corda. Quando la roccia ha ceduto, lui si è sfracellato nell’abisso e si è trovato solo. E potevo esserci, perché quella volta era così vicino! Lui ha aperto le braccia in un volo, ma le ali dell’amore non l’hanno salvato.
Lei non mi ha ridato nemmeno il suo corpo. L’ha tenuto stretto nel suo ventre, incuneato nell’asprezza della sua seduzione eterna.
Quanto l’ho odiata! Si era portata via il mio giovane sposo ed a me non era rimasto niente.
I  suoi  compagni,  vendendo la  mia  sofferenza, hanno scolpito la lapide sulla roccia.  Risvegliando però in me il momento della caduta ogni volta che gli portavo un fiore.  
Poi ho capito che lei aveva ceduto. Lei mi aveva fatto un dono. Da quella morte uno spiraglio si era aperto.
Lei non è così crudele, perché mi ha regalato te.
Per una muta intesa lei aveva barattato il mio uomo per un figlio tutto mio, da non condividere con nessuno. Da custodire, da crescere per insegnargli le insidie, ma anche le bellezze che lei nasconde.”.
“Mamma, non ti sforzare. Non sei stanca? Dormi.”.
“Ormai la stanchezza non ha più senso. Le mie salite le ho percorse tutte. Io sto in pace. Non ho più voglia di dormire. Tuo padre mi sta aspettando. E’ dietro l’ultima curva. Questa volta io ci sarò. Lui non sarà solo e ritornerà ancora mio. Glielo ho chiesto e lei ha annuito. Nella neve della pace che mi sta coprendo. In questo lenzuolo bianco in cui affiora solo la mia testa, come un occhio scuro che guarda il mondo e si confonde tra realtà,  ricordo e sogno.
Io ho sorriso al suo cenno di assenso. In quel quadro ho dipinto il suo lungo sì. Là, dove si attenuano i contorni delle due figure si nota una “esse” sulla strada ed una “i“ che si arrampica fin sulla vetta. La tua mamma conosce bene la sua via, anche se è ammantata di neve.
Scusa se ti ho spronato a vincere la paura che avevi per lei. Scusa se ti ho convinto a seguirmi, provando fatica ed inquietudini. Volevo che dimostrassi a lei che tu eri forte. Forte e desiderosa di conoscerla come tuo padre. Un uomo che non ti ha mai conosciuta, ma che ti vive dentro. Questo amore indissolubile, lui l’ha riversato in te. Io l’ho solo risvegliato. Ho soffiato via le incertezze e tu hai assaporato con me, con  lui il gusto della montagna. Il desiderio che spasima e che si placa quando raggiungi con fatica la sua aguzza vetta. Una sfida di possederla e poi di essere accarezzato, di addormentarti in lei. Lasciami parlare ancora. Sono gli ultimi momenti in cui potrai toccare il mio corpo. Le mie parole rimarranno. Trattienile nel cuore.
Nelle sere limpide, in cui l’anima dondola nell’amaca di un tramonto tra le cime. Là io ci sarò.
Nei verdi alpeggi dove il profumo dell’erba tagliata rimescola le essenze della vita. Là io ci sarò.”.
Mia madre ebbe un sussulto. Mi guardò negli occhi e mi sussurrò ancora.
“Lì  nel  bosco  dei  tuoi  pensieri rivedo lei, la mia cara montagna. Nella pupilla dei tuoi sogni vedo tuo padre che ci sorride. Adesso arrivo. Ti ho ritrovato. Vengo.”.
Fu un lungo soffio di vento che me la portò via.
 
Ora nel buio di questa stanza, rischiarata solo dalla neve guardo le due figure perdersi lontano. Unite, ma annebbiate dalle mie lacrime.
Vuoto. Senso di solitudine. Sono sola. Contornata    da   quadri    inanimati  che  cercano  di trasmettermi qualcosa.
Non ho più baci da ricevere, o abbracci caldi in cui coccolarmi ancora. Sola, avvolta dalle mie incertezze e da questa neve che non smette, ma incessante fiocca.
E’ l’anima di mia madre che si sbriciola in neve?
E’ l’anima di mio padre che si mescola con lei?
Angoscia, paura di non sapere cosa mi aspetterà.
Sta la mamma vicina alla sua bambina. Sta sulla strada nel buio rischiarata solo da una luce gialla. Le due figure in silenzio camminano, tenendosi per mano. Il passo ovattato non fa rumore alcuno.
 
Come una furia che si stacca in valanga, che cresce e spacca il mio vuoto, preparo la valigia: la montagna mi aspetta.
Si ricompone davanti ai miei occhi il quadro antico.
Oggi è il tempo del domani mai arrivato.
Riconosco la casa, l’orto, il cancello. Tutto è rimasto intatto, come nel ricordo di una bambina.
Chissà perché tra il cemento ed il traffico il paesaggio si scompone e cambia.
Il ricordo della città è già opaco. Qui è tutto limpido, lucido, netto.
Prendo lo zaino e comincio il cammino. Con il capo chino, il passo cadenzato ritrova il camminamento giusto dei miei pensieri. Dopo la curva, ancora un altro sforzo, arriverò alla vetta.
Spesso mi lascio prendere dallo sconforto. Sento le gambe che tremano ed il respiro diventare pesante.
“Aiutami montagna! Accoglimi nel tuo abbraccio!”.
Dietro la curva c’è la lapide di mio padre.
Lo chiamo. Gioco con lui. “Papà sono qui.” E baro. “Come sei forte! Come sei diventata grande!” l’eco mi risponde.
Nel burrone scuro esiste solo il buio. Il falco vola nell’azzurrità del cielo e lo so che non si potrà mai sfracellare, perché ha troppa fame di celeste per arrendersi e prediligere il nero.
Anch’io ho sete di cielo. Mi arrampico quasi di corsa verso la croce. Mi inginocchio, ma non trovando le parole che mia madre  gridava  per   fare  il  grande  miracolo,  chiedo:
“Mamma, papà, dove siete?”.
La preghiera sale, scorre piano, si fa sussurro di vento.
“Non avere paura, Bianca. Noi siamo qui con te, oltre lo spazio, oltre il tempo.”.